lunedì 28 giugno 2010

Panama

E' sabato pomeriggio. Da decine di negozi e tavole calde arrivano gli eco di un commentatore animatissimo, che inframmezza la descrizione della partita USA-Gana a spot pubblicitari che appaiono nella banda inferiore della televisione (senza alcuna eccezione tutti tifano Gana). Dei bus locali dipinti a colori vivaci con delle tigri, dei diavoli, dei paesaggi, delle donne-fumetto in bikini o dei Gesu' Cristo con la tunica bianca passano facendo un rumore d'inferno per le stradine che tagliano l'avenida central, la strada pedonale che va da Plaza 5 de Mayo al Casco Viejo, la parte storica di Panama City, un quartiere allo stesso tempo molto ricco e molto povero, rione degradato de la Havana e qurtiere chic. Il Casco Viejo e' una striscia di terra circondata dal mare. A sinistra si vede lo skyline della citta' moderna, profili di grattacieli che ricordano Miami. A destra una serie di isole collegate tra loro che proteggono l'uscita delle navi dal canale di Panama. Il Casco Viejo e' una scacchiera di stradine che separano strabilianti edifici coloniali. Una buona parte completamente distrutti, di cui rimangono solo i muri esterni, mentre altri perfettaente restaurati. Nella stessa strada ci puo' essere un ristorante di puro design, a fianco ad un portone sfasciato da cui si intravede un'enorme stanza senza pareti, con vecchi mobili accatastati quasi alla rinfusa (la televisione perennemente accesa sulla partita). L'edificio doveva avere almeno tre piani, ma i solai sono crollati, lasciando un'enorme loft dal soffitto eterno. Per le stradine passano i SUV dei clienti dei locali notturni, davanti a famiglie intere scese in strada in ciabatte a prendere il fresco della sera. Un gruppo jazz contrattato da un bar per gringos suona motivi da ascensore, mentre cento metri piu' avanti tre uomini suonano con strumenti improvvisati (una vecchia chitarra, un secchio di plastica e una campana) note di salsa. I ricchi e i poveri che condividono - almeno per il momento - lo stesso quartiere.
Panama e' anche il vecchio e il nuovo: i resti della citta' spagnola rasa al suolo dal pirata inglese Morgan a sud, il quartiere della finanza nel centro e un'ammasso di ferraglia ritorta al nord. Pensavo fosse una discarica abusiva e invece ho scoperto che si tratta dell'ultima creazione di Frank Ghery, l'architetto visionario che ha costruito - tra le altre cose - il museo Guggenheim di Bilbao. L'opera deve essere ancora rivestita di pannelli multicolori costruiti in Thailandia e promette di stupire i futuri visitatori del museo della biodiversita' con linee ricurve sovrapposte.
Ma a parte la salsa, il panorama e le passeggiate sulla calzada de Amador, il lungomare che finisce in un porto il cui yacht piu' piccolo misura 15 metri, Panama City e' soprattutto il punto di arrivo e di partenza per tutti i cargo che vogliono attraversare l'America senza dover scendere fino all'Argentina. Enormi navi stracariche di containers (fino a 5000) stazionano al largo in attesa della luce verde. Per passare pagano fino a 360.000 dollari e la traversata dura 14 ore. Alla chiusa di Miraflor, la piu' vicina alla citta', hanno creato un centro per i visitatori, con tanto di annunciatrice che spiega da dove viene la nave, cosa trasporta, quanto ha pagato, dove va e se il capitano soffre di emorroidi. Le navi sono degli enormi bestioni domati da piccoli ma feroci rimorchiatori. Quando entrano nella chiusa vengono traianate da locomotrici elettriche che si muovono su rotaie dentate. Le navi piu' grosse, quelle costruite apposta con le dimensioni delle chiuse lasciano uno spazio di appena 60 centimetri tra un lato e l'altro.
A Panama ho passato tre notti in tre alberghi diversi. Purtroppo la pensioncina nel Casco Viejo carina, piena di bella gente ed economica era comprensibilmente strapiena. Mi sono quindi accontentato dell'hotel Colonial che sembra uscito da un film degli anni cinquanta, visto che non e' stato toccato da quell'epoca. C'e' ancora un cartello che dice di aspettare l'operatore dell'ascensore per montare. La moquette della mia stanza e' della stessa epoca e ha raccolto negli anni tutti gli odori delle persone passate di qua, non necessariamente i migliori. La finestra e' di puro decoro e lascia entrare tutti i rumori e gli umori della strada: sembra di stare ascoltando "Doo Bop" di Miles Davis. Il bagno e' di piastrelle bianche sbrecciate, la doccia - solo fredda - e' quasi senza acqua. Non fosse perche' alle undici di sera un uomo si e' messo a prendere a martellate un divano fuori dalla mia stanza seguendo l'istruzione della proprietaria e alla cinque di mattina il venditore di giornali ha iniziato il suo turno in strada, sarei rimasto sperando di vedere passare Humprey Bogart con un sigaro in bocca.
Il secondo albergo e' in un quartere piu' moderno e si chiama Residencial Cuba: ha la televisione, l'aria condizionata e varie decine di stanze tutte completamente vuote, cosa inspiegabile visto che quello a fianco - raccomandato dalla guida - e' strapieno. Durante il giorno non vola una mosca. Un anziano signore cammina per gli intricati corridoi semibui con un secchio e una scopa. Quando si fa sera capisco perche' le stanze sono vuote: i clienti entrano solo in coppia ed escono poco dopo. Per chi fosse interessato, al Residencial Cuba si puo' pagare anche ad ore, ed e' quello che praticamente tutti i clienti fanno.
Passare per Panama senza prendere un bus sarebbe un peccato mortale. Alcune fermate sono piu' o meno riconoscibili, mentre altre si indovinano per la quantita' di gente che scruta l'orizzonte in direzione del traffico. Il difficile non e' tanto vedere se il bus arriva o no. La vera arte sta nel capire dov'e' diretto, perche' mentre i messaggi etico-morali tipo "Jesus salva mi vida" sono dipinti a caratteri cubitali, la destinazione e' scritta su una piccola placca attaccata con due mini-ventose al parabrezza. Anche riuscendo a leggere la scritta, non si capisce molto di piu' perche' puo' essere qualcosa come "España" o "Ruta 2" o "Calle 12". Per capire veramente dove va il bus bisogna ascoltare l'amico ciccione dell'autista che urla la vera destinazione finale. Una volta sul bus si ha diritto a della salsa a tutto volume per tutta la durata del tragitto. Si paga quando si scende, probabilmente per essere sicuri che l'autista prenda un minimo di precauzioni per risparmiare la vita alla maggioranza dei passeggeri.
El diablo

sabato 26 giugno 2010

Boca Brava

La isla Boca Brava e' una delle decine di piccolissime isole dell'arcipelago di Chiriqui. C'e' solo un posto in cui dormire e io ne sono il solo cliente. E' gestito da un adolescente obeso , una ragazza che comunica a gesti (pochi e molto lenti) e un ragazzino che non fa altro tranne dondolarsi nell'amaca e fumare (i proprietari tedeschi sono via). Piu' "off the beaten track" di cosi' non si puo'. Non c'e' un gran che da fare tranne camminare per un sentiero, fare il bagno e fare kayak tra gli isolotti deserti e coperti di vegetazione. Dimenticavo, sull'isola c'e' anche una televisione seguita da un piccolo ma fedele gruppo di aficionados del luogo che vengono a farsi una birra e che non si perdono neanche un secondo del mondiale.
Volevo partire da Boca Brava alle 5.45 di mattina. Ho messo la sveglia alle 5.30, ma mi sono svegliato alle 6.30. Mi ero di menticato di cambiare l'ora al mio cellulare (Panama e' un'ora avanti rispetto al Costa Rica). Per partire, visto che tutti dormivano della grossa sull'isola, ho dovuto sbracciarmi verso un pescatore di aragoste che stava tornando in porto con un piccolo bottino.
Un tassista abusivo, logorroico e sdentato, mi ha portato verso la panamericana assieme ad un'altra cliente. Per tutto il tragitto hanno parlato di una donna che si e' fatta fregare in una transazione immobiliare in cui c'e' un gringo di mezzo che stava comprando terra nella zona. Forse e' lo stesso gringo che ho incontrato il giorno prima quando era venuto sull'isola a cercare i proprietari dell'albergo in cui stavo. Sembra stia cercando di comprare dei lotti per costruire un albergo a cinque stelle. Non parlava una parola di spagnolo e sudava copiosamente.
Real estate

venerdì 25 giugno 2010

Boquete

C'era una volta un tempo in cui Boquete era un'amena cittadina di montagna, circondata da campi di caffe' alle pendici del vulcano Bazu. Poi un giornale americano la elesse come "il miglior posto in cui andare in pensione" e gli arzilli vecchietti arrivarono a frotte, probabilmente dopo aver cercato la parola "Panama" sul loro mappamondo e aver comprato il libretto "Central American Spanish" della Lonely Planet. Ora Boquete rimane un posto da cartolina (sembra di essere in Svizzera), ma piena di cartelli "se vende", "se alquila", "lots for sale by owner" e di bar semi-chic che condividono lo stesso marciapiede dei comedor locali che non sono cambiati di un millimetro. In un locale vicino alla piccola piazza centrale, un gruppo di gringos piuttosto attempati si ritrova per il barbeque domenicale, con la Budweiser di rigore (la Balboa, la birra locale, non sembra essere abbastanza buona).
Un po' per pigrizia un po' perche' mi fa un po' male il fianco sinistro, decido di abdicare l'ascensione del vulcano (dormire in tenda sotto la piioggia a piu' di 3000 metri non e' proprio invitante. Decido invece di optare per i "pozos de Caldera", le fonti di acqua termale di un paese vicino. Ci sono tre modi per arrivarci: prendere un tour organizzato (40 dollari), prendere un taxi andata-e-ritorno (18 dollari) o prendere il "colectivo" per David scendendo all'incrocio con la strada per Caldera (75 centesimi di dollaro) e aspettare. Di li' a poco un signore con una piccola Toyota si ferma e mi fa salire assieme alla signora che aspettava con me. Per un dollaro ci porta a Caldera. Poi bisogna camminare - chiedendo indicazioni a contadini con facce da indios - una quarantina di minuti tra campi, ruscelli e sentieri per arrivare ad una casa da cui esce una signora rotonda che chiede due dollari: e' la padrona della terra in cui ci sono le pozze termali e il prezzo lo decide lei.
Le sorgenti appaiono tra l'erba e gli alberi, circondate da grossi sassi. Non c'e' nessuno tranne un uomo che sembra uscito da "Balla con i Lupi" e da una donna che potrebbe essere sua madre. La donna mi chiede di aspettare ad entrare nell'acqua, il tempo di fare un rituale sciamanico agitando le braccia e parlando in una lingua che non conosco. Dopo essermi immerso nell'acqua bollente, l'uomo mi dice - con uno strano accento - "toma agua gringo". Il gringo sono io, mentre l'acqua che dovrei bere e' quella della pozza in cui si e' appena immerso lui. Considerazioni di igiene mi fanno decidere contro il suo consiglio.
Visto che la donna continua a fissarmi con uno sguardo indagatore e che l'uomo non si muove, decido di prendermi un po' di privacy andando all'altra pozza, li' vicino, ancora piu' calda della precedente. All'intorno non c'e' nessuno, solo il cantare degli uccelli.

giovedì 24 giugno 2010

Verso Panama

Mezz'ora di barca per attraversare il golfo che separa Puerto Jimenez da Golfito, un'ora in un taxi collettivo con ottima colonna sonora messa a disposizione dal tassista (Pink Floyd, Bruce Sprongsteen, Dire Straits) e si e' alla frontiera con il Panama. Una strana sensazione di sollievo mi pervade quando metto piede dall'altra parte. Per quanto bello sia il Costa Rica, manca di autenticita' e si e' sempre trattati da turisti.
La prima persona che incontro dalla parte panamense e' un uomo che si sbraccia nella mia direzione. Penso che voglia vendermi qualcosa o convncermi a prendere il suo taxi. Invece mi sta solo indicando dove si trova lo sportello dell'immigrazione, ben nascosto tra negozi e altri uffici.
A David - la seconda citta' del Panama che sembra una versione tropicale di Montebelluna - le macchine hanno le bandiere delle principali squadre di calcio del mondiale, spesso due bandiere diverese (tipo Brasile e Spagna o Argentina e Italia). Per essere la nazione che ha dato i natali a Mariano Rivera, il pitcher dei New York Yankees che e' gia' mito ancora prima di andare in pensione, non e' male. Alla stazione dei bus c'e' una folla di uomini, donne, vecchi e bambini ipnotizzati da un televisore al plasma. Lo sfondo e' verde, i giocatori sono per meta' bianchissimi e per meta' nerissimi. Camerun-Danimarca e' senza dubbio la partita piu' bella di questo mondiale, almeno fin'ora. Molte persone devono aver perso il bus o aver deciso - come me - di prendere quello dopo. Il calcio puo' essere noioso, ma quando palpita cosi' forte e' una calamita senza pari.
2-1

mercoledì 23 giugno 2010

Parque Corcovado

La sveglia suona presto. Il "colectivo" per il parco del Corcovado parte alle 6. Piu' che un bus e' un camion con delle panche messe per lungo. La strada e' un susseguirsi di buche e piccoli ruscelli. Ci si mette due ore e mezza ad arrivare ad una spiaggia larghissima battuta da onde alte a ricciolo. Per fortuna c'e' il sole.
A sinistra il mare, sorvolato da piccoli stormi di pellicani che sembrano divertirsi a volare a pelo d'acqua, salendo e scendendo a seconda delle onde. A sinistra la foresta, con stormi di pappagalli rossi, gialli e blu che si alzano in volo dagli alberi. Dopo aver camminato per un'oretta sulla spiaggia, una mezz'oretta per il sentiero nella foresta, aver attraversato a guado un ruscello e aver di nuovo camminato sulla spiaggia, ho deciso di fermarmi. Per una volta non avevo voglia di camminare troppo e oggi non era giornata: "blues" direbbero gli inglesi e "cafard" direbbero i francesi. Un misto di crisi di mezza eta' anticipata e dubbi esistenziali posticipati, acuiti da un sentimento di solitudine.
La piccola depressione e' scacciata sa un forte richiamo della natura, sia metaforico che materiale - dopo due giorni d'inusuale stitichezza. Mi sono reso conto troppo tardi che i pezzi di carta igienica che ero convinto di avere in tasca erano invece rimasti in albergo. Accucciato ai bordi della foresta mi sono ricordato di aver letto che Moravia e la Morante si ritrovarono in una baita di montagna senza carta igienica e con la Bibbia e I Fratelli Karamazov come unica fonte di carta. Di fronte ad una simile scelta scatologico-morale, ho deciso di risparmiare questa umiliazione alla mia Settimana Enigmistica e di preferire le foglie ai fogli.
IL viaggio di ritorno e' stato arricchito, oltre che dalle scosse dell'andata, da un bell'aquazzone che ci ha accompagnati dall'inizio alla fine. Ho ringraziato il mio poncho giallo che mi risparmiato una doccia prematura.
Scottex

domenica 20 giugno 2010

Puerto Jimenez

La stazione dei bus Alfonso Lobo e' un edificio anonimo e cadente immerso nel quartiere piu' povero di San Jose, lontano dai centri commerciali dove i negozi fanno a gara a chi ha i prezzi piu' alti. Un uomo in attesa del bus chiede ad un altro passeggero "qui rubano ancora?" e l'altro gli risponde "un po' meno di prima".
Il tragitto fino a Puerto Jimenez dura quasi otto ore, inframmezzate da una pausa pranzo in cui riesco a vedere scampoli di Francia-Messico (scopriro' piu' tardi della sconfitta francese, ormai cosi' abituale da non suscitare lo stesso piacere di una volta). Scopro anche tutto lo scopribile sulla vita delle tartarughe, grazie a Phoebe (pronuncia "fibi"), un'etologa inglese che lavorera' tre mesi in un centro d'osservazione nel sud ovest del Costa Rica. Per la cronaca, le tartarughe "leatherback" mangiano le meduse, quelle verdi mangiano alghe, mentre un terzo tipo di cui non ricordo il nome mangia crostacei. Il numero di uova cambia da specie a specie, mentre non si sa ancora quanto possano vivere (le prime tartarughe sono state "etichettate" cinquant'anni fa e sono ancora vive). Essendo animali a sangue freddo, quando capitano in una corrente fredda, il metabolismo si blocca e rimangono immobili a galleggiare. Se qualcuno dovesse trovarle, puo' aiutarle versandoci sopra dell'acqua calda. Al contrario, mai aiutare un piccolo di tartaruga ad arrivare al mare perche' ha bisogno di almeno 6 metri di camminata per poterci tornare trent'anni dopo a nidificare (come faccia ritrovare lo stesso posto e' ancora un mistero).
Oltre alle tartarughe, la mia compagna di viaggio ama tutti i rettili. Ha lasciato a Londra, accuditi da una madre molto paziente, tre dragoni australiani, un serpente strangolatore, oltre che cinque gatti e un cane. Sembra che la passione per i rettili le sia venuta da suo nonno che lavorava come addestratore di animali per il cinema. Suoi erano gli animali di Guerre Stellari e Indiana Jones (per la cronaca, le gambe che entrano in una vasca di serpenti nel primo Indiana Jones sono dello zio di Phoebe, all'epoca giovane. L'attrice si era rifiutata di entrarci).
Puerto Jimenez offre una vita notturna vivacissima. Si va dalla discoteca che spara pessimi merengue in un locale completamente deserto (in compenso la birra costa poco) al bar-ristorante-karaoke popolato da "borrachos" locali che fischiano all'entrata dell'unica donna abbastanza coraggiosa dal farlo. La musica e' esclusivamente composta da "rancheras" messicane tra le piu' brutte in circolazione (il che vuol dire veramente orribili perche' la musica ranchera fa cagare di suo). Da bere ci sono due opzioni: cerveza Imperial o cerveza Pilsen (la seconda che hai detto).
El caballo baio

sabato 19 giugno 2010

Poas

Il vulcano Poas deve essere l'unico vulcano attivo che si puo' raggiungere per una strada asfaltata. Questa e' anche la ragione per cui, invece del Costa Rica, sembra di essere a gringolandia.
Il bus parte dal centro di San Jose' ed ' gia' carico di turisti. Attraversa le piantagioni di caffe' vicino a Alajuela per poi prendere la strada piena di curve che arriva all'entrata del parco. Dopo aver pagato dieci dollari e aver camminato dieci minuti, si ha diritto a vedere un'enorme distesa di nebbia che se ne sta bella tranquilla a bloccare la vista del cratere fumante. Per vedere qualcosa bisogna arrivare all'alba, ma questo non sembra nei piani dell'autista del bus che fa il tragitto andata e ritorno negli orari che attraggono piu' gente.
Invece del vulcano, ho il privilegio di osservare branchi di adolescenti americani in gita. Ci sono le ragazze con lo smalto arancione che danno da mangiare ad un passerotto obeso per fargli la foto, i ragazzini che frustano le piante con rami strappati in precedenza, la guida che dice esattamente le stesse cose che si possono leggere sui cartelli facendo battute gia' dette mille volte in precedenza e le coppie di mezza eta´che fanno la foto alla nebbia come se fosse la Gioconda. Un uomo grida al vento "go baby go!" incitandolo a soffiare piu' forte per spazzare via la nebbia, mentre un altro si fa la foto - facendo la faccia da duro - accanto al cartello che dice "2640m Volcan Poas". Sua moglie evita di prendere il cartello con il simbolo dell'accesso facilitato con sedia a rotelle.
Aspettando di riuscire a vedere qualcosa, mi lancio in una "ricerca di parole crociate" in cui non ci sono quadrati neri e non si sa dove siano i numeri. La cosa mi occupa per un bel po', finche' il "go baby go!" ha un effetto insperato e la nebbia si assottiglia per lasciare intravedere un cratere lunare con una bocca di fuoco da cui esce una fumata bianca dall'ordore sulfureo. Il tempo di fare una foto e la nebbia ha ripreso il sopravvento.
Sulla via del ritorno inizia la tradizionale pioggia pomeridiana. Do' un'occhiata a souvenir pacchiani venduti per prezzi da strozzinaggio e risalgo sul bus in tempo per assistere al secondo diluvio universale della storia, con fiumi di acqua che si riversano per le strade.
La sera a San Jose' mi riprendo a casa di Marine per poi uscire caccia di salsa, quella musicale: un gruppo di quattordici elementi - i "Madera Nuova" per chi fosse interessato al CD - si lanciano in una serie spettacolare di salse cubane e portoricane che risveglino l'istinto del "rey de la salsa" che si era sopito in me. Sfidando il ridicolo, mi lancio varie volte nella mischia sperando che gi spettatori si concentrino sui miei vicini che ballano tra vortici di "dile que no" piuttosto che su di me che tento di riprendere il ritmo guardandomi i piedi.
Volar volar tan lejos

venerdì 18 giugno 2010

Apocalypse Now

Sulla lancia che percorre il rio Tortuguero, sembra di essere in 'Cuore di Tenebra' di Conrad oppure Martin Sheen che percorre le foreste vietnamite per andare a uccidere un Marlon Brando calvo e impazzito: "the horror, the horror!".
Il paese Tortuguero è minuscolo e vive essenzialmente dei turisti che arrivano fin qui (quasi tutti con tour organizzati o in aereo) per vedere nidificare le tartarughe e fare un giro per il parco nazionale.
Purtroppo niente tartarughe all'orizzonte a metà giugno, nonostante un vano tentativo di avvistarle (due ore di camminata al buio sulla spiaggia, tra scrosci di pioggia inciampando su pezzi di legno). In compenso il giro in canoa per la laguna e le diramezioni del rio ne valeva la pena: aironi bianchi, aironi tigrati, aironi ciccioni e aironi sfigati. E poi iguane che prendono il sole sui rami degli alberi, scimmie e baby-caimani in attesa di diventare grandi.
Per quanto lontano da tutto, anche a Tortuguero arrivano gli eco della coppa del mondo. Pare un po' irreale vedere Serbia-Cemerun su una striscia di terra tra un mare in cui nuotano gli squali e una laguna in cui vivono le lontre. Sia come sia, la vittoria del Camerun mi è sembrata leggermente immeritata, anche se il rigore c'era tutto.
Eto´o

martedì 15 giugno 2010

Puerto Viejo

Puerto viejo e´ un po'la Riccione del Costa Rica, con la differenza che il mare e´caraibico e non ci sono costruzioni piu´ alte di due piani. Probabilmente durante l´alta stagione deve essere piena di gringos vacanzieri (e probabilmente molto insopportabili). A sentire Gabriele, l´italiano che gestisce - quando non guarda la televisione - l´albergo in cui sto, in questo momento é bassissima stagione. In giro c´é poca gente e non c´é traccia delle feste annunciate dalla mia guida. Forse é meglio cosí.
La strada che va da Puerto Viejo a Manzanillo e´una striscia piatta di tredici chilometri che costeggia la costa. E' piena di cartelli che indicano alberghi, lodges, cabañas ben nascosti dalla vegetazione. Vale la pena pedalare fino a Manzanillo e fermarsi qua e lá su qualche spiaggia a fare il bagno. Anche quando piove o é nuvoloso l´acqua é comunque calda. Grazie alla benedizione della bassa stagione e della bassa marea, la spiaggia è enorme e completamente deserta. Il posto ideale per fare le parole crociate a schema libero di Bertezzaghi. La Settimana Enigmistica mi è costata ben 12 dollari in una mall da fighetti di San Josè: un po' cara, ma una spiaggia non è vera spiaggia senza l'Edipeo Enciclopedico e le vignette che parlano di donna incapaci in cucina e uomini fannuloni.
La Sfinge

lunedì 14 giugno 2010

Bocas del Toro

I panamegni hanno la faccia da banditi, ma per il resto sono molto gentili e disponibili. Per la gente e la musica (la salsa e´ubiqua) sembra di essere in Colombia. In effetti, fino al 1903, Panama era una provincia colombiana, prima che una provvida secessione dell´ultima ora fornisse agli Stati Uniti tutti i diritti sul futuro canale.
Nell' arcipelago di Bocas del Toro si ritrova la tipica atmosfera caribegna: bambini che giocano a baseball per strada, case di legno costruite su palafitte, donne sedute sul portico, pelli scure. Lascio Isla Colon - un concentrato di hotel, ristoranti e agenzie turistiche - per andare a Bastimentos, a soli dieci minuti di barca (e un totale di 10 turisti al massimo). Come il resto delle isole dell´arcipelago, anche Bastimentos e´ appartenuta alla United Fruit Company (banane), come del resto la gran parte delle terre dell´entroterra.
Lavorare non e´la priorita´degli abitanti dell´isola. Meglio giocare a carte o a domino. Il posto in cui faccio colazione e´in teoria un ristorante. Un po´difficile da trovare a causa di una minuscola insegna illeggibile. Per arrivarci bisogna scendere delle scale, entrare a casa di qualcuno (immagino dei proprietari ma non ne sono convinto) e attraversare una passerella. Il menu non e´un gran che, ma la vista sul mare e´senza prezzo. A fianco a me cinque donne stanno mangiando pollo fritto e bevendo birra alle nove di mattina. Parlano lungamente e con dovizia di particolari di una bambina che e´caduta e si e´ fatta male ad un labbro, praticamente l'evento del mese. Capisco solo una parte della conversazione perche´ alcune parlano in inglese, altre in spagnolo e altre ancora in una strana lingua che ha parole di entrambe. Si chiama gui-gui o qualcosa di simile.
A Bastimentos non c´e´molto da fare tranne camminare per l´unico marciapiedi (non ci sono macchine) che e´ lungo meno di un chilometro. Prendendo un sentiero che si inoltra nel bosco si arriva ad una spiaggia di sabbia bianca e onde alte dove surfisti in erba tentano di darsi da fare e bagnanti intrepidi sfidano le onde assassine. Dopo aver letto le istruzioni su come comportarsi se si e´ presi da una corrente, faccio il bagno allontanandomi il minimo dalla spiaggia (non vale la pena andare dove non si tocca).
A Bastimentos l´orologio e´ cosi´ poco importante che rimango tutto il tempo con l´ora del Costa Rica, senza accorgermi che qui c´é un´ora in piu´. La sera incontro un tipo molto logorroico che vuole fare conversazione. Mi spiega che si è appena fatto una striscia di coca e che non è ora di andare a dormire. Altra gente per strada saluta e inizia a conversare. Alcuni con fini di lucro ("vuoi marijuana?") altri per passare il tempo. Immagino che a forza di vedere le stesse persone venga voglia di parlare con una faccia nuova.
Caribegno

domenica 13 giugno 2010

La Repubblica delle Banane

La strada che da Cahuita porta al confine con Panama e´costeggiata da un unico, interminabile, campo di banane. Qui l´Uomo Del Monte controlla - con il vestito bianco, il panama in testa, gesti sicuri e fare paternalistico - che le banane arrivino sui banchi della Coop in perfetta forma.
Il confine tra Costa Rica e Panama sembra il set di un film: un vecchio ponte di ferro che unisce i due lati di un lento fiume limaccioso. In mezzo delle assi di legno e delle vecchie rotaie in disuso su cui ora passano traballando enormi camion americani a passo d´uomo. In compenso passare le formalita´ doganali e´piu´veloce che fare la fila al supermercato e si e´dall´altra parte senza neanche accorgersene, non fosse per il sempiterno rompiballe spenna-turisti che vuole convincermi ad andare a Bocas del Toro con il suo shuttle.
Rifiuto dietro discreto consiglio di una panamense a cui avevo chiesto come si chiama la moneta locale e che non mi aveva saputo rispondere. Scopriro´che si chiama "Balboa", come Rocky. In realta´ e´ una moneta virtuale perche´ ha una parita´di 1 a 1 con il dollaro che e´ utilizzato ovunque, anche per piccoli importi. Anche i Balboa, come i Lempiras (Honduras), Cordobas (Nicaragua) e Colones (Costa Rica) prendono il nome dal primo conquistador che ha piantato una bandiera spagnola su queste terre nel sedicesimo secolo. E´ un po´ come se un paese del Maghreb chiamasse la sua moneta Napoleone III oppure Charles De Gaulle.
Bolaffi

giovedì 10 giugno 2010

Cahuita

I ticos, gli abitanti del Costa Rica, fanno a gare con i nicos, gli abitanti del Nicaragua, a chi fa il miglior gallopinto (riso con fagioli). Non so chi vinca, visto che una disputa culinaria meriterebbe un opiatto upiu´ degno. Entrambi mangiano pollo non-stop. Alla stzione dei bus per il caribe di San Jose ci sono cinque baracchini che servono esattamente lo stesso cibo e allo stesso prezzo, contro tutti i principi del libero mercato (se Adam Smith fosse nato in Costa Rica avrebbe fatto i miliardi vendendo pizza).
Il bus per Cahuita sembra una scolaresca di americani in gita: infradito, pantaloni corti e smalto sulle unghie dei piedi, sintomo che si tratta di viaggiatrici di corto termine (in generale le vere backpackers non possono permettersi il lusso della pedicure). Il bus lascia in fretta le strade squadrate di San Jose per penetrare in una vegetazione lussureggiante dove il verde non lascia spazio a nessun altro colore: un muro di piante sia a destra che a sinistra, per chilometri e chilometri di curve sinuose, scendendo dalle montagne verso il mare. Ad un certo punto si scorge dall'alto la costa caraibica, ma ci vorranno piu' di due ore per arrivarci.
Limon, la prima citta' sul mare, e' annunciata da enormi depositi di containers: Maersk, Hamburg, MSC. Tutte le grandi compagnie internazionali di logistica e trasporto sono presenti. Limon e' il porto da cui transita tutto cio' che e' prodotto in Costa Rica (principalmente banane e caffe') e tutto cio' che vi e' importato. Come tutti i grandi porti, anche Limon e' pieno di night club tendenti allo squallido con le puttane di rito. Forse per farsi perdonare questi peccati veniali, Limon e' anche piena di chiese. Sulla strada che costeggia la costa c'e' una striscia infinita di croci che indicano una chiesa anglicana, un tempio del settimo giorno, una chiesa avventista, una chiesa quadrangolare, la sala dei testimoni di Geova e una normale chiesa cattolica.
Arriviamo a Cahuita che sono le otto e mezza di sera, ma sembra mezzanotte. Per trovare un taxi bisogna camminare verso l'unica strada e farsi aiutare da un rasta ubriaco, tipico personaggio caraibico. Il tassista e' ancora piu' ubriaco e/o fumato del rasta, ma ci porta a destinazione - albergo "piscina naturale" - dove un tale William fa gli onori di casa una volta tirato giu' dall'amaca dal suddetto tassista. William sembra avere una gran passione per il rhum.
La mattina ci si sveglia con il suono delle onde e di un caterpillar che sembra stia sradicando il muro portante della stanza. William si sta riprendendo bevendo Coca Cola, mentre la padrona di casa - un'americana di una cinquantina d'anni - sta armeggiando con un badile. Il giardinaggio e' la sua passione e nel giardino sembra di stare nell'Eden: manca solo l'albero di mele ed il serpente.
Il parco nazionale di Cahuita e' il piu' visitato del Costa Rica, non necessariamente perche' sia il piu' bello, ma perche' e' il piu' accessibile, visto che l`entrata e` praticamente in paese. Si tratta di un'interminabile spiaggia bordata da foresta con le ormai solite scimmie urlatrici, ragni, serpenti, enormi farfalle blu e bradipi che pero' non si fanno vedere. Verso la fine del sentiero riceviamo un passaggio da una pattuglia di polizia che e' particolarmente gentile oppure particolarmente affascinata dal decollete' della mia amica Marine. Sia come sia, a caval donato non si guarda in bocca. Il resto della strada la facciamo con tre francesi di mezza eta´ che ci offrono anche loro un passaggio.
Il sabato sera a Cahuita mi ricorda - con tutti i distinguo del caso - Gorizia degli anni 90. C'e' il pub in cui si balla (non sui tavoli e solo musica latina) con molti uomini che guardano le poche donne ed il locale in cui c'e' una band locale che al posto di "Fredda Gorizia" suona cover di Bob Marley seguita da un piccolo stuolo di gioventu' eccitata e da coppie in bermuda che lasciano scoperte cosce troppo bianche a muoversi fuori tempo.
Professor Rutto

