lunedì 17 dicembre 2012

Comores



La bandiera delle Comores ha quattro stelle, ma le isole che compongono il piccolo stato insulare in mezzo all’oceano indiano sono tre. La quarta è Mayotte. Quando la Francia diede il diritto di scegliere tra l’indipendenza e diventare un DOM (domaine d’outre mer), tre delle quattro isole votarono per l'indipendenza, mentre Mayotte votò per restare territorio francese. A distanza di trent’anni, i figli di coloro che votarono sì fanno carte false per immigrare a Mayotte o in Francia continentale, legalmente o illegalmente.
Tutte le isole dell’oceano indiano sono destinazioni turistiche da sogno: Seychelles, Mauritius, la Reuniòn. Solo le Comores sono sconosciute ai tour operators e ai turisti indipendenti. Il perché non è chiaro, visto che il mare è lo stesso ed il clima anche. Per di più alle Comores un’aragosta costa come una birra alle Seychelles. Misteri del turismo di massa. E’ chiaro che dopo il mio passaggio ci sono molte meno aragoste nel mare.
Quando si prende un volo per le isole, è bene avere una fede molto radicata in dio o nelle forze soprannaturali che soprassedono all’aviazione civile. Poco prima della mia visita un aereo ha gentilmente ammarato poco dopo il decollo a causa di un motore che si è scoperchiato. Nessun morto e nessuno ferito. Ho anche incontrato uno dei superstiti che si è fatto quaranta minuti a nuoto per tornare a riva senza giubbotto salvagente. Mi sono dimenticato di chiedergli che fine ha fatto l’aereo. Mi sono sempre chiesto cosa se ne fa di un aereo parcheggiato sul mare.
Il dio dell’aviazione mi ha assistito al ritorno per Zurigo. Il check in del volo Kenya Airways era già chiuso quando siamo arrivati in aeroporto. Mancavano ancora due ore al volo. Con noi una quindicina di passeggeri che tentavano di districarsi tra la massa di gente in partenza, i parenti all’attesa degli arrivi e curiosi vari che vanno all’aeroporto per passare il tempo. Dopo vario parlamentare si è capito che, visto che l’aeroporto è piccolo, ogni compagnia ha delle fasce orarie per fare il check in. Quella della Kenya era dalle 9 alle 12. Il volo partiva alle 14. E’ toccato parlare con il direttore dell’aeroporto che ha fatto il piccolo miracolo. Benedetti dal nostro intervento risolutore sono stati anche il resto dei viaggiatori, che in caso contrario sarebbero rimasti un paio di giorni in attesa del prossimo aereo.

sabato 8 dicembre 2012

Nella tana dei lupi


La strada che porta in città è una lunga linea retta che taglia in due un’immensa risiera in cui spuntano qua e là, come funghi, delle case di mattoni rossi. La strada è stretta e ogni tanto bisogna zigzagare tra biciclette, motorini e gli onnipresenti taxi-brousse, i furgoncini del trasporto pubblico. A prima vista si penserebbe di essere in Vietnam o in Cambogia. Questa è Africa ma – come tutte le isole – è un continente a parte, un misto di Asia, Africa, Arabia ed Europa. Si chiama Madagascar.
Antananarivo, per gli amici Tana, è una capitale africana atipica. Non ci sono gli orrendi palazzi anni settanta, né la polvere (o il fango quando piove). Non fa caldo e soprattutto c’è acqua dappertutto, dentro e fuori dalla città.
Lasciando alle spalle le risiere e le collinette di argilla fumante che si trasformerà in mattoni, si entra in Francia. Gli Champs Elisés sono un viale alberato attraversato da un piccolo fiume che porta alla stazione centrale, dove si può bere qualcosa al Café de la Gare. Se si ha fame si può pranzare su una terrazza con vista sulla città in una delle tante case coloniali con tetto spiovente. Il Madagascar è uno dei paesi più poveri del mondo ma a Tana si mangia meglio che a Parigi: carne, pesce, aragoste, fois gras, maigret de canard. C’è tutto, per chi può pagarselo s'intende. I paesi poveri sono una manna per chi è ricco.
Come in tutte le favole, anche qui c’è il lupo cattivo, o meglio ce ne sono molti; tanti quanti i presidenti ed ex-presidenti ancora in vita. Il Madagascar è come l’Italia, il potere non lo si lascia mai, o almeno il desiderio di averlo o riaverlo. Il risultato è una transizione eterna, in cui il conflitto tra i soliti due contendenti gela il passare del tempo in attesa che uno dei due molli l’osso. Nel frattempo gli aiuti internazionali sono al minimo, nessuno si azzarda ad investire e tutta la ricchezza (e la povertà) si concentra nella capitale, dove si trova il 90% dei soldi. Tutti qui - senza eccezione - scuotono la testa pensando cosa potrebbe essere in Madagascar se fosse amministrato bene. Un giorno arriverà un terzo contendente che prima o poi godrà: la versione politica del ciclo delle nascite e delle morti indu-buddista.





giovedì 8 novembre 2012

Lisboa


Nelle 36 ore che ho passato a Lisbona ho arricchito il mio vocabolario portoghese di nuovi termini: "juros" (tassi d'interesse), "orçamento" (budget), "poupar" (risparmiare). In Portogallo la crisi (che qui si chiama crise), non solo si vede, ma si respira e si beve con il primo cafezinho da manhá. I ristoranti sono semivuoti e i negozi ti propongono sconti vertiginosi su prezzi già sufficientemente bassi, a volte quasi ridicoli. I giornali e telegiornali non parlano d'altro e ad ogni angolo di strada c'é un cartello elettorale o un poster di qualche partito d'opposizione che denuncia la crisi (un po' come urlare contro la pioggia invece di cercare un ombrello). La scritta "greve geral" (sciopero generale) appare un po' ovunque, seguita da una data. Ma la data non é mai la stessa e non capisco se lo sciopero del 14 novembre si riferisce al 2012, 2011 o 2010.
Comunque sia, quest'aria mesta di recessione sembra quasi naturale in questa città, già un po' melanconica di suo, abituata al declino (quello economico è in corso da 4 secoli, anno più anno meno). Se la ricchezza genera fasto architettonico, il tempo e la povertà portano fascino e bellezza. Questo sembra spiegare il potere ammaliante dei vicoli che si inerpicano tra muri scrostati e splendidi azulejos, trafitti da binari arrugginiti su cui sferragliano tram traballanti che sembrano accasciarsi ad ogni curva. Si avrebbe voglia di affittare ogni casa con il carello aluga-se e di comprare ogni soffitta con il cartello vende-se (e per chi cercasse un affare immobiliare i cartelli non si contano). Ci si può immaginare senza problemi a passare il resto della propria vita a mangiare bacalhau in una taverna con quattro o cinque tavoli ad ascoltare il vicino fare un'analisi dettagliata delle potenzialità di ogni squadra portoghese (ne ho trovato uno che avrebbe fatto impallidire il 'Tennico' del Bar Sport di Benni). Sarebbe il sogno di chiunque, in particolar modo di quei pompieri portoghesi a cui un anagramma governativo ha abbassato lo stipendio da 750 a 570 euro. Stanno tutti cercando di fare come me: andare a lavorare in Svizzera, dove tutto funziona a perfezione, ma la parola fascino non sarà mai associata ad un angolo di strada.

lunedì 5 novembre 2012

Bissau


Ci sono luoghi in cui la costruzione finisce ed inizia la distruzione. Si tratta in genere di un processo progressivo, lento e inarrestabile. Uno di questi luoghi è Bissau, sulla costa occidentale dell'Africa, ex-colonia portoghese e in quanto tale vittima di una colonizzazione ottusa e anacronistica e di una decolonizzazione troppo rapida e immediata. Bissau è una città che ad ogni angolo fa intravedere il suo passato, senza far trasparire nulla del suo futuro. Ci sono solo vecchi edifici che resistono a fatica all'incedere del tempo, mentre tutto il resto - le strade, i marciapiedi, i lampioni - ha alzato bandiera bianca e si è rassegnato a farsi coprire da uno spesso strato di terra rossa e bellissima, che nella stagione delle piogge (cioè più di metà dell'anno) diventa fango rosso e bellissimo, almeno se non ci si deve camminare sopra.
La Guinea Bissau è la testimonianza vivente che quando l'umanità riuscirà nell'impresa di autodistruggersi, la natura prenderà il sopravvento e cancellerà ogni traccia di urbanizzazione, ad una velocità che sorprenderà gli stessi alberi.
Nonostante l'abbandono e la crisi politica, ovvero l'ultimo di una lunga serie di colpi di stato che si succedono con la stessa cadenza della stagione delle piogge, Bissau è veramente bella. Bella come la terra rossa o il fango rosso, bella come i suoi mercati di poche ed esenziali oggetti, primo tra tutti le torce per sopperire alla mancanza di elettricità. Bello come i tessuti ancora prodotti a mano oppure come le donne che camminano ancora più dritte e con ancora più peso sulla testa che nel resto d'Africa. Bissau è anche buona e ti serve nel piatto gamberoni grandi come aragoste e pezzi di barracuda che sembrano mattoni, oltre che varie prelibatezze portoghesi fatte di pezzi di maiale, fave e patate, forse adatte all'inverno atlantico, ma un po' meno al clima tropicale.
Partire è sempre un po' morire, ma partire da Bissau è un vero e proprio incubo. Per entrre all'aeroporto bisogna fare a spallate e una volta dentro bisogna fare una fila a caso tra il check in che dice Royal Air Maroc, Air Senegal o TAP. In realtà non conta quale si sceglie perchè c'è praticamente solo un volo per volta e spesso, più semplicemente, solo un volo per giorno.

domenica 21 ottobre 2012

Tutte le vie portano in cima


C'è una parete sopra Näfels, nel cantone di Glarus, che sembra stata creata dal dio della Montagna per il piacere degli alpinisti. E' una specie di largo ferro da stiro alto duecento metri striato da innumerevoli crepe verticali. La roccia è un calcare ruvido e bianco, su cui si riesce facilmente a salire in aderenza. Pensavo di non incontrare nessuno in ottobre da queste parti, ma dal parcheggio risculta chiaro che ho poca immaginazione. Nel paese dell'arrampicata, mai sottovalutare la densità di popolazione in una parete esposta a sud in una domenica di mezzo autunno.
Per arrivare in parete bisogna camminare un'oretta in mezzo ai prati e agli alberi. In questo periodo i colori sono semplicemente maestosi: un misto di rosso intenso, giallo opaco, il blu del cielo senza una nuvola e il verde scuro delle conifere. La mia compagna di scalata, Anja, arriva alla parete con un evidente fiatone. Non avere una vita sociale, come me, aiuta molto il sonno il sabato sera. Lei invece sembra avere degli amici a cui piace fare tardi.
Prima che qualcuno ci rubi la via, mi apposto di fronte al primo spit ed inizio il laborioso processo di preparazione finché sono pronto per l'attacco. Mi rendo subito conto che ho sottostimato l'effetto caldo. Non c'è un alito di vento ed il sole splende nel cielo. Dopo tre movimenti ho gli occhi che bruciano per il sudore misto a crema solare. Dopo due tiri di corda ho la gola arsa e l'acqua scarseggia. Per di più Anja decide di fare tutti i tiri da seconda, per cui ho ben poco tempo per rilassarmi. In compenso mi rendo conto che la responsabilità mi fa sentire più leggero . Lo avevo notato per la prima volta facendo parapendio: la prima volta che ho volato da solo è stata anche la prima volta che non ho avuto paura (una delle molte cose che mi distinguono dalle persone normali).
Dopo tre tiri sono esausto e con una sete tremenda. Non posso che pensare a Walter Bonatti, il cui libro ho finito l'altro ieri in preda ad una modesta crisi d'insonnia. Nel suo libro i circa centro metri di dislivello che abbiamo appena fatto non meriterebbero nemmeno una nota a pié di pagina. Ma in fondo l'arrampicata non è che una sfida con se stessi, o con quello che siamo nel momento che la affrontiamo.
Si va avanti, ma siamo raggiunti da una coppia svizzera che è leggermente più veloce di noi. Invece di aspettare alla sosta più in basso, comodamente sistemati (si fa per dire), uno dei due arriva sempre mentre io sto per partire, il che crea una certa confusione di corde, allonges, rinvii che mi piace poco, visto che il primo chiodo è anche il più pericoloso. La via sembra molto più difficile di quello che dice il libro e temo di avere preso quella a fianco. Su carta sembra sempre tutto evidente, ma poi non ci si capisce mai niente.
Nell'ultimo pezzo scompare ogni parvenza di protezione. Non c'è un chiodo (i famosi spit odiati da Bonatti) a pagarlo oro. Tocca continuare in modo tradizionale, usando friends (degli aggeggi che si conficcano nella roccia e che più si tira la corda più si dilatano), nuts (dei coni di metallo attaccati ad un'asola) e fettucce varie. E' la prima volta che arrampico in modo tradizionale e benché il tratto sia il più facile della via, è un vero piacere liberatorio: puoi decidere tu dove fissare la tua protezione (se la roccia te lo permette). Benché sia in teoria più pericoloso, non ho la minima paura (vedi sopra). Insomma arriviamo in cima e la vista è uno spettacolo: da un lato si vede la valle di Glarus, dall'altra il lago di Zurigo. Gli alberi nella vallata sembrano dipinti da Monet.
Arrivati in cima tocca scendere, ma - non avendo letto bene la guida - mi ritrovo con una corda troppa corda per le calate in corda doppia. Tocca scendere a piedi, il che vuol dire camminare con quelle specie di scarpe da balletto che abbiamo addosso, che ci fanno già un male cane. Facendo uscire il tallone si ha un po' meno male, ma la presa sui sassi e sull'erba non è un gran che. Ogni tanto conviene sedersi e farsi una bella slittata sul pendio ripido.
Arrivati ai piedi della parete mi rendo conto che avevo lasciato i miei pantaloni incustoditi, con dentro le chiavi di casa, la patente, i soldi e il bancomat. Siamo in Svizzera e avrei potuto lasciare una banconota da 200 euro e un braccialetto d'oro che li avrei ritrovati al ritorno.
Sono ufficialmente distrutto.

mercoledì 17 ottobre 2012

Maputo


Per una strana ironia della storia, le due peggiori potenze coloniali (Italia e Portogallo) hanno lasciato in eredità le due più belle capitali dell'Africa subsahariana: Asmara e Maputo. In entrambi i casi si respira un'aria di passato, velato da una ben evidente decadenza.
Maputo è una città costituita di grandi arterie piene di alberi che le danno colore e ombra. Ogni tanto, da qualche angolo di strada, sbuca un piccolo miracolo di architettura, quasi sempre un edificio in stile Bauhaus di inizio secolo. Entrare in un ufficio pubblico è un'esperienza in sé: i muri scrostati, i cortili interni, i poster alle pareti, tutto sembra essere stato messo lì da un bravo scenografo nella preparazione di un film d'epoca. Ci si aspetta da un momento all'altro di vedere spuntare la figura austera e un po' triste di Salazar, il dittatore senza carisma, oppure una giovane Miriam Makeba che canta "A luta continua". A tratti si è spaesati e si crede di essere nella città vecchia della Havana.
Come ogni città di mare, Maputo si muove ad un ritmo tutto suo, come una specie di danza collettiva. La spiaggia è una lunghissima linea retta intramezzata di brutti edifici, immondizia e fognature. In un'acqua color marrone i bambini fanno un bagno piuttosto sporco, ma lo sfondo è perfetto per foto in bianco e nero di fotografi della povertà esotica.

domenica 14 ottobre 2012

Il piccolo reame


Il minuscolo aereo è scosso da grossi tremori, come se avesse la febbre a quaranta. Fuori dal finestrino c’è il diluvio universale. Le scosse sono così intense che non riesco a leggere il mio librone sulla storia della colonizzazione africana e mi concentro ad ascoltare le urla di dolore dell’aereo, che si placano solo quando le ruote toccano l’asfalto bagnato della pista di Manzini, Swaziland, una delle ultime monarchie assolute al mondo.
L’aeroporto è così piccolo da sembrare un giocattolo. Invece dei doganieri ci si aspetta di incontrare degli omini Playmobil. Devo chiedere dov’è l’uscita perché mi sembra strano che la porta sia grande come quella di casa mia. In compenso le formalità durano qualche secondo e in un baleno mi ritrovo sotto la pioggia locale.
Mi aspettavo un posto semi-desertico e invece mi ritrovo in una fotocopia della Svizzera. Tutto è verde e ci sono anche molte mucche. Per di più tutto sembra ordinato e pulito, lontano anni luce dallo stereotipo africano. L’unica cosa che sapevo dello Swaziland prima di metterci piede era che ogni anno c’è un’enorme festa in cui tutte le vergini del paese si mostrano al re perché le prenda come moglie. Visto che il re è asceso al trono nel 1986 è da parecchi anni che la solitudine non è un problema per lui. Sicuramente un sistema ingegnoso contro gli intempestivi mal di testa femminili.
In preda ad evidenti stereotipi eurocentrici, mi aspettavo una popolazione di gente vestita da pelli di leopardo che balla al ritmo del tamtam. Invece mi trovo a viaggiare tra le colline coperte di campi di canna da zucchero e ananas su strade che sono il sogno di ogni motociclista: perfette e sinuose. In ogni ufficio pubblico o albergo c’è la foto di un uomo con una corona di peli d’animale e piume d’uccello. E’ sua maestà il re, l’uomo più invidiato dagli uomini (e ancora piuttosto adorato dalla maggioranza dei suoi sudditi, almeno quelli che hanno in odio i partiti).

domenica 7 ottobre 2012

Pensieri sparsi in falesia


Mentre stavo osservando la parete di roccia di fronte a me ho pensato a Walter Bonatti, di cui sto leggendo un libro proprio in questi giorni. Il pensiero mi è venuto perché tutte le vie erano tracciate usando degli spit, i chiodi ad espansione. Bonatti odiava gli spit, non avendo mai abbandonato i chiodi di ferro da piantare a colpi di martello. Per lui trapanare la roccia per metterci un chiodo ad espansione equivaleva a barare. Il suo attaccamento alla scalata classica andava oltre la prassi, era vera e propria ideologia.
Ho guardato uno ad uno tutti i pezzi della mia attrezzatura: imbrago, corda, rinvii, allonges, friends, nuts, moschettoni. Tutto il mio materiale resiste a tensione di più di 20 kilonewton, ovvero più di 200 volte il mio peso. Il materiale da arrampicata negli utlimi decenni è stato completamente rivoluzionato e così l'arrampicata stessa, che è diventata sport di massa - almeno in Svizzera.
E pensando a Bonatti e alla mia paura a finire trenta metri di roccia in completa sicurezza (grazie agli odiati spit e all'attrezzatura di cui sopra) ho anche pensato ad un articolo di Bartezzaghi in cui parlava del fatto che quando furono create le parole crociate, gli enigmisti si divisero in due categorie: quelli che accettarono di includere le parole crociate e quelli che le rifiutarono. Quest'ultimi vennero definiti "enigmisti classici". Ogni invenzione cambia in modo risoluto e spesso rivoluzionario il nostro mondo. Nulla è come prima. Ci si può opporre al cambiamento e diventare dei "classici", oppure farlo proprio.

martedì 2 ottobre 2012

La Svizzera, lo svizzero e la sua paura

La paura è all'origine di infinite aggregazioni sociali, ideologie e religioni. La paura della morte ha portato l'uomo a creare e giustificare l'idea di un aldilà; quella del nemico a costruire torri, mura e fossati; quella dell'altro a teorie razziali devastanti, e via di questo passo.
La paura è anche alla base dell'identità svizzera. E' fondamentalmente l'unica ragione (oltre al formaggio e alla cioccolata) per cui popoli tedeschi, francesi, italiani e romantsch hanno creato una confederazione tanto diversa quanto improbabile. La paura di essere occupati e dominati dai grandi imperi - austroungarico, prussiano, francese - ha portato varie tribù ad unirsi in un patto difensivo che si è fatto via via più stretto e dettagliato per ragioni di sopravivenza, fino a diventare confederazione ed infine stato.
Ma la paura non è solo ragion di stato. La paura è tuttora il tratto determinante del popolo svizzero. In un paese con tassi di criminalità ridicoli, tassi di disoccupazione ad una cifra (e molto bassa), con il reddito pro-capite tra i più alti al mondo e risparmato da terremoti e inondazioni, lo svizzero medio vive tutt'ore in preda al panico. E' come se la paura fosse nei geni. E' solo per un certo senso della cortesia che lo svizzero non fugge a gambe levate quando uno sconosciuto gli rivolge la parola ed è solo grazie all'usura del tempo che gente immigrata trent'anni fa viene considerata innocua (e alcuni vincono anche il premio del passaporto).
Anche la famosa precisione e organizzazione elvetica è in fondo il prodotto della paura (oltre che dell'industria orologiaia fiorita grazie alle lunghe pause invernali che metteva a disposizione manodopera agricola per più tempo). La precisione non è altro che un modo per eliminare l'alea della vita. Il treno che spacca il secondo e che ti permette immancabilmente di prendere la coincidenza con il tram non è altro che una rete di sicurezza contro l'imprevisto, l'incontrollabile e l'imponderabile. La stessa funzione è svolta dalla certezza che ogni violazione delle regole venga punita, spesso grazie alla delazione sistematica. Tutti devono rispettare le regole alla lettera, sennò il sistema crolla e con esso le difese che esso rappresenta. E tale sistema non ammette deroghe e nemmeno eccezioni, perché troppo pericolose. E così è molto meglio - oltre che ridicolo - passare dei minuti interi a fissare un semaforo rosso, in piedi, a guardare una strada deserta, nel mezzo della notte. La cosa non risponde a nessun imperativo di sicurezza (se non ci sono macchine a che serve aspettare?), ma è così incredibilmente, totalmente, assolutamente rassicurante!

sabato 15 settembre 2012

Klettersteig o via ferrata


Per festeggiare la fine dell'estate volevo andare ad arrampicare, ma Jeannine e Adrian sono in Sardegna, May ha una gara di vela, Patrick ha la ragazza, Xavier un impegno. Ho anche messo un annuncio sul sito di arrampicata e l'unico che mi ha risposto è un sessantenne che però mi diceva che il tempo non era abbastanza bello (non so che previsioni abbia guardato, visto che non cadrà una sola goccia di pioggia in tutta la Svizzera). Insomma, per farla breve ho deciso di fare una ferrata che avevo addocchiato in giugno ad Engelberg. Fare una ferrata da solo non è proprio il consiglio del capitolo primo del manuale della sicurezza in montagna, ma chi se ne frega.
Mi dimentico a casa il libro sulle valanghe, la lettura per il viaggio in treno, per cui compro la Repubblica, da cui apprendo che la Tunisia che avevo conosciuto fino ad un paio d'anni fa è impazzita e che delle folle di uomini barbuti con gli occhi iniettati di sangue hanno fatto un macello proprio dietro a quella che per qualche mese è stata casa mia: l'orrido quartiere di Berges du Lac, costruito con soldi sauditi e sede di varie ambasciate, tra cui quella americana. Il giornale non sembra contenere una sola notizia positiva a parte la marea bassa dello spread. Per il resto c'è corruzione, populismo, pre-campagna elettorale e polemiche posticcie sulla morte di un cardinale in fase terminale.
Chiudo il giornale quando il treno arriva ad Engelberg e vengo accolto da una brezza fresca, quasi fredda. Il sole illumina il ghiacciaio del Titlis e nel cielo c'è qualche occasionale parapendio, ma non una nuvola. La passeggiata fino all'attacco della ferrata è puro piacere mattutino.
La ferrata è ben frequentata e davanti a me ci sono tre svizzeri molto concentrati. Dietro arriva un gruppetto di italiani annunciati dal consueto casino. Mentre sto per salire, una delle ragazze mi chiede in inglese "è vero che la ferrata è per alpinisti esperti? Vero? Io ho le vertigini e ho paura. Meglio che non la faccia vero?" Più che delle domande sembra avere bisogno di conferme che sia io che gli svizzeri le diamo: "non farla, è meglio", le diciamo, prima che scompaia sul sentiero normale. E' ormai da molto tempo che ho smesso di tentare di capire la gente.
La ferrata si rivela piuttosto divertente, con vari pezzi perfettamente verticali in mezzo alla parete. Ogni tanto tocca aspettare che quelli davanti si muovano, ma il panorama non delude. C'è anche tempo per mangiare qualcosa e per vedere lo zaino di uno degli svizzeri farsi un volo di cinquecento metri verso valle. Sospetto che lo smartphone che c'era dentro non sarà più smart a fine giornata.
La salita è completamente assistita da supporti metallici o scale, quindi non è tecnicamente difficile, ma è piuttosto faticosa perché interminabile. L'ultimo pezzo - una scala sospesa a dei cavi sopra uno strapiombo - non è per deboli di cuore.

martedì 11 settembre 2012

Sustenhorn


Quello che adoro della Svizzera - oltre al fatto che si pagano poche tasse - è poter andare in montagna in treno. E quando dico montagna voglio proprio dire montagna: si scende dal treno e si inizia a camminare o, in inverno, a sciare. E dove non arriva il treno arriva il Post bus, il mitico autobus giallo delle poste che parte pochi minuti dopo l'arrivo del treno e arriva letteralmente ovunque.
Un'altra cosa che adoro della Svizzera - oltre alle tasse e ai treni - sono le sue montagne. Per un'arcana magia, appena inizio a camminare su un sentiero di montagna scompaiono tutte le piccole frustrazioni quotidiane, la freddezza della gente di Zurigo, il caro-benzina e anche la sconfitta di Federer ai quarti dell'US Open. Nella mia mente si gonfia una specie di gommone su cui galleggiano a intermittenza pensieri che passano senza lasciare tracce. Camminare diventa mezzo e fine.
Il sentiero che sale da Götschenalp è sinuoso e poco ripido, perfetto per guardarsi attorno e anche mangiare i mirtilli che crescono un po' dappertutto. Questo è probabilmente l'ultimo week end d'estate e tutti ne approfittano per godersi un po' di sole, mentre i pastori portano a valle le vacche prima che arrivi il freddo. Per me è l'occasione di salire su un ghiacciaio, almeno finchè non ricominci la stagione invernale.
Il rifugio è piccolo, la cena modesta, la conversazione molto semplice, in particolare perchè capisco una parola su due. Mi concentro sulle cartine topografiche e mi infilo nel mio sacco-letto appena posso. La notte passa stranamente senza troppi problemi, mi sembra anche di riuscire a dormire. La sveglia è alle 4.15, i primi passi nel gelo della mattina sono le solite mazzate alle gambe, ma poi passa tutto e mi trovo a camminare come un automa fino all'inizio del ghiacciaio. C'è qualcosa di magnifico nel rituale dell'arrivo alla lingua del ghiacciaio: la pausa, lo zaino messo a terra, l'imbrago, l'incordatura e soprattutto i ramponi. Sono degli aggeggi magnifici i ramponi, così magnifici che ti permettono di camminare sul ghiaccio. Arrivo in cima al Sustenhorn, a 3.500 metri, che neanche me ne accorgo. Il paesaggio è indescrivibile: una lingua di ghiaccio che si spezza in centinaia di crepacci che lo tagliano come tante ferite trasversali.
La discesa è la solita tortura. Come sempre c'è chi non riesce a fare due passi con lo stessi ritmo e si crea un tira-e-molla insopportabile. A peggiorare la cosa, questa volta, c'è che quella davanti va troppo veloce e quella ditro troppo lenta, per cui vengo tirato contemporaneamente in avanti e indietro. Quando arriamo alla terra ferma tiro un enorme respiro di sollievo: libertà, ognuno con il suo ritno, ognuno per i cavoli suoi.

domenica 9 settembre 2012

Seychelles via Doha e ritorno


L’hostess della Qatar Airways si inginocchia mentre mi chiede cosa voglio mangiare per pranzo. Ha il visto sorridente e gli occhi a mandorla, come tutte le sue colleghe (tranne una) che si affaccendano a servire piatti come se si trattasse di un ristorante più che di un aereo. Tutta questa cura nel servizio necessita di un numero spropositato di hostess e – visto che il bagno si trova dietro la cucina – mi tocca scavalcarne una mezza dozzina per fare pipì. Per fortuna sono tutte minuscole, perché se fossimo su un volo KLM - le cui hostess hanno notoriamente delle proporzioni gigantesche - bisognerebbe chiamare i pompieri per passare.
A Doha passo un paio d’ore in attesa del mio aereo per le Seychelles. La lounge è dotata di zona bambini, zona rilassazione e anche zona video-giochi. Più che una lounge si tratta di un ristorante in cui varie decine di formichine con il cappello della Qatar Airways si occupano di te con un eterno sorriso stampato in faccia. Il segreto della Qatar è che non è una compagnia che deve fare profitto, ma una vetrina per il paese, come del resto quasi tutti quello che viene fatto qui: da Aljazeera alla Qatar Foundation.
Alle Seychelles, la destinazione finale del mio viaggio di lavoro (almeno in parte) mi portano in un hotel che ha più stelle che la costellazione di Orione. La mia stanza, una junior suite (dunque la più piccola a disposizione) è grande più o meno come il mio appartamento di Zurigo. Per muoversi da una parte all’altra dell’albergo ci sono delle macchinine elettriche come quelle per il golf che funzionano come navette. Qui muoversi a piedi sembra anticostituzionale. Il personale dell’albergo ha a disposizione biciclette, motorini elettrici o macchinine elettriche a seconda della posizione nella scala gerarchica. