sabato 28 maggio 2011

Accra


C’è un immenso ingorgo all’uscita dall’aeroporto, macchine bloccate sotto il sole e venditori che cercano di attirare lo sguardo di automobilisti rassegnati. E’ la scena tipica di molte città africane. La povertà si vede per strada. Invece qui è diverso. I venditori ambulanti non tentano di spacciare fazzoletti di carta, o sigarette, o caramelle. Qui si vendono quotidiani che parlano di politica, DVD, CD, persino dei libri di marketing. Questa è Accra, capitale del Ghana, il posto in cui è nato Nkwame Nkruma, uno dei leader della lotta al colonialismo, il padre dell’identità africana, che cinquant’anni dopo – anche grazie a una coppa del mondo di calcio in un Sudafrica riunificato e benedetto dall’orgia mediatica – inizia finalmente ad avere un senso tangibile e non solo ad essere vacua retorica. Qui è anche nato Kofi Annan, il Segretario Generale delle Nazioni Unite che è riuscito a sopravvivere al periodo più instabile della storia recente: Balcani, Sierra Leone, Liberia, Caucaso e una varietà multipla e variegata di conflitti “etnici” frutto del passaggio dalla guerra fredda a quella riscaldata.
Ad Accra ci sono cartelli agli incroci che dicono “riparo lavatrici” oppure “il tuo sito web in 24 ore”. Qui ci sono lavatrici, computer, stereo e lettori DVD e gente che li usa. Ci sono anche milioni di macchine. Come in Angola, il primo indice di sviluppo economico è un`immenso serpente sferragliante che si muove a lentezza di lumaca. Qui, almeno, gli automobilisti non tentano di ammazzarsi a vicenda. Una caratteristica dei ghanesi che ho notato in questo giorni passati ad una conferenza sul calcio africano è che sono di una gentilezza incredibile. Qualsiasi malinteso si risolve in un sorriso e in un accordo. In pochi altri paesi africani la modernità si è fusa in modo così armonico con la tradizione. Non si sente alcun tipo di senso di inferiorità, nemmeno represso. Come si dice in francese “les gens ici sont bien dans leur peau”.
In Ghana si gioca a calcio, ci mancherebbe altro. A differenza degli altri stati africani il Ghana vince. Solo per colpa di qualche centimetro di troppo non è stato il primo paese africano a qualificarsi per le semifinali di una coppa del mondo. Quel giorno mi trovavo a Bogotà, nella stazione dei bus. Per me è stato uno spettacolo unico. Per la gente di qui il passaggio dall’euforia alla disperazione.
Se parli con i tassisti inizia una sfila di nomi più o meno conosciuti: Essien, Gyan, Boateng, Muntari, Appiah. Sono gli eroi del calcio d’esportazione. Nessuno ti sa dire la formazione della squadra in testa al campionato locale, ma se vuoi quella del Chelsea o del Milan non c’è problema. C’è qualcosa che mi colpisce sempre dei giocatori ghanesi che giocano in Europa: anche loro sono gentili. Non dicono cazzate, non provocano, non si tingono i capelli di verde, non hanno piercing. Sono normali, stanno bene nella loro pelle. 

sabato 21 maggio 2011

Saltatempo


Sono entrato due volte nella macchina del tempo. La prima fu in Bielorussia nel settembre 2001. All’epoca feci un salto quantico di vent’anni, per ritrovarmi in piena epoca sovietica, visitando sovkhoz, comitati del popolo e stanze del potere ornate di tutta la simbologia comunista: busti di Lenin, soli dell’avvenire e falci e martelli come se piovesse.
La seconda volta che ho preso la macchina del tempo è stato all’inizio della settimana scorsa, per ritrovarmi negli anni quaranta. Il centro di Asmara, la capitale dell’Eritrea, è rimasto praticamente identico a come gli italiani lo hanno lasciato alla fine del ridicolo tentativo di costruire un impero africano. Le strade sono quelle disegnate dal piano urbanistico e gli edifici seguono le linee spigolose degli incroci con curve d’epoca. Asmara è l'unica città "italiana" cresciuta con razionalità e pianificazione. E tutto è stile: dal rigido razionalismo degli edifici pubblici, all’art déco delle villette dell’élite, alle linee futuriste della stupefacente pompa di benzina "FIAT Tagliero", costruita a forma di aereo. I cinema di Asmara si chiamano cinema Impero, cinema Roma, cinema Odeon, cinema Dante Alighieri, alcuni ancora con le poltrone originali.
Per le strade pochissime macchine, niente traffico, qualche carro trainato da un asino. La scuola-guida usa delle 600 che sembrano uscite da un museo dell’automobilismo. E poi ancora camion FIAT et IVECO d’epoca che avanzano alla velocità dei loro anni, emettendo nuvole di fumo nero.
A cenare al circolo italiano ci si sente come in un film di Rossellini: un cortile pieno di alberi e tavoli rotondi, sembra di essere a Roma. Il proprietario è un signore che ha passato più di trent’anni a Torino e parla un italiano forbito e classico, quasi stucchevole nella sua perfezione sintattica. Ci offre prosciutto e melone, spaghetti ai gamberi e vitello tonnato. Dietro di me, sopra l’affettatrice con il San Dianiele, c’è un’insegna della Birra Moretti.
Gli italiani hanno lasciato l'architettura, il cibo e...il calcio. Sport nazionale per eccellenza, è principalmente giocato su campi senza un filo d'erba come quello di Kerem, che tra qualche mese - se tutto va bene - dovrebbe diventare un campo sintetico di ultima generazione da fare invidia a San Siro. Per il momento è un rettangolo sabbioso su cui ventidue giocatori fanno errori clamorosi a porta spalancata e gli arbitri fischiano fuorigioco fantasiosi, sedotti da guardialinee un po' troppo ligi al dovere. Mentre il pallone rimbalza sul terreno irregolare con traiettorie imprevedibili, dalle tribune arrivano le grida dei ragazzini: "fallo!", "fuorigioco!", "mano!". Manca solo "arbitro cornuto". Assieme al calcio ci siamo dimenticati di trasmettere il disprezzo per le regole.  

domenica 15 maggio 2011

Curve sinuose


Se dovessi disegnare un grafico dell'andamento del mio umore quando inizio a vivere in un posto nuovo, ne uscirebbe una curva perfettamente sinusoidale, qualcosa del tipo y=senx. C'è quell'eccitazione iniziale dovuta ad un mondo nuovo, con nuove regole e nuove facce, la necessità di soddisfare i bisogni primari: trovare casa, trovare un supermercato, il cinema, comprare mobili, la bicicletta, fare l'abbonamento del tram. E' la parte più dura fisicamente ma anche più facile psicologicamente, perché si obbedisce all'istinto e c'è poco da pensare, se non altro per chi ha dei gusti definiti oppure una certa tolleranza al diverso.
La curva sale e poi scende. Ma nella fase iniziale si pensa sempre che sia normale: verrà un momento di stabilità, almeno così si crede. Passano le settimane, poi i mesi e alla fine non si è più "the new kid on the block", si fa già quasi parte del paesaggio, si conoscono i tragitti di quasi tutti i tram, non si deve più chiedere agli sconosciuti dov'è quel tal posto o quel tal altro. Si iniziano anche a conoscere delle persone, a fare delle cose, magari anche una cena ogni tanto.
E poi ti ritrovi un sabato pomeriggio di tempo variabile, quello in cui la gente non scende in strada come tanti rivoli che si riversano verso il fiume, ma tende a rimanere un po' rintanata, paurosa di chissà quale evento nefasto. E poi mandi un sms, scrivi un'e-mail, un messaggio su facebook, magari un altro sms. E regolarmente ti ritorna indietro tutto come se stessi giocando contro Nadal ed attaccato c'è un "no grazie". La gente è sempre così terribilmente occupata in questa città. Bisogna programmare la vita sociale a tre mesi, come i pagamenti dei fornitori. E se qualcuno ti risponde è già un onore, perché la vera moda è semplicemente ignorare un messaggio. "You know I have to read hundreds of work e-mails per day, private messages are the last of my priorities" mi sono sentito dire senza il minimo accento di vergogna da una collega che si crede la reincarnazione di Nicole Kidman (per chi non lo sapesse la vera Nicole Kidman è tenuta sotto formalina nel museo delle cere).
E allora come passare un sabato sera di mezzo maggio, mezzo freddo e mezza pioggia? C'è una partita di tennis fenomenale e qualche rumore che viene dalla strada. E poi si può dormire. Visto che hai dormito fino a mezzogiorno e hai fatto una siesta di due ore nel pomeriggio vale la pena riposarsi un altro po'.
La domenica ti svegli alle nove e ti chiedi se qualcuno ti ha cercato, per caso o per sbaglio. Chiaramente no. Ma nel parco vicino a casa c'è un posto in cui hai sempre voluto far colazione ma che - visto che il tempo è sempre stato bello fin'ora - aveva sempre e costantemente tutti i tavoli occupati. Ma oggi il tempo è come ieri e quindi la gente rimane in casa, trincerata come se fosse la seconda guerra mondiale. Quindi c'è un tavolo libero, anzi più di uno. E la cameriera non è bella ma ha qualcosa di molto interessante ed è forse la prima donna che dà l'impressione di vederti quando ti guarda, ma forse lo fa solo per avere una mancia più generosa. Incominci un libro di seicento pagine che tanto hai tempo, e invece di deprimerti pensi che è una bella mattinata e che attorno a te c'è gente interessante (lo deduci dalle loro facce e dai loro vestiti perché chiaramente non conosci nessuno). E mentre fai una colazione tardiva ti viene in mente che vuoi andare ad arrampicare. Ti fa ancora male il polso dall'ultima volta, quando hai voluto fare Tarzan e sei caduto come una pera. Quindi prendi il telefono che nel frattempo ha ricevuto sei e-mail (tutte di lavoro) e chiami Christian con cui ti eri messo d'accordo per andare in palestra domenica. E Christian risponde e fa un po' lo stupito (si ricorda bene dell'appuntamento ma ogni volta sembra un po' sorpreso): è contento di venire. Ti dà appuntamento alle due. E così hai qualcosa da fare, anzi qualcosa che ti piace e non dovrai elemosinare attenzione o fare il brillante, perché c'è solo uno scopo finale in quello che andrai a fare: arrivare in cima il meno stanco possibile. E fa niente se lo stile lascia a desiderare e attorno a te c'è gente che sembra l'incrocio tra una scimmia e Spiderman. La battaglia è contro te stesso e basta. E gli sms e le e-mail e i messaggi facebook rimarranno nell'armadietto, chiusi con un lucchetto.

sabato 7 maggio 2011

Predicare pallido e assorto

Era da quasi un anno che non sentivo un farneticare mistico di quel livello. L'ultimo che mi viene in mente risale al Nicaragua, su un bus che mi stava portando tra scosse micidiali e un caldo infernale verso Juigalpa. La donna che mi stava urlando in faccia parlava di Dio, di peccati, di punizioni atroci e del flagello della droga (che non si sa perché spunta sempre fuori). Poi ha distribuito dei volantini di una chiesa evangelica e si è messa a vendere dentifrici con ottimi risultati (il senso di colpa è legato a doppio filo con il portafoglio).
Il delirio mistico di Zurigo è stato meno commerciale, ma non meno violento. Anche qui una donna, segno che l'emancipazione si diffonde in tutte le direzioni. Il discorso all'apparenza articolato non aveva alcun senso logico, ma il suo inglese condito da un accento asiatico era molto affascinante. E' salita su una panchina e si è messa a predicare tra la gente che si era riversata in riva al lago per catturare gli ultimi raggi di sole del venerdì pomeriggio, accatastati gli uni sugli altri come un gruppo di iguane marine, qualcuno anche brandendo degli enormi würstel come fossero delle spade. Poco lontano un emule di Jimi Hendrix suonava una chitarra elettrica: da Woodstock alla Borsa di Zurigo il passo è breve.
Io ero assorto in pensieri vari e assortiti, di cui quasi nessuno molto coerente e praticamente tutti molto pieni di una certa delusione quasi stantìa. Ogni tanto guardavo la donna che continuava la sua invettiva contro il marcio dei governi, sbracciandosi in favore della Salvezza e della Parola. Qualche passante gridava un Halleluja senza fermarsi e senza riuscire a fermarla.
Mi piace guardare la gente, osservarla camminare, parlare al cellulare, prendere il tram o stare sdraiata in riva al lago. Trovo l'umanità sconosciuta e casuale più intrigantedi quella più conosciuta e usuale. E così mi sono messo ad osservare un gruppo di ragazzetti vestiti da fighetti che stava proprio vicino alla predicatrice. E tra questi c'era un ragazzetto più fighetto degli altri, con i capelli tagliati di recente e una camicia di un bianco quasi artificiale, sbottonata proprio al punto giusto. E aveva degli occhiali neri e stava fumando una sigaretta ccon molta intensità ed è perfettamente cosciente che il gesto che sta facendo ha una valenza plastica che supera il valore della sigaretta stessa: era la descrizione pura del senso di superiorità.
A fianco al ragazzetto c'era una ragazza piuttosto carina. Una di quelle rare ragazze che non sono pienamente coscienti della propria bellezza. C'era qualcosa di insicuro in lei e guardava il ragazzetto con certi occhi in cui si mischiava un'indiscussa ammirazione a un desiderio di complicità represso.
Non so se lui se ne fosse accorto, forse troppo concentrato sulla perfezione del suo gesto di esperto fumatore per avere sufficiente interesse per lei. Comunque ad un certo punto il ragazzetto ha iniziato a prendere in giro la predicatrice, dicendole cose che non ho capito bene (ero un po' troppo distante o forse la mia sordità sta crescendo). La donna ha continuato la sua predica ed il gruppetto, già un po' alticcio e galvanizzato dall'effetto-branco, ha iniziato a gridarle contro e a ridere e a fare gesti e in tutti quei gesti c'era così tanta arroganza che non veniva alcuno dubbio che nessuno di loro si vergognava di essa o di sé. Alcuni se ne sono andati urlandole dietro ta gueule e non ho capito se fossero francesi oppure se usassero una delle tante espressioni che gli svizzeri tedeschi prendono in prestito da altre lingue, come sorry sorry o merci.
La donna ha continuato l'orazione, anche se con meno passione. Essere insultati non deve essere piacevole neanche se te ne freghi dell'opinione che gli altri hanno di te. Poi si è spostata ed è venuta vicino a me, mettendosi dietro a due ragazze che mangiavano da un contenitore di plastica tenendo un cane piccolo e ricciuto al guinzaglio. E ha ripreso a parlare. E anche qui una delle due ragazze si è girata e le ha urlato ta gueule e poi ha riso, non so se per imbarazzo o per fierezza e i nostri occhi si sono incrociati per una frazione di secondo e lì ho capito che era più la fierezza che l'imbarazzo, anche se sembrava chiedere inconsciamente la mia approvazione.
Ho distolto gli occhi dai suoi, ho preso la mia giacca e mi sono incamminato lentamente verso la fermata del tram numero 2, direzione Farbhof.

lunedì 2 maggio 2011

L'ideologia della lentezza

Che cosa si nasconde dietro l'ostentata, minuziosa, perfezione del modello svizzero ? Quale oscura colpa primigenia permette di pagare solo il 10% di tasse? Quale putrido scheletro nell'armadio è stato mascherato così bene dalla linda precisione elvetica?
Queste domande mi sono posto negli ultimi mesi semza tuttavia riuscire a trovare una risposta adeguata. Non il segreto bancario (ormai superato senza troppi ingombri, non solo dalle isole Cayman, ma addirittura dal Lussemburgo), né oscuri e improbabili complotti dietrologici. No, il vero lato oscuro della forza è un altro, strisciante e insinuante eppure così evidente. Forse troppo evidente per rendersene conto a prima vista. La vera ombra della Svizzera è la lentezza.
I tram sono il fiore all'occhiello di Zurigo: puliti, nuovi, ubiqui. Senza eccezione devono essere i tram più lenti dell'universo. Perché qui non è importante arrivare prima, qui l'importante è arrivare puntuali. E quindi capita (e anche abbastanza spesso) che se prendi un tram la domenica mattina presto, questo si arresta alla fermata anche se non c'è nessuno in attesa e nessuno che scende. E poi rimane fermo in attesa come di un evento previsibile che però non si manifesta. E poi riparte, fino a fermarsi poi di nuovo e attendere ancora un po': si aspetta che il monitor a fianco del conducente in cui sono segnati gli orari con tanto di secondi, indichi che è giunto il momento di partire.
Ma la lentezza non è sono appannaggio dei mezzi di trasporto (e delle macchine non parlo neanche, ma basti citare che non esiste tratto di strada senza l'autovelox di rito), la lentezza c'è anche al supermercato. In Italia andare al supermercato sembra uno sport olimpionico. Ci sono famiglie che si organizzano come se fossero membri di una forza d'assalto dell'esercito americano: uno va a prendere il biglietto del banco dei salumi, un altro corre alla frutta e verdura, un altro si occupa dei detersivi. E poi alla cassa è una catena di montaggio.
In Svizzera sembra di essere in una casa di riposo. Appena lo svizzero entra in un supermercato entra in una fase di rincoglionimento istantaneo e acuto: cammina come uno zombie, si attarda per corsie dove è chiaro non comprerà nulla, legge le etichette anche della carta igienica (che non si sa mai). Ma il meglio di sé lo dà alla cassa: dopo aver messo pazientemente (leggi molto lentamente) i suoi acquisti sul ripiano, guarda la cassiera passare oggetto per oggetto sul lettore di codici a barre, senza muoversi, quasi incantato dai gesti veloci (ma non troppo) della donna. Poi quando il totale è servito, presenta la sua carta-coop e infine paga, generalmente con il bancomat che si ricorda all'ultimo istante di aver lasciato in fondo ad una borsa gigantesca. E' solo dopo questa lunga trafila che inizia ad inserire gli oggetti ormai suoi in uno o più sacchetti (generalmente di tela e generalmente estratti da una tasca o dalla borsa gigantesca).
Più volte ho tentato di mostrare il buon esempio imbustando la spesa mentre la cassiera (piuttosto stupefatta dall'invenzione) passava gli oggetti sul lettore di codice a barre. Ma la mia invenzione non sembra avere attecchito. Deve essere apparsa troppo veloce e quindi troppo pericolosa.