giovedì 29 luglio 2010

Il paradiso si trova a Pacallalta

A Pacallalta, un paese a 3.300 metri dell'Ecuador centrale dove la gente gira coperta fino alle orecchie, un negozio ha una vetrina piena di bikini.
Arrivare a Pacallalta da Otavalo doveva essere piuttosto semplice. Invece si trasforma in un gioco dell'oca di molte ore e cinque bus. Si inizia con un' attesa a bordo della Panamericana, con un poliziotto che assicura che il miglior bus - tra le decine che passano strombazzando - sta arrivando, bisogna solo aver pazienza ("ahorita llega, falta poco, diez minutitos mas"). Dopo 45 minuti, Claire ed io abbiamo una conoscenza dettagliatissima di tutti i crimini commessi contro gli stranieri nella regione nord-occidentale dell'Ecuador (furti, assalti, violenza varia), nonche' di tutti i turisti che sono morti o dati per dispersi tentando di scalare uno dei vulcani dei dintorni. Il poliziotto e' una macchina da guerra della conversazione e vuole sapere tutto sul consumo di droghe leggere e sul rapporto tra cittadino e polizia dell'Italia e della Francia. Cerchiamo di accontentarlo come possiamo e alla prima occasione saltiamo sul primo bus che passa salutandolo con la mano. La cosa si rivela poco fortunata perche', dopo aver passato una buona mezz'ora in piedi, il bus si ferma per il solito irreparabile guasto meccanico. L'autista si butta in mezzo alla strada fermando altri bus e riesce a far ripartire tutti i passeggeri, inclusi noi che rimaniamo in piedi fino a Quito.
Per confermare la mia teoria sulle indicazioni stradali, chiedo a tre persone come si arriva a Pacallalta e ricevo ben tre versioni diverse. Il bello e' che le tre persone si mettono a parlare tra di loro sulla migliore opzione e non arrivano ad un accordo. Alla fine scopriro' che ce n'e' una quarta, quella che prendiamo alla fine per aver domandato un quarto e ultimo parere. E' cosi' che prendiamo altri due bus per uscire da Quito ed un terzo per arrivare a destinazione, nel posto piu' freddo del mondo.
Nonostante tutto tiriamo fuori i costumi da bagno dai nostri zaini, camminiamo per una strada sterrata bagnata e fangosa ed entriamo in paradiso. Circondate da montagne, pascoli e vacche, piscine di acqua termale a varie temperature. Vista la goduria facciamo una prima sessione pomeridiana e - dopo aver mangiato nell'unico posto aperto nel deserto della sera - anche una sessione notturna con l'aria gelida della notte che crea nuvole di vapore. Il problema non e' tanto rimanere al caldo, quanto dover uscire alle dieci di sera e rivestirsi nel freddo polare. Come conseguenza ci ritroviamo entrambi il girno dopo con un raffreddore monumentale.
Claire se lo curera' a Parigi, mentre io tento di convincere un farmacista di Latacunga a vendermi una qualsiasi medicina generica. Niet. Tutti i farmacisti sono inflessibili: serve la ricetta medica. L'unica cosa che riesco ad ottenere, sotto lo sguardo di disapprovazione come se fossi un tossico in cerca di metadone, e' una scatola di vitamina C. Poco dopo entro in una cartoleria a comprare un quaderno e vedo sullo scaffale dietro la commessa tutta una serie di medicinali anti-influenza. Le chiedo una scatola e lei me la vende senza ricetta.
Bayern

martedì 27 luglio 2010

Il mercato ed il cinema

Il mercato di Otavalo e' uno dei piu' grandi dell'Ecuador. Piu' che un mercato e' un insieme di mercati diversi, per persone diverse. Alle 7 e 30 di mattina, sulla strada principale, i venditori di artigianato stanno allestendo i loro banchi. C'e' poca gente in giro, ma se si gira l'angolo verso il mercato della frutta e verdura, si fa fatica a camminare tra donne, uomini, banane, papaye, patate e uva. Piu' avanti c'e' il mercato delle scarpe taroccate, sandali di plastica e "ropa americana", tutta tassativamente made in China. Il terzo mercato e' quello piu' informale. Niente banchi, solo persone sedute in terra che vendono una sola merce: fiammiferi, piselli, cinture, pentole, spugne. Li' a fianco c'e' uno stadio con una pista di atletica di sabbia in cui atleti locali si stanno riscaldando. Ad un segnale dell'arbitro, che abbassa il suo cappello da baseball, tre velocisti (di cui uno un po' troppo sovrappeso) scattano con in mano il testimone per la staffetta piu' polverosa e meno seguita del secolo (oltre a me ci sono due altri spettatori che sembrano li' per caso). Vince la squadra piu' giovane (e piu' magra).
Il mercato piu' importante tra i mercati del sabato e' quello delle bestie. In uno spiazzo erboso che a fine giornata e' completamente ricoperto di escrementi, c'e' una massa umana compatta e colorata. Per raggiungerla bisogna attraversare la Panamericana, facendosi sfiorare da TIR che non rallentano. All'inizio del mercato si vendono polli, tacchini, oche, cani e porcellini d'India (che qui sono il piatto tipico). Poi si passa ai maiali, tenuti al guinzaglio dai padroni come fossero cani. Ognuno vende un solo maiale, o al massimo due. Un piccolo di maiale grida come se lo stessero ammazzando quando viene portato via al guinzaglio dal nuovo acquirente, mentre poco piu' avanti un contadino che ha appena comprato un vitello cerca di farlo salire su un piccolo camion a forza di frustate e tirate di corda.
Su un piccolo promontorio una decina di banchetti servono colazioni per stomaci e cuori forti. Il piatto piu' venduto e' la "fritada", un misto di carne di maiale fritta con patate, mais e altri ingredienti non identificati ma di difficile digestione. Si dice che chi lo mangia per la prima volta, o muore sul colpo, o vive in eterno (non tento la fortuna).
Oltre a contadini con facce da indios, spuntano come funghi turisti che portano lo zaino stretto contro la pancia come se fossero nella metropolitana di New York e muniti di macchine fotografiche con obiettivi che sembrano fucili da assalto, in cerca di visi bruciati dal sole, grugniti d'animale e bambini che dormono sul dorso della madre. Finita la sessione di fotoreporting, si spostano tutti verso il mercato dell'artigianato, quello che inizia piu' tardi ma che dura piu' a lungo. Americani con cappelli da cowboy, francesi che hanno appena comprato un panama bianco, fricchettoni rasta con berretti di lana con il ponpon. Nessuno sembra voler rimanere col capo scoperto.
A fine giornata anche la Plaza de los Ponchos, il centro dello shopping artigianale, rimane vuota di gente e piena di cartoni e banchi semismontati. Su un lato della piazza ci sono dei baracchini che vendono cibo. Nessun turista in giro, solo indios che mangiano qualcosa prima di andare a letto. Assieme a Claire, la piu' parigina tra le parigine, prendiamo il toro per le corna ordinando un cuero (letteralmente "cuoio", un piatto di riso, patate e cotenna di maiale bollita). Il mio vicino di tavolo sembra stupito che il mio stomaco gringo resista all'urto. Vedremo domani.
Ad Otavalo c'e' un gioiellino. Si chiama Ocho y Medio, in onore del film di Fellini, ed e' un cinema che proietta film sudamericani per un pubblico cosi' selezionato da essere inesistente. A vedere "El baño del Papa" - un film uruguayo che riesce a mischiare realismo, ironia e denuncia con uno stile leggero e antiretorico - siamo in tre. Qualcuno in piu' appare il giorno dopo a vedere "Al sur de la frontera", il documentario di Oliver Stone vaneggiante ed esteticamente atroce sulla contrapposizione tra USA e America Latina, che mischia analisi semplicistiche a scene al limite del ridicolo. Bocciato.
Marcellooooo

domenica 25 luglio 2010

Otavalo

Alle 6 e 59 di mattina, donne dai tratti indigeni - i capelli nerissimi raccolti in una lunga treccia - tutte vestite in modo uguale (un mantello a coprire una camicia bianca a motivi colorati ed il capo coperto da un telo ripiegato o da un cappello alla Clark Gable) fanno la fila lungo la navata dell chiesa di Otavalo per ricevere la comunione. Finita la messa inizia la loro giornata. Alcune si dirigono verso un internet caffe' e si mettono le cuffie per usare skype: tradizione e modernita'.
Di tutti i popoli latinoamericani, gli ecuadoriani sono forse i peggiori a dare indicazioni stradali (e questo li colloca probabilmente all'ultimo posto mondiale, vedi post su Copan di aprile). Una coppia indigena mi dice che la cascata di Peguche si raggiunge andando "sempre dritti sempre dritti" e accompagnano le parole con ampi gesti delle braccia. Peccato che si siano dimenticati di aggiungere di girare a destra dopo il ruscello. Il dettaglio e' corretto da una signora che legge ad alta voce un libro a sua madre. Per essere sicure che non mi sbagli di strada mi seguono con lo sguardo per vari minuti e - quando sono ormai tropppo lontano per sentirle - mi indicano a gesti quale sentiero seguire.
Tra le piccole meraviglie naturali che circondano Otavalo, c'e' la laguna di Cuicocha, a cui si puo' arrivare con un tour organizzato (30 dollari) oppure prendendo un bus e chiedendo a qualcuno di portarti (6 dollari e 25 cents se si fa autostop al ritorno). Il lago e' immerso in un cratere alle pendici del vulcano Cocotachi, la cui sommita' e' imbiancata da un velo di neve. In lontananza pandori vulcanici innevati e vallate verdi. In mezzo al lago, due isolette dalla forma di colombe pasquali emergono dall'acqua di un blu cosi' intenso che sembra corretto con Photoshop. Il sentiero che costeggia il lago sale e scende a 3500 metri d'altitudine tra piante basse e qualche pino. Nelle quattro ore di cammino incontro solo un contadino in contemplazione del suo campo completamente spoglio (e' cosi' concentrato che non mi azzardo a chiedergli cosa sta aspettando). Cielo terso, sole abbagliante, vento fresco.
Il giorno dopo la sveglia suona alle 4 e 45. Fuori e' buio e fa freddo. Mi aspetta in strada Pancho con una Landcruiser piu' vecchia di me. Per accenderla bisogna girare la chiave e poi premere il tasto d'accensione. La Lancruiser fa il giro di Otavalo passando a prendere Carlos, il nipote di Pancho, Pedro e Elio, un americano dall'aria stralunata. Piu' in la' imbarchiamo una coppia ecuatoriana. La strada diventa di acciottolato, poi sterrata, poi sale stretta e ripida tra case di fango. La Lancruiser tossice e ansima, poi si ferma. Sono le 7 di mattina, il sentiero inizia a 3500 metri. Sopra di noi, illuminato da una fredda luce mattinale, il vulcano Imbabura.
Passiamo un campo di grano, poi entriamo in un pascolo con erba che arriva ai fianchi. Via via che si sale l'erba diventa piu' corta ed il vento piu' forte. A 4000 metri bisogna mettersi la giacca a vento, ma mi rendo conto che non ho guanti. A partire da questo momento, ogni passo che faccio mi portera' alla massima altitudine in cui sono mai stato. L'aria si fa rada, i passi piu' pesanti. Scivolando su uno strato di fango cado in avanti ma - avendo le mani intasca per tenerle al caldo - cado con tutto il peso sul naso che, gia' grande di suo, diventera' un'enorme melanzana rosso-bluastra. Mi rialzo e continuo tra piante rosse che sembrano coralli. Negli ultimi cento metri di dislivello il vento soffia impietoso facendoci a tratti perdere l'equilibrio, mentre il sentiero si fa roccioso. Bisogna aiutarsi con le mani a salire: mani fredde, roccia fredda e ruvida. Giuro a me stesso che la prima cosa che faro' in citta' sara' comprarmi dei guanti.
Il mio orologio segna le 10.05, l'altimetro 4505 metri. Siamo in cima dell'Imbabura ma potremmo essere ovunque perche' una spessa coltre di nebbia avvolge tutto il panorama attorno. Ci si siede dietro ad una roccia per ripararsi dal vento, si mangia qualcosa e si scende prima di congelarsi.
Per scendere un sentiero molto ripido ci sono due tecniche. La prima e' andare piano e assorbire ogni piccolo dislivello. La seconda e' lasciarsi correre dal sentiero come se si stesse sciando, scivolando qua e la' sul fango o sull'erba cercando di non cadere.
La seconda che hai detto.
Quelo

sabato 24 luglio 2010

Quito

Aria cristallina, luce limpida, sembra di essere sulle Dolomiti. Invece questa e' Quito, la seconda capitale piu' alta del mondo dopo La Paz: uno stretto e lunghissimo corridoio di strade, case e palazzi in una vallata a 2850 metri di altitudine.
Qui ritrovo Yves, il mio ex-capo di Tunisi che ha sposato un'ecuadoriana ed e' qui in vacanza. Vengo immediatamente adottato dalla sua famiglia, che farebbe la gioia di Casini. Sonia, sua moglie, ha otto tra fratelli e sorelle, quasi tutti sposati con figli (a differenza di Casini, nessuno divorziato). A casa dell'abuelita, il centro matriarcale della tribu', c'e' un tavolo lungo un chilometro attorno a cui mangiano, bevono, a volte ballano e - soprattutto - parlano decine di parenti. Lo spagnolo che parlano e' piuttosto buffo, infarcito di diminutivi. Non solo di nomi propri - inclusi quelli francesi (Yvisito e Cloecita) - ma anche di oggetti comuni come carne, riso o acqua e addirittura di avverbi come "qui" (aquisito) o "tutto" (todito). E' una lingua di una tale dolcezza che puo' apparire quasi stucchevole.
Con Yves andiamo a bere in un caffe' che ha una vista a 180 gradi sulla citta': le luci della notte che si accendono a migliaia sulle pendici delle montagne nere fanno sembrare Quito un enorme presepe. Iniziando a parlare del piu' e del meno, finiamo per fare cio' che piu' ci piace (oltre a sciare): risolvere i problemi del pianeta. Ci concentriamo soprattutto sul medioriente, ma non tralasciamo l'Afghanistan, l'Asia Centrale, la "global war on terror" e la crisi economica. E' due anni che facciamo le stesse analisi, ma ci sembrano sempre nuove e originali. Se qualche potente della terra fosse interesato faccia un colpo: soluzioni chiavi in mano e per di piu' completamente gratis.
Vicino a Quito sono stato alla meta' del mondo. In un complesso disneyano (versione ecuadoriana) ho fatto la foto di rito con il cartello che indica la latitudine 0ª0'0''. Sono passato dall'estate all'inverno con un saltello, ma non ho potuto vedere se l'acqua scarica in sensi opposti al di qua e al di la' dell'ecuatore (non c'erano due bagni cosi' vicini). Come altri punti geografici "da record" in cui sono stato (Cabo de Roca in Portogallo, Capo Nord in Norvegia, la linea di zero metri sulla strada tra Gerusalemme e Gerico) anche qui sento che manca qualcosa e mi viene in mente Kavafis: "Itaca t'ha donato il bel viaggio. Senza di lei non ti mettevi in via. Nulla ha da darti più." (http://www.akkuaria.net/kavafis.htm)
Il giorno seguente faccio il turista cittadino, camminando con il passo lento e distratto di chi non ha meta. Il centro coloniale di Quito e' uno dei piu' belli dell'America del sud: plazzi, chiese, piazze, negozi, piccoli ristoranti popolari (pranzo completo un dollaro e mezzo), lustrascarpe, venditori ambulanti, indigeni in abiti tradizionli che passano trasportando carichi sulla schiena, impiegati di banca o di qualche ministero in giacca e cravatta. Nel centro di Quito si puo' rimanere tutta la giornata ad origliare le conversazioni della gente seduta sulle panchine di fronte al palazzo presidenziale, mangiando un gelato.
Dovevo concludere in bellezza la giornata salendo sul TeleferiQo, l'ovovia che dalla citta' sale a 4100 metri. Senza aver fatto un passo mi ritrovo molto piu' in alto della Marmolada e dopo un'oretta di cammino sono poco piu' in basso del Monte Bianco. La vista non ha eguali: la citta' in basso tagliata dalla linea dritta della pista dell'aeroporto su cui atterrano minuscoli aerei che sembrano modellini.
Mariscal Sucre

venerdì 23 luglio 2010

Galapagos 3

Giorno 6
La spiaggia dell'isola di Rabida e' rossa. Un leone marino sta dormendo in attesa che esca il sole. Vedere leoni marini sta diventando un'abitudine. E' incredibile con quanta rapidita' si possa sviluppare assuefazione. In economia si chiama "beneficio marginale decrescente": ogni bene in piu' che ottieni ti da' una soddisfazione minore del precedente. Noi esseri umani siamo animali davvero strani e incontentabili. Non solo vogliamo piu' di quello che e' necessario, ma poi siamo progressivamente meno contenti quando lo otteniamo.
Nel pomeriggio ci spostiamo verso un'isoletta che si chiama "Cappello Cinese", un vulcano dal cono piuttosto ribassato. Di fronte c'e' Santiago, un'unica colata lavica solidificata di recente, ancora quasi tutta completamente nera. I licheni non hanno ancora avuto il tempo di attaccare la roccia e solo in una piccola parte dell'isola riescono a crescere dei cactus creando un set da film western.
Nell'acqua cristallina tra le due isole sono spettatore in diretta del pranzo tardivo di un'iguana marina che nuota con la coda verso la roccia coperta di alghe a cui si aggrappa con le zampe e le unghie, mentre un pesce colorato le gira attorno cercando anche lui da mangiare.
Poco dopo, tornando alla barca con il gommone, assisto ad una lite interrazziale tra un leone marino troppo invadente e tre bisbetici pinguini che manifestano a beccate il loro disappunto per la violazione della loro privacy. Dopo il battibecco si gettano tutti in acqua, ognuno per la sua strada (si fa per dire).
Giorno 7
Oggi sono stato sulla luna. Non era lo spicchio di luna crescente che appare in mezzo al nero del Pacifico. Era un paesaggio mozzafiato di lava solidificata, deserto: acqua, rocce rossastre, rocce scure e piccole spiagge di sabbia dorata.
Dopo l'allunaggio e' toccato morire di freddo in acqua (e' la prima volta in vita mia che pagherei per essere grasso e coperto di tessuti adiposi fino alle orecchie). Ho tentato di convincere Stan, l'americano taciturno, a provare a fare snorkeling, ma lui mi ha risposto, indicando il bastone con cui si aiuta: "Ci ho messo dieci anni ad imparare di nuovo a camminare e non ho voglia di ricominciare". Stan e' di poche parole, ma quelle che pronuncia non lasciano indifferenti. A pranzo ci parla di un acquario della California in cui i pesci nuotano in senso circolare senza fermarsi. Poi aggiunge: "Ho l'impressione di fare anch'io la stessa cosa".
Nel pomeriggio andiamo a fare un giro in gommone tra le mangrovie di una serie d'insenature dell'isola di Santa Cruz. All'imboccatura, delle sule sorvolano l'acqua per poi gettarsi a picco richiamando le ali all'ultimo momento. I pellicani sono molto piu' goffi, entrando in acqua con un tonfo sordo, ma sembrano piu' efficaci nella pesca. In una delle insenature vediamo due tartarughe in piena attivita' amorosa. Devono essere svizzere tedesche perche' non dimostrano alcun trasporto.
In acqua, qua e la' delle razze e degli squali. C'e' anche un pesce gatto che fa dei gran salti fuori dall'acqua per catturare degli insetti.
The end
North Seymour e' l'isola piu' vicina all'aeroporto ed e' scelta inevitabilmente da tutte le barche come ultima tappa prima di scaricare valige, zaini e turisti per imbarcarne di nuovi, in un moto armonico infinito. Nonostante tutto, aspettare l'alba mentre un uccello nero rigonfia il collo rosso per richiamare la femmina (dovrei provarci anch'io, magari funziona) fa dimenticare il traffico di gommoni carichi di persone con giubbotti salvagente.
Dopo colazione lascio la barca Yolita II (la consiglio) con l'impressione di uscire dal Mondo di Quark. Mi aspetteri quasi di trovare Piero Angela al check-in, oppure di sentire dall'altoparlante la voce della maestra Telmon, mia insegnante delle elementari, chiederci di fare un riassunto del documentario del giorno.
Per una volta l'ho fatto senza che me lo chiedesse e senza neanche dover accendere la televisione.
Charles Darwin

giovedì 22 luglio 2010

Galapagos 2

Giorno 4
Nuotare in questo oceano e' come immergersi in una vasca da bagno piena d'acqua gelida. La muta aiuta un po', ma dopo qualche minuto il freddo inizia a pungere come punte di spillo. Lo snorkeling vicino all'isola di Santa Maria (chiamata cosi' in onore della caravella) e' fantastico: razze, squali, pesci enormi, stelle marine di tutti i colori: gialle, blu, marroni, nere.
Nel pomeriggio ci spostiamo verso un'altra isola, dove gli occupanti della barca smettono i vestiti da pavidi civili e indossano i panni di veri guerrieri.
In un campo da calcetto mezzo di terra e mezzo di sabbia va in scena una lotta fratricida tra la squadra dei passeggeri svizzeri e quella dell'equipaggio della barca, in cui vengo arruolato d'ufficio, probabilmente perche' sono l'unico con cui possono comunicare. I numeri non si equivalgono (noi siamo in 6 e loro in 8), ma in compenso nella squadra avversaria c'e' un architetto settantenne, un cinquantenne manager della Bayer, nonche' i suoi figli di 10 e 14 anni. Mi rendo subito conto che nella mia squadra, gia' rodata da centinaia di crociere, ci sono delle gerarchie precise e sedimentate nel tempo, immutabili. I proletari dell'equipaggio giocano in difesa, che e' composta da tre marinai cosi' atletici che se avessero dei denti piu' lunghi potrebbero essere scambiati per dei trichechi. La loro mobilita' quasi inesistente e' parzialmente compensata dalla massa che riescono ad interporre tra la porta e il pallone. In cima alla piramide sociale della squadra ci sono i due attaccanti: il capitano della nave (guarda caso) e la guida dall'ego ipertrofico. A me viene dato il facile compito di coprire da solo tutto il centrocampo, in un ruolo alla Gattuso + Pirlo poco adatto ai miei fragili polmoni e ai miei due piedi sinistri.
Pensavo che, viste le eta' e le stazze, si sarebbe giocato tranquillamente. Mi sbagliavo. Fin dal primo minuto si capisce che sara' una lotta feroce e senza scampo. Il primo a farne le spese e' l'architetto svizzero sui cui si abbattono inclementi i calci della guida. I due bambini vengono asfaltati senza pieta' dai trichechi, mentre il padre si vendica entrando a gamba tesa sulle caviglie di uno dei nostri attaccanti che cade a terra rotolandosi come se ci fossero le telecamere. Senza neanche aspettare che si rialzi, la palla viene rimessa in gioco e scalciata da vari giocatori che cadono uno dopo l'altro nella sabbia. I passaggi sono strettamente proibiti ed il gioco consiste nel guadagnare piu' terreno possibile a forza di spintoni finche' qualcuno non la butta dentro. In questo modo passiamo fortunosamente in vantaggio.
Equipaggi di altre navi arrivano (deve essere l'unico campo di calcetto del sud delle Galapagos) ma non li lasciamo giocare: vince chi arriva primo (e vivo) a tre. Nonostante la media della nostra squadra sia tecnicamente e fisicamente scarsa (a parte il capitano che ha una certa classe), abbiamo un vantaggio decisivo: le regole le inventa la guida. Scopro cosi' che non esiste il calcio d'angolo, la rimessa laterale e' totalmente arbitraria e soprattutto non esistono i falli. La guida tenta addirittura di convalidare un gol fatto a palla ferma causa rottura di perone, tibia e femore di un avversario, ma un'ondata di proteste senza precedenti gli fa cambiare idea (forse per paura di perdere le mance).
Tocca a me, in un rarissimo attimo di lucidita', rubare un pallone sulla trequarti e, con girata di sinistro spalle alla porta, insaccare alla destra del portiere che dormiva sonni profondi. Purtroppo, per la troppa fatica (e la scarsa collaborazione dell'elite sociale della squadra) non riesco a mantenere il ruolo di Gattuso e perdiamo per 3 a 2.
Dopo un visita ad una grotta sotterranea creata da una colata lavica, la comitiva si rimette le scarpe da gioco, ma io li lascio per andare a patire il freddo in acqua. Da solo nuoto accanto agli scogli finche' incontro una tartaruga marina che sta mangando delle alghe. Non sembro darle troppo fastidio e rimaniamo cosi' un po' di tempo: lei a mangiare e io a guardare. E' cosi' vicina che potrei toccarla e quando risale per prendere aria devo spostarmi per lasciarla passare.
Devo rimanere li' ipnotozzato per un po' visto che vengono a cercarmi in gommone per riportarmi alla barca mezzo assiderato.
Giorno 5
Oggi, nel centro Charles Darwin, ho incontrato l'animale piu' solo al mondo. In un recinto con piscina, con tanto di pagoda di legno da cui frotte di turisti scattano fotografie a raffica, vive Solitario Jorge. Scoperto nel 1971 sull'isola di Pinta, per quarant'anni biologi di ogni dove hanno cercato una possibile moglie, senza successo. Solitario Jorge e' l'ultimo della sua specie. Gli hanno messo a disposizione due femmine di una specie simile che ha disdegnato per molto tempo, per poi cedere alle insistenti proposte voyeristiche dei biologi, cimentandosi in sei ore di relazione sessuale infruttuosa (le uova non sono fecondate).
Penso che Solitario Jorge l'abbia fatto apposta, rifiutando la riproduzione come un'illusione d'immortalita' oppure pensando che i suoi geni non sono in fondo ne' migliori ne' peggiori di tanti altri.
Non molto lontano dalla villa con piscina di Solitario Jorge vivono nella natura delle sorelle e fratelli meno famosi ma forse piu' fortunati. In mezzo ad un pascolo in cui brucano decine di mucche, varie tartarghe giganti (1 metro e mezzo di lunghezza, 150 Kg di peso) le accompagnano seminascoste tra l'erba alta. Una ha paura di me e si rintana nel suo carapace sfiatando come un maestro di yoga. Un'altra non sembra accorgersi di avere visite, mentre una terza si incammina lentamente (ci mancherebbe altro) sotto il filo spinato che divide un pascolo dall'altro. La piu' piccola va a farsi un bagno in uno stagno per togliersi un po' di parassiti. Tutte quante hanno almeno il doppio dei miei anni e vivranno piu' del doppio o il triplo di me.
A Santa Cruz sbarcano tutti i passeggeri tranne me, che continuo per altri tre giorni. Vengono imbarcati una coppia australiana con surf al seguito (lui la versione naif di Big Jim, lei Miss Mondo), un tuttologo biologo americano che e' stato alle Galapagos 7 volte, ma questa volta ci ha portato anche la moglie adorante, nonche' Stan, un americano claudicante che ha lavorato per 35 anni per una istituzione statale che produce cartelli stradali e che da quando e' in pensione passa l'estate in America Latina.
...to be continued...

mercoledì 21 luglio 2010

Galapagos 1

Preludio
La prima immagine delle isole Galapagos e' la peggior scena di turismo di massa, quasi peggio di Pukhet in Thailandia. Due aerei arrivano allo stesso momento ed il minuscolo aeroporto e' stracolmo di zaini Deuter, Lowe Alpine, North Face, di giubbotti Columbia, Quechua, Salewa, di scarpe da trekking Salomon, Merrell o Tecnica (e di tutte le combinazioni possibili tra marche ed oggetti). Si parla quasi solo inglese ed alcuni turisti indossano le stesse magliette per riconoscersi meglio, con l'inevitabile "adventure" stampata a caratteri cubitali sul petto, forse la parola piu' abusata al mondo assieme a "ecologico", "diritti umani" e "democrazia". Presi i bagagli sembra di essere in un centro di pesca sportiva, dove i turisti sono le trote e le agenzie turistiche i pescatori. Con un po' di difficolta' trovo il mio gruppo, che per mia enorme gioia e' composto quasi esclusivamente da svizzeri tedeschi, notoriamente il popolo piu' socievole e divertente del mondo. In compenso la barca e' piu' lussuosa di quello che pensassi (c'e' anche l'acqua calda in bagno).
Giorno 1
Nel mezzo del Pacifico, ancorati a fianco ad una delle meraviglie naturali del mondo, nel posto dove Darwin passo' cinque settimane sviluppando la teoria dell'evoluzione, trentadue occhi sono incollati ad una televisione: 11 luglio 2010, ore 12.30 locali, sembra ci siano poche cose al mondo piu' importanti di una finale di Coppa del Mondo. La participazione dei presenti non e' particolarmente calorosa (come si dira' "calidez" o "pasion" in Switzerdutch?) e i commenti scarsi e poco divertenti. Quando l'arbitro soffia tre volte nel fischietto argentato si conclude il mondiale che vissuto nel maggior numero di luoghi: ristoranti, bar, negozi, aeroporti, alberghi, stazioni dei bus e ora anche una barca a motore. Si spengono i riflettori e - come ogni volta (da Wimbledon alle Olimpiadi) - mi pento di tanto tempo sprecato a guardare uno schermo, ma gia' impaziente di ricominciare di nuovo.
Passato l'effetto ipnosi sbarchiamno a Santa Cruz, dove siamo accolti da centinia di enormi granchi rossi e da iguane marine che esistono solo alle Galapagos (un probabile adattamento di iguane terrestri arrivate qui su tronchi di legno dalla costa migliaia di anni fa). La spiaggia e' piena di nidi di tartarughe marine per cui e' la preferita dagli uccelli che sperano di fare colazione, senza successo per il momento.
Giorno 2
Alle 4 di mattina i motori della barca mi rombano nelle orecchie. Il colpo di grazie al sonno lo da' Washington, la nostra guida, facendo il verso del gallo al microfono. Dopo una colazione da Shrek (riflesso del viaggiatore morto di fame che mangia piu' che puo', sprattutto quando e' gratis) sbarchiamo a South Plaza, un isolotto lungo un chilometro e largo poche centinia di metri.
All'arrivo del gommone un gruppo di leoni marini si occpa dello spettacolo d'accoglienza: giravolte, emersioni, immersioni, nuotate sotto il gommone. Sull'isla, invece, i leoni marini domono. Sdraiati mollemente sulle rocce, le pinne contro il corpo grasso e lucente, gli occhi socchiusi. Ogni tanto si si stirano o si grattano. Alcuni si mettono in posa per la foto e fanno gli occhioni dolci (il he e' molto facile perche' e' il solo sguardo che sanno fare, assieme a quello assonnato). Ad un paio di metri dal sentiero un piccolo protesta mordendo la pancia della madre perche' vuole piu' latte. Lei si gira dall'altro lato per dargli l'altra mammella (ne ha quattro).
Se non si fa attenzione, oltre ad inciampre nei leoni marni, si rischia di calpestare un'iguana di terra. I maschi sono gialli e piu' grossi e sono molto territoriali: proteggono delle piante di cactus da cui cadono dei frutti che loro fanno rotolare per togliere le spine e che poi mangiano. Durante la stagione secca questi frutti sono la sola fonte d'acqua dolce. L'iguana maschio nel cui territorio ci sono piu' cactus avra' quindi piu' femmine. Ogni parallellismo con l'homo (e doña) sapiens sapiens e' superfluo.
Nel pomeriggio ho indossato per la prima volta una muta da sub. Ha funzionato un 50% perche' sono comunque morto di freddo. Poco importa, nuotare assieme ai leoni marini non ha prezzo. Goffi al limite del ridicolo quando sono a terra (sembrano dei grossi lumaconi informi o dei barbapapa' marroni) diventano supersnodati e acrobatici in acqua. Hanno anch un certo senso dell'umorismo e ti prendono in giro appena ti avvicini, venendoti incontro a velocita' folle per poi virare a destra, sinistra o in basso quando sono ad un centimetro dal tuo naso. Poi ritornano e si mettono a nuotare a pancia al'aria aspettado che io mi muova. Quando faccio un cenno ripartono zigzagando avvitandosi come piloti acrobatici. Mi girano attorno quasi sfiorandomi e poi scompaiono per poi rimettere la testa fuori dall'acqua e riprendere il ballo.
Giorno 3
L'isola di Española e' la casa di iguane marine che aspettano il sole mettendosi l'una sll'altra in un groviglio di zampe, code, teste. Questa posizione orgesca serve a scaldarsi meglio. Il loro corpo e' un motore diesel che funziona bene solo quando e' abbastanza caldo.
Sul sentiero che segue la costa rocciosa un uccello dalle zampe blu (Booby in inglese, in italiano penso si chiami Sula) cova un uovo. Gli passo davanti a pochi centimetri di distanza, ma lui non si muove. Come altri animali delle Galapagos non ha paura perche' quando sono sulla terraferma non hanno praticamente predatori. Qui non c'e' stato un vero bisogno di sviluppare il sentimento di paura. L'animale-uomo l'ha sviluppato in tutte le sue possibili forme in un momento in cui ce n'era la necessita' ed ora se lo ritrova appiccicato addosso come un'inutile e fastidiosa eredita' istiniva.
Ad Española c'e' anche "l'aeroporto degli albatross" che hanno bisogno di correnti dinamiche per decollare con le loro enormi ali di due metri e mezzo. Le coppie sono monogame. Ogni anno si separno per poi ritrovarsi sulla stessa spiaggia per la riproduzione. Si riconoscono l'uno l'altro per una "danza" fatta di movimenti buffi del collo, mordicchiamenti e una specie di gara di scherma usando il becco com spada. Anche gli albatross non temono l'uomo e posano davanti alle macchine fotogrfiche come fossero attori pofessionisti. Uno, molto gentile, ci fa vedere orgoglioso il suo uovo, mentre una coppia li' vicino da' da mangiare al piccolo che introduce il becco in quello della madre (o del padre) per farle rigurgitare i pesci che ha pescato per lui.
Nonostante il grande numero di uccelli diversi che vivono sull'isola non c'e' competizione: una speci pesca vicino, l'altra al largo, un'altra a centnaia di miglia di distanza. Una specie nidifica salla roccia, un'altra nei cespugli, un'altra nella falesia (stupenda vista sul mare, i piu' intelligenti). Sembra una societa' utopica.
Nelle acque vicino ad Española facciamo di nuovo snorkeling tra i leoni marini supereccitati (tranne uno timido e riflessivo con cui faccio amicizia). Sul fondo, volando lentamente nell'acqua ci sono delle razze nere con dei puntinibianchi. Piu' in la' centinaia di pesci argentati si muovono all'unisono, come in Nemo. Sotto una roccia c'e' un pesce bianco. Quando si sveglia e fa un giro scopro che e' uno squalo dala pinna biancha: due metri e mezzo un po' insonnolito.
...to be continued...

Paperblog

Aeroporti

Gli aeroporti sono - per loro essenza - dei non-luohi atemporali e neutri. Ovunque, tranne in Colombia. Sul bus tra un terminale e l'altro dell'aeroporto di Bogota una ragazza boteriana (guance, tette, culo, tutto rotondo) vuole fare conversazione. Parte per un mese a studiare in Spagna ed ha paura della freddezza e della distanza umana degli spagnoli, che descrive come fossero degli orchi. La rassicuro dicendole che se andava in Finlandia le andava molto peggio. Come tutti i colombiani vuole sapere cosa penso della Colombia e della sua gente. Non mi molla finche' non sente la parola magica "calidez" (calore umano, da non confodere con "calor" che vuol dire caldo). Al controllo di sicurezza, dove di solito nel resto del mondo il massimo che ti dicono e' "si tolga la cintura e si sbrighi", la signora e' in vena di chiacchiere. Se volessi potrei fermarmi a bere il caffe' con lei e con il resto dei vigilantes che devono veder passare centinaia di stranieri ogni giorno, ma un italiano rimane sempre interessante, se non altro per parlare della coppa del mondo. Anche loro aspettano di sentire la parola magica "calidez" prima di salutarmi.
La pagina web dell'aeroporto di Quito lo descrive come il miglior aeroporto dell'America del sud. Senza dubbio e' il piu' veloce che abbia visto fin'ora: il mio volo doveva arrivare alle 20.10 e alle 20.20 sono gia' seduto nel taxi. La compagnia di logistica dell'aeroporto di Venezia (dove si puo' morire d'inedia prima di ricevere le valigie) dovrebbe venire qui ad imprare come si fa. A Quito rimango solo una notte in attesa del volo per le Galapagos. Ci tornero' piu' avanti. Il tassista che la mattina dopo mi porta in aeroporto e' ossessionato dal cambio climatico. Per tutta la mezz'ora del tragitto mi fa un elenco dettagliatissimo dei cambiamenti di temperatura, pluviometria, umidita', precipitazione nevosa, grandine e presenza/assenza di nebbia di tutte le zone geografiche del paese. Se lo incontra Al Gore gli regala il suo premio Nobel e magari anche l'Oscar.
Up in the air

domenica 18 luglio 2010

Salsa en Cali

Il centro di Cali sembra costruito da un architetto schizofrenico. Ci sono dei palazzacci grigi di cemento armato vicino a chiesette bianche del seicento, grattacieli coperti di vetrate a specchio a fianco di edifici modernisti dei primi del novecento. Schiacciata tra un ponte pedonale e una grande arteria viaria c'e' anche una chiesa bicroma bianca e azzurra in stile gotico che sembra uscita da un set cinematografico della Disney.
Anche Cali, come Medellin, sfata il mito della cita'-mostro. Durante il giorno il centro e' strapieno di gente che cammina, fa spese, parla al telefono, mangia frutta comperata ai baracchini (non si capisce quando lavorino). A Cali c'e' anche un cinema d'essay. Per la prima volta da inizio viaggio entro in un vero cinema e vedo un gran bel film: "El secreto de sus ojos".
Cali e' la capitale colombiana della salsa. Sull'Avenida 6, uno a fianco all'altro, ci sono decine di club e discoteche salsere. E' quasi impossibile camminare perche' ogni due metri c'e' un tipo che vuole convincerti ad entrare nel suo locale. Pensavo che il mio livello di salsa non mi permettesse di farmi vedere in pubblico da queste parti e invece - assieme ad Ala, una ragazza russo-israeliana che ha fatto dei corsi a Tel Aviv (mentre io all'epoca a Gerusalemme) - non sfiguriamo piu' di tanto. Ci proviamo anche con la bachata (risultati modesti) e con il vallenato (risultati disastrosi).
John Travolta

venerdì 16 luglio 2010

San Augustin

Salgo sul primo bus della giornata alle sette di mattina. Scendo dall'ultimo alle undici di sera dopo un tragitto di sei ore di strada sterrata, con varie soste per gonfiare i pneumatici, far salire e scendere passeggeri e cenare a 3000 metri di altitudine, in un paramo tra vacche e campi di patate. Quando infine arriviamo, il paese di San Augustin sta dormendo profondamente e in strada c'e' solo un poliziotto annoiato e un ubriaco rumoroso che si offre di portarci all'hostal consigliato da persone sconosciute ma - si dice - affidabili. Per strada appare una donna che mi spiega che l'hostal in questione e' conosciuto per fregare i turisti e mi convince ad andare in un altro posto gestito da una signora simpatica. Purtroppo il letto - che sembrava normale - si rivela per nani, mentre la coperta puzza prepotentemente di cane bagnato. Causa cottura per il viaggio e per il letto schifoso dormo poco e male e il giorno dopo decido di pagare il triplo del prezzo per un posto che mi sembra il paradiso.
Vicino a San Augustin c'e'un sito archeologico precolombiano con decine di sculture di figure antropomorfe, zoomorfe e antropo-zoomorfe. Da quello che riesco a capire la popolazione che le ha scolpite e' scomparsa prima della conquista e non si sa praticamente niente sulla funzione delle statute, tranne che avevano uno scopo funerario e rituale. Quella che mi piace di piu' e' un enorme passerotto obeso, di cui pero' ignoro la funzione.

mercoledì 14 luglio 2010

L'asse del caffe'

L'eje cafetero e' il paradiso della caffeina. In altura, su pendici collinari si produce il miglior caffe' del mondo (anche Illy lo compra qui). I campi di caffe' ricoprono l'intero panorama fino ai cucuzzoli piu' alti. Mi ricorda un po' il Ruanda, dove invece del caffe' si coltivano banane o patate, oppure la zona attorno a Valdobbiadene, coperta di vigne.
Salento e' un paese normalmente tranquillo, oggi preso d'assalto da turisti della domenica. Oggi e' un lunedi' "de puente" (in Colombia quando una delle molte festivita' cade in mezzo alla settimana viene spostata automaticamente al lunedi') e le famiglie escono dalle citta' per andare a cercare un po' di verde o qualche souvenir kitch da mettere in salotto. Causa poco tempo, non riesco a rimanere a Salento abbastanza tempo per esplorare le montagne attorno. Ci passo una sola notte immerso in un classico ambiente "backpacker": dormitorio, cena comunitaria, musica suonata sapientemente da due musico-viaggiatori, camino acceso e conversazioni di viaggi in lingue diverse. C'e' una ragazza messicana in viaggio da quattro anni, uno spagnolo (pardon catalan) partito un anno fa dal Giappone, l'Americana non piu' giovanissima in vena di pensieri filosofici piuttosto banali, la timida coppia di scandinavi che va a letto presto e il tipo un po' coglione che ha bevuto troppo e che si dimena accompagnamdo la musica facendo finta di suonare la chitarra.
Travellers

sabato 10 luglio 2010

La citta' di Pablo Escobar

Per essere la capitale mondiale del narcotraffico, Medellin e' una citta' stranamente ordinata. La metropolitana e' piu' pulita di una sala operatoria e girare per strada e' semplice. La citta' e' bruttarela, a parte la piazza di fronte al bel museo nazionale che e' adornata di statue bronzee di Botero.
E' domenica. Le famiglie si assiepano attorno ad una statua raffigurante un gatto (titolo "gato") o un cane (titolo "perro"). Donne che assomigliano all'omino Michelin, vestite con body superattillati che lasciano poco spazio all'immaginazione si fanno fotografare in posa di fronte alla statua "mujer" che sembra il loro ritratto. I bambini salgono sui piedistalli e si aggrappano a piedi e mani delle statue. Uno e' particolarmente attratto dal pene di una statua di centurione romano che e' stato toccato cosi' tante volte da essere lucidissimo. Se Botero voleva - come credo - rendere la sua arte viva e ludica, ci e' riuscito alla perfezione.
A Medellin ho preso un'ovovia marca Poma ad otto posti. E' la prima volta che salgo su un'ovovia senza sci e nel mezzo di un'area urbana, sorvolando tetti e cortili. L'ovovia si chiama Metrocable ed e' un'estensione del metro che taglia la citta' da nord a sud. Meta' della gente che sale con me sta tornando a casa, mentre l'altra meta' sono persone che si fanno un giro turistico.
A Medellin ho ritrovato Carlos, il mio assistente di cinque anni fa. Anche a lui, come a me, l'anno passato a Saravena ha lasciato ricordi indelebili: guadare fiumi con la jeep, l'evacuazione di un ferito per mina o aprire i cancelli di legno tra una proprieta' terriera e l'altra con la paura che potesse innescare una bomba (e' notizia di oggi nel giornale El Tiempo di due bambini feriti da un'esplosione nell'area in cui lavoravamo).
Mentre Carlos mi riaccompagna in albergo dopo cena, un taxi ci taglia la strada. Carlos non reagisce minimamente, un po' perche' e' una persona paziente, un po' perche' i sicari hanno l'abitudine di girare in taxi per farsi notare meno. Sempre meglio non fare incazzare un tassista, non si sa mai...
Hombre

Bogota

Nel mio fulmineo passaggio per Bogota ho solo avuto il tempo di cenare nel quartiere della Candelaria con Hsirley (pronuncia "shirley"; i suoi si sono sbagliati all'anagrafe). Hsirley e' un'ex collega assieme a cui ho organizzato vaccinazioni per centinaia di bambini nella zona rurale dove i servizi dell'ospedale non arrivavano per problemidi sicurezza. Hsirely e' infermiera. Per almeno due ragioni e' il prototipo della colombianita': la prima e' che passa tutto il suo tempo libero - quasi senza eccezioni - a studiare. Si e' specializzata, masterizzata, ha seguito mille corsi in salute pubblica, continuando a lavorare, tutto questo per "capacitarse" il piu' possibile. La seconda e' che ha due sorelle e un fratello, tutti di padri diversi. In Colombia tanto la fedelta' quanto la monogamia sono concetti molto relativi.
Ho lasciato Bogota la mattina per nove ore di bus, direzione Medellin. La strada e' una continua serpentina che si abbarbica per montagne. Sale e scende tra boschi, fiumi, campi, prati. Praticamente non c'e' un solo tratto piatto e rettilineo. Ad una fermata, due uomini con in mano un cesto di mango fanno a gara a chi corre piu' veloce per salire per primo sul bus. In altri paesi dell'America Latina i venditori ambulanti si mettono d'accordo per dividersi il mercato ed evitare fatiche inutili. In Colombia no, la competizione prevale e la polarizzazione ne diventa presto una conseguenza inevitabile. Forse questa e' una delle spiegazioni delle tragiche faide tra Conservatori e Liberali tra ottocento e novecento e in seguyito tra gruppi armati "di sinistra" (guerriglia) e "di destra" (paramilitari), nonche' tra i cartelli di Cali e di Medellin. In qualche modo bisogna sempre scegliere se essere guelfi o ghibellini.
Cio' che sorprende e' che tutte queste contrapposizioni non lasciano alcun segno nel comportamento quotidiano delle persone e la loro naturale gentilezza e cortesia. La Colombia e' statisticamente uno degli stati piu' violenti al mondo, eppure e' praticamente impossibile che qualcuno ti insulti o che ti tratti male e per di piu' le volgarita' sono quasi assenti dal linguaggio comune. La coesistenza tra l'estremo calore umano che si vive ogni giorno e la violenza piu' barbara di cui sono piene le cronache e' un tipico mistero colombiano.
Le rouge et le noir

giovedì 8 luglio 2010

Calciando verso la capitale

A San Gil, sulle dolci montagne tra Bucaramanga e Bogota, la guerra e' lontana anni luce. Qui vengono i cittadini a respirare aria pura nei week end. A mezz'oretta di bus c'e' Barichara dove ci si aspetta di veder passare da un momento all'altro Clint Eastwood (in versione attore) con il suo cappello da cow boy e l'espressione corrucciata(l'altra espressione che sa fare e' "lo sguardo intenso"). Tutto il paese sembra un set Hollywoodiano ed effettivamente stanno girando un film in costume: cavalli, carri, donne con vestiti lunghi e uomini in uniforme. Le stradine a scacchiera, le case bianche e le chiese con i tetti di legno e calce sembrano quasi finti.
Il viaggio per Bogota' comincia il giorno dopo su una buseta che parte quando e' piena. Dopo mezz'ora la prima coda di macchine bloccate da tre autogru che stanno tentando di sollevare un bus finito in una scarpata la notte prima. Il viaggio sembra interminabile e l'autista si ferma due ore dopo la partenza "per fare colazione". La cosa sembra strana, ma quando vedo giocatori in maglia blu (Brasile) e maglia arancione (Olanda), il mistero e' spiegato. Il mondiale riesce a cambiare anche gli orari dei bus. Il risultato e' ormai storia, per il disappunto di tutti i presenti tranne me (l'Olanda mi sta simpatica).
Il bus arriva alla Terminal giusto in tempo per vedere un gruppo di persone urlare e contorcersi in tutte le direzioni. La massa di gente nasconde uno schermo verde che rimanda immagini di un giocatore con maglia bianca e blu che para un tiro con la mano. Il giocatore non e' un portiere e viene espulso. Riesco a capire che siamo all'ultimo minuto del secondo tempo supplementare. Se il Gana segna passa in semifinale. Il giocatore con il numero 3 prende il pallone, guarda il portiere. Deve pensare troppo prima di tirare il rigore. Deve pensare che sarebbe la prima volta che porta una squadra africana alle semifinali, deve pensare che il portiere forse ha indovinato dove tira, oppure alla disperazione di milioni di persone se dovesse tirarlo fuori. Il pallone parte dal suo piede e sfiora la traversa, poi vola verso il cielo.
Guardo i rigori tra Gana e Uruguay mangiando pollo arrosto (l'unico modo per penetrare la calca di uomini vocianti che assiepa il ristorante con televisione). Una coppia di anziani e' seduta sotto la televisione e guarda in direzione della massa di gente che commenta ogni gesto dei giocatori: "este se esta cagando" oppure "mira que tiene miedo" o ancora "esta la va a poner hijo 'e puta". L'Uruguay vince, il Gana perde. La gente esulta come se avesse vinto la Colombia poi in tre secondi il posto si svuota. Rimango solo io, la mia coscia di pollo e la coppia di anziani che non ha cambiato espressione (sospetto siano statue di cera).
Roby Baggio

mercoledì 7 luglio 2010

Verso San Gil

Sedie a dondolo, un patio nella penombra, gente seduta in strada, ragazzini che si fanno trasportare dalla corrente del fiume, porte e finestre aperte sulla via, biciclette e motorini, la piazza con gente seduta ai tavolini in attesa di mangiare ai baracchini bevendo succhi di frutta fresca appena fatti. Mompox e' stata una fiorente citta' commerciale per il trasporto fluviale dal porto di Cartagena verso l'interno della colonia. Di quell'epoca sono le case e le chiese colorate. Poi la via commerciale cambio' e Mompox torno' ad essere un tranquillo paese dove non ci sono rumori (solo note di vallenato) e dove le case sono case e non si sono ancora trasformate in negozi di souvenirs, ristoranti o sale d'esposizione. Mompox e' cosi' bella e prepotentemente autentica che ci si commuove camminando per le sue strade.
La lascio su un pullmino che fa il giro di mezzo paese (e delle campagne limitrofe) per imbarcare passeggeri. Per passare un ramo del rio Magdalena si prende una chiatta trainata da una barca che ha qualche problema di propulsione e rischia di essere trascinata via dal fiume.
In un posto molto anonimo chiamato el Banco prendo un bus extralusso per Bucaramanga per un viaggio che dovrebbe durare sei ore e invece ne dura otto (tra pezzi di strada sterrata, lavori in corso e problemi meccanici) cosi' divise: 3 ore di salsa, 4 ore di vallenato (molto apprezzato dai passeggeri che a piu' riprese cantavano tutti in coro i ritornelli) e 1 ora di merengue e reggaeton.
In viaggio dalle sei di mattina, decido di fare un ultimo sforzo prendendo il bus che da Bucaramanga (la citta' in cui facevo parapendio) mi porta a San Gil. Cala la notte, la strada si fa tortuosa e l'autista sembra non usare mai i freni. Un uomo si alza dal suo posto con una bambina in braccio. Dice di essere stato minacciato da un grupo armato e sta scappando verso una citta' piu' sicura assieme alla sua famiglia. Chiede un po' di soldi per dar da mangiare a sua figlia.
Quando lavoravo a Saravena ho pagato decine du biglietti a famiglie che scappavano da una minaccia spesso molto concreta, se non gia' compiuta. Dovevo studiare la via d'uscita per essere sicuro che passassero da una strada non controllata dal gruppo in questione. Ne ho mandati molti per Bucaramanga verso Bogota', esattamente nello stesso bus in cui sono ora.
Catarsi

domenica 4 luglio 2010

Adios Cartagena

Quando all'alba del terzo giorno lascio Cartagena, mi sembra di essere Jim Carrey nel film "The Truman Show", quando i personaggi - attori del reality show di cui e' ignaro protagonista - lo salutano ogni mattina con enormi sorrisi dicendo "buona mattina, e se non ci vediamo, buon pomeriggio e buonasera!". Il tassista sembra proprio contento della sua vita e mi interroga in uno slang costeño incomprensibile sulle meraviglie dell'Italia e sulla ragione di una tanto precoce uscita dal mondiale. La conclusione di tutta la discussione e' l'inevitabile "no hay mujeres mas lindas que las colombianas". Anche la signora che mi vende il biglietto del bus e' contenta di vedermi e nei pochi secondi necessari alla transazione e' come se fossimo amici da una vita. Infine, la donna che gestisce i bagni della stazione dei bus mi regala anche lei uno splendido sorriso e mi chiede - come se la cosa non fosse palese - "en que puedo ayudarla?"
La Colombia e' il peggiore incubo per i solitari inveterati. E' assolutamente impossibile evitare di parlare agli altri, perche' sono inevitabilmente loro a parlare a te. Durante il tragitto da Cartagena a Mompox, durante la lunga attesa per il ferry che ci fara' attraversare l'imponente rio Magdalena ingrossato dalle ultime piogge e su cui passano erbe acquatiche come fossero isole verdi, vengo "rimorchiato" da due ragazzi (si parla di calcio). Poi e' il turno di una signora e di sua figlia (turismo), poi di un impiegato del ferry (trasporti interurbani e trasporto fluviale di combustibile - a sua discolpa conversazione iniziata da me). A Mompox vengo accalappiato da due borrachos molto imbevuti di aguardiente, un liquore a base d'anice, che mi spiegano con grande enfasi che il calcio e' stato inventato in Olanda, ma che il Brasile vincera' la coppa del mondo, anzi l'ha gia' vinta. Sempre a Mompox, mentre faccio la fila al bancomat mi parlano in tre: una ragazza (interessata al tema "le donne italiane"), un ragazzo (comparazione tra Italia e Colombia) e un signore (bellezza di Mompox e aspetti negativi di Cartagena).
Se a inizio giornata mi sono sentito in un film, a sera mi sembra di essere in un libro. Mompox e' la citta' in cui e' ambientata "Cronaca di una morte annunciata". Le sue incredibili case coloniali, dimenticate sulla sponda di un fiume che scorre indifferente, non potevano che ispirare una storia decadente: fin dal titolo si capisce come andra' a finire. Per quanto trovi Garcia Marquez geniale, piu' conosco la Colombia e piu' capisco che invece di un inventore di sogni e' stato un sagace osservatore di una realta' intrinsecamente onirica e teneramente surreale.
Macondo

giovedì 1 luglio 2010

La india bonita

Sono tornato a casa. Dopo cinque anni d'assenza, quasi per caso, sono tornato in Colombia, il posto in cui ho vissuto i dodici mesi piu' lunghi, difficili, estenuanti, intensi e drammatici della mia vita: la guerra, gli sfollati, il caldo, le strade sfasciate, la musica llanera, la zuppa di maiale per colazione, le famiglie dei desaparecidos e quelle dei sequestrati. Ho vissuto per un anno come se fosse l'ultimo, lavorando come un mulo, percorrendo le campagne, incontrando gente di tutti i tipi: militari, guerriglieri, medici, paramilitari, defensores del pueblo. Una fatica tremenda per risultati che sembrano sconfitte, come poter dire ad una madre che suo figlio e' morto, non e' piu' il caso di aspettare il suo ritorno.
La Colombia non ti lascia mai, ti entra sotto pelle, rimane con te anche quando non ci sei, anche quando vivi altrove. Quando ci torni e' come mangiare un pasto caldo dopo aver sofferto il freddo. E' un posto che piace anche quando e' brutto, una magia inspiegabile.
Ho ritrovato Cartagena piu' bella di quando l'avevo lasciata. Non so se sia stato un lifting o il fatto che ora riesco ad apprezzarla da turista vero e non da umanitario in burn out che viene a ricaricare le batterie tra una fase di superlavoro e l'altra. Adesso passeggiare per le strade tra stupende case coloniali e' piu' leggero, anche se i ricordi si accastellano in successione, uno dopo l'altro.
Per sfuggire alla melancolia ho deciso di fare il turista piu' turista che c'e', prendendo un tour organizzato per andare in un posto che avrei potuto raggiungere da solo: il vulcano Totumo. Invece dei 3800 metri del Cerro Ciripo', il vulcano Totumo ne misura 28. Non e' formato di roccia vulcanica ma e' solo un cono di fango. In cima c'e' una piccola pozza di 3 metri per 3 piena di fango densissimo. Fa un po' schifo entrarci, ma una volta dentro non si vuole piu' uscire, e' come fare il bagno nello yogurt ed e' impossibile andare a fondo.
A Cartagena ho ritrovato la musica colombiana, ho riascoltato le canzoni del mio ipod in un paio di sortite notturne con una compagna d'ostello canadese anche lei patita di salsa e merengue. A parte qualche persona di troppo che offre cocaina come se fossero caramelle, non c'e' niente di piu' bello di bere una birra al secondo piano di un bar che da' sulla strada e vedere la gente passeggiare di sotto, tra una giravolta e l'altra.
Turista ex-umanitario