domenica 6 giugno 2010

Cerro Chirripo'

L'uomo è un animale irrequieto. Appena identifica un limite cerca il modo di superarlo. Ogni ostacolo vinto sembra un gradino verso la libertà, la vittoria finale.
Non posso passare per il Costa Rica senza salire sulla vetta piu' alta, il vulcano Chirripo', a 3819 metri. La salita dal paesino di San Gerardo - composto da un campo da calcio, una chiesa, un negozio, quattro o cinque posadas e altrettante case - ha un dislivello totale di 2500 m.
Si inizia alle 5 di mattina, con il sentiero - vagamente illuminato da un chiarore mattutino - che sale rapidissimo e scivoloso nell'omnipresente foresta tropicale. Dopo mezz'ora sono già stanco e mi siedo a guardare la vallata percorsa da un torrente vorticoso e piu' lontano ancora le luci della cittadina di San Isidro. Passano senza fermarsi due terzetti di camminatori. Li ritrovero' piu' avanti, anche loro stremati dall'alzataccia, dal sentiero ripido e dall'umidità. Poco a poco mi riprendo e faccio i primi 1000 m di dislivello in poco piu' di due ore. Il sentiero si inerpica nella foresta che diventa ancora piu' densa e umida, tanto che molte delle piante non hanno bisogno di radici ma si nutrono direttamente dall'aria. Avvolto nella nebbia non capisco se sta piovendo oppure le goccie sono la condensa dell'umidità.
Dopo 1500 m di dislivllo inizio a sentire i primi sintomi di stanchezza. Lo zaino pesa sempre di piu'. Ad un certo punto trovo un cartello che dice:"Il passo si fa lento, le energie si trasformano in fatica, rimane solo la forza di volontà". Non poteva esserci frase piu' appropriata.
Gli alberi si fanno piu' radi, comincia a fare freddo, la pioggerella diventa pioggia. Tiro fuori il mio poncho giallo e arranco verso il rifugio che è solo a 1 Km di distanza, il chilometro piu' lungo e faticoso della mia vita. Sulla porta del rifugio incontro un tipo barbuto in tenuta "runner" che è venuto su correndo. Intirizzito, con le dita congelate, mangio qualcosa tentando di scaldarmi. Guardo l'orologio: sono le 11 di mattina, ci ho messo 6 ore. Il record della corsa che si organizza ogni anno è di 3 ore e 10 minuti per gli uomini e 3 ore e 50 minuti per le donne. I facchini che lavorano per i turisti ci mettono 4 ore con 14 chili sulle spalle.
Il resto della giornata si sta tutti in rifugio perchè piove in continuazione: giochi di carte e ciaccole. Alle 5 e mezza si cena, nel mio caso una minestra fatta con zuppa di funghi Knorr, sottomarca di pasta e liofilizzato di purè: una vera schifezza, ma abbondante e calda. Si va a letto alle 7.
La sveglia suona alle 2 e 45. Buio pesto, non c'è elettricità. Esco dal sacco pelo ed entro nei pantaloni e giacca a vento. Alle 3 sto camminando nel buio del sentiero fangoso con l'aiuto della mia provvidenziale lampada frontale. La luna appare e scompare da dietro le nuvole. Benchè il dislivello totale dal rifugio alla cima sia di soli 400 m, il percorso è lungo a causa di continui saliscendi. L'ultima rampa è micidiale: praticamente verticale, rocciosa e scivolosa. In compenso in cima, senza nessuno attorno, ci si sente Dio: montagne a destra, montagne a sinistra, laghetti in basso, il sole che farà capolino tra poco (sono le 4 e 40 del mattino). Arrivano i pochi altri desperados che hanno deciso di vedere l'alba come me: 3 americani e 2 canadesi.
Via via che il sole si alza, i neri profili delle montagne diventano verdi (quelle vicine) e blu (quelle lontane). Verso est si staglia la costa caraibica, mentre verso nord si vede la fumata bianca del vulcano Arenal. Il Pacifico è invece avvolto dalle nuvole che stanno scaricando acqua da due giorni. Rimaniamo tutti ipnotizzati dallo spettacolo che abbiamo di fronte, uno dei piu' belli che abbia mai visto, con in aggiunta la soddisfazione per la difficoltá dell'ascesa.
Piu' che la salita, ora temo la discesa di 2500 m che faccio in tre tappe: la prima verso il rifugio, durante la quale incontro i ritardatari che salgono sulla cima senza sapere quello che si sono persi. La seconda a 1000 m piu' in basso, dove mangio un ottimo panino al tonno con l'ultima residua carota.
Quando mancano un paio di chilometri alla fine, con le gambe ormai traballanti, i piedi doloranti nonostante il doppio calzino e dopo aver lottato per due ore con delle insopportabili mosche, inizia a piovere. Il poncho mi ripara sommariamente dalle gocce, mentre nulla puo' contro il fango, che in realtà è vera e propria argilla.
In mezzo alla foresta, completamente circondato dalla nebbia e in un silenzio totale, si aggira un fantasma giallo che sta sciando senza sci e con un grosso zaino sulle spalle.
Quando vedo il cartello che indica la fine del sentiero mi sento quasi a casa.
Reinhold Messner

sabato 5 giugno 2010

San Jose

La primissima impressione del Costa Rica non è lontana dalla stereotipo della Svizzera del Centro America. I bus urbani sono nuovi e non emettono nuvolone nere di gas di scarico, le fermate sono fisse e hanno delle pensiline metalliche di design urbano. All'ora di punta, tutti i passeggeri sono seduti, nessuno in piedi. Una signora incinta chiede all'autista se puo' scendere in mezzo a due fermate. Il bus è bloccato nel traffico, immobile. L'autista, da vero svizzero, dice di no. In Nicaragua avrebbe fermato il bus in mezzo ad un incrocio e l'avrebbe accompagnata fino a casa. Per un'inspiegabile equazione, piu' un paese si arricchisce, piu' la gente diventa distante e inflessibile (oppure la casualità è inversa?).
Altri dettagli di vita quotidiana sottolineano la differenza tra il Costa Rica e i suoi vicini: i taxi hanno il tassametro, non fanno servizio collettivo e costano una fortuna. Le macellerie hanno dei veri e propri banchi frigo e nei negozi si trova della cioccolata d'importazione tra cui i Ritter Sport (papi puoi andare in Costa Rica senza problemi).
Ancora piu' che in Honduras, i simboli degli Stati Uniti si susseguono l'uno all'altro. Non solo le catene di fast food o le mall, ma addirittura l'architettura urbana: in molti quartieri di san Jose si ha l'impressione di essere a Los Angeles o a San Diego. Viene voglia di gridare "yankees go home", ma per molti gringos questa è casa loro. La signora molto loquace che mi siede a fianco sul bus per San Isidro, dopo avermi chiesto di dove sono, mi chiede se sono qui in vacanza oppure per viverci. In Costa Rica, come in Thailandia, americani ed europei vengono a migliaia, soprattutto da pensionati. Alcuni non parlano neanche una parola di spagnolo.
Gringo

venerdì 4 giugno 2010

Nicaragua - Costa Rica

Ha albeggiato da poco ed il sole risplende sull'acqua turchese del mare. La spiaggia e' piu' bianca del solito e non c'e' nessuno in giro. Andarsene dall'isola diventa ancora piu' difficile del previsto e mi chiedo se non devo rimandare la partenza un'altra volta come avevo fatto due giorni prima. Resisto alla tentazione dell'oblio e - zaino in spalla - mi muovo verso il molo per prendere la panga delle sette di mattina. Il cielo e' terso, ma in compenso il mare e' molto mosso e la panga fa fatica ad ormeggiare. Il conducente cerca di manovrarla mentre due uomini tirano delle corde per avvicinarla. Inizia a fare un movimento a pendolo e quando si avvicina abbastanza la gente ci salta dentro. Visto che quasi tutti i passeggeri sono donne sopra i cinquantanni e gli ottanta chili, mi metto a prua e ne tiro dentro un po', prima che la barca si allontani troppo.
Come all'andata, su richiesta di una ragazza vestita a festa che non vuole bagnarsi, viene tirato il telo di nylon sulle nostre teste. La panga prende un po' di velocita' ma le onde sono troppo alte e il viaggio diventa un alternarsi di accelerate e decelerate. La sequenza e' la seguente:
- Prima arriva una secchiata di acqua in faccia
- Poi la barca fa un tonfo cadendo dalla cresta di un'onda verso il basso
- Dopo una frazione di secondo un'altra secchiata d'acqua molto piu' potente si abbatte sulle nostre teste, scendendo sul nylon verso l'ultima fila dove sono seduto io. Per me e' divertente, mentre per la mia vicina vestita a festa non tanto.
All'arrivo al molo dell'isola grande siamo tutti intirizziti, alcuni con un principio di nausea. Mi fiondo in aeroporto per vedere se riesco a prendere il volo che parte tra mezz'ora, pur essendomi registrato per il volo seguente. La donna al check in mi fa aspettare un po', fa una telefonata, poi mi annuncia che c'e' un posto. Evviva.
L'aereo sorvola il blu della costa atlantica, il marrone dell'estuario del Rio Escondido che ho percorso in panga all'andata, il verde della foresta, con il verde piu' chiaro dei campi e dei pascoli, poi il lago Cocibolca, un vulcano e le strade squadrate di Managua.
Il taxi che mi porta alla stazione della compagnia di bus Tica fa il pieno di passeggeri e invece di metterci 20 minuti, ce ne mette il triplo, con il risultato che salgo sul bus Managua-San Jose de Costa Rica un minuto prima della partenza, senza poter mangiare ne' bere, incazzato come una iena. Mi aspettano sette ore di viaggio che diventeranno nove.
Rifaccio all'incontrario la strada fatta nelle settimane prima. Rivedo Masaya, Granada, l'isola Ometepe con i suoi due vulcani gemelli. Il paesaggio scorre sotto i miei occhi con la colonna sonora del mio lettore mp3: Ben Harper, Cheb Mami, Fossati, Louise Attaque.
Se tutte le frontiere hanno qualcosa di violento o innaturale, quella tra Nicaragua e Costa Rica e' in aggiunta brutta, caotica, polverosa e insopportabile. Si inizia con un'attesa di mezz'ora sul lato nicaraguanse, dove un cambiavalute multimilionario (e superonesto come tutti i cambiavalute) trasforma le mie Cordobas in Colones ad un tasso super conveniente (per lui). Il passaggio alla parte del Costa Rica ricorda un po' le frontiere della guerra fredda: quelli che non viaggiano in bus devono camminare per quasi un chilometro con i bagagli. Poi ci sono delle file interminabili al controllo passaporti. A noi ci fanno togliere i bagagli dal bus per ispezioanrli in modo sommario. Infine il bus passa per una specie di doccia purificante il cui scopo mi resta ignoto.
La ragione di tante stranezze e' molteplice. Da un lato il Nicaragua ha ancora il dente avvelenato con il Costa Rica per aver ospitato - suo malgrado - le milizie Contras e la CIA durante gli anni 80 poco lontano dal confine. C'e' poi la storia presente. Il Costa Rica e' il paese piu' ricco dell'America Centrale, il Nicaragua uno dei piu' poveri, il che vuol dire solo una cosa: immigrazione di massa e immigrazione clandestina.
Il viaggio verso San Jose procede in una specie di limbo. La tranquillita' e il silenzio dell'isola sono ormai solo un ricordo. Il presente e' fatto di sobbalzi, frenate ed accellerate, nonche' di un arrivo alle nove di sera a San Jose', con il solito, stronzissimo, bastardissimo tassista facciadimerda che se ne approfitta facendomi pagare quattro volte il prezzo reale, facendo un giro largissimo per portarmi casa della mia amica Marine. Medito vendette eterne contro i tassissti del mondo.
Terminator

martedì 1 giugno 2010

La islita

L'isola e' il paese dell'oblio. Dopo una notte non ci si ricorda gia' piu' che giorno e', ne' da quanto tempo si e' arrivati. Le ore sono scandite da eventi ciclici che si impara presto a decifrare. Le parole in miskito (lingua del caribe) di Rosa e le sue tre zie, che gestiscono il gruppo di capanne rustiche sulla spiaggia in cui alloggio, vogliono dire che sono le sette di mattina circa. Quando si vede passare sulla spiaggia un paio di persone con zaino in spalla vuol dire che sono circa le undici (sono quelli arrivati con la panga del mattino). Se la lampadina si accende nella capanna, e' arrivata la corrente e sono circa le due o le tre di pomeriggio. Il sole va a dormire e sono le sei. Tutto tace e sono le otto. Il niente e' la specialita' dell'isola. Non tanto perche' non c'e' niente da fare (si possono fare immersioni, snorkeling o passeggiare), ma perche' quasi tutti decidono di non far niente, tranne sonnecchiare nell'amaca, fare il bagno o al massimo leggere un libro (ma questo gia' costa una gran fatica). Abituato al ritmo frenetico del viaggio, i primi due giorni mi muovo come una trottola. Faccio il giro dell'isola in un paio d'ore, vado a fare snorkeling, vado a raccogliere i manghi che cadono dagli alberi, oppure noci di cocco. Poi inizio anch'io a non fare niente, con il massimo dell'attivita' ridotta ad attraversare l'isola per andare sul lato dove ci sono un paio di posti in cui mangiare: circa cinquecento metri a piedi per un sentiero. Sull'isola non ci sono strade, non ci sono macchine, non ci sono moto, rare le biciclette. Tutto cio' di cui si ha bisogno e' un costume. Opzionali sono le infradito e una maglietta. Se piove ci si bagna.
Sull'isola ci sono tre italiani oltre a me. Uno e' sedentario, arrivato qui tre anni fa. Si chiama Andrea, e' senese e sembra Robinson Crusoe': barba e capelli lunghi, abbronzatura totale, movimenti sonnambuleschi. Lo trovo che sta preparando la cena. Se si vuole mangiare da lui bisogna prenotare la mattina per la sera perche' Andrea non lavora di fretta. Questa sera ha due coppie e la cosa sembra gia' costargli una certa fatica perche' vogliono mangiare cose diverse. Il secondo italiano e' un piemontese che vive a Londra e al momento si occupa del controllo di qualita' della marijuana che si trova sull'isola, che secondo lui arriva qui direttamente dalla Jamaica. Un'attivita' effettivamente molto faticosa ma che sembra dargli una certa soddisfazione. Il terzo e' Alessio, operaio napoletano con la passione per le aragoste, che non sa come spendere i soldi che gli rimangono perche' mangiare costa troppo poco. In compenso sta risparmando sull'alloggio, visto che ha scelto il gruppo di capanne piu' economiche - secondo la sua definizione una "zozzeria" - popolate da un'umanita'varia. C'e' il giovane americano, nuova promessa del rock mondiale, che sta componendo una canzone da quattro settimane, unico altro cliente oltre ad Alessio. Il padrone non fa niente tranne raccogliere qualche foglia da terra scatarrando rumorosamente. E' assistito da un tipo che "esta' matando el tiempo", anche se non e' chiaro con che scopo, che nel resto del tempo libero fa il pusher, ma senza troppi affanni. Un altro personaggio e' un negrone con una cofana di capelli tinti di biondo che quando fa il bagno sembra una boa.
Essendo l'isola piccola, ci si conosce tutti almeno di vista. Le mie vicine di capanna sono un'israeliana che vive in America Centrale da due anni lavorando come volontaria, che e' arrivata sull'isola scendendo per un fiume su una zattera costruita assieme ad un suo amico. Si fa da mangiare utilizzando un fornello costruito con due lattine di birra e due scatole di sardine, alimentato ad alcohol. La sua amica e' un'argentina che sta viaggiando da un anno e mezzo, finanziandosi in parte vendendo braccialetti e collanine. Incontro anche Eline, la ragazza olandese con cui ho viaggiato un paio di giorni tra Honduras e Nicaragua, nonche' due israeliani che viaggiavano sul minibus verso Tikal in Guatemala. Ci sono anche vacanzieri di breve termine, che arrivano e ripartono in aereo e di solito stanno nei bunaglows piu' cari. Quelli con delle vere pareti (non solo assi di legno), magari una finestra e un vero bagno, magari con lo specchio, e che per accendere e spegnere la lampadina hanno un interruttore e non devono avvitarla e svitarla come me). C'e' anche un gruppetto di sei canadesi che potrebbero tutte fare la modella e che sfoggiano bikini da far invidia a Pamela Anderson, attirandosi l'amicizia gratuita e incondizionata di tutti i maschi dell'isola.
Islander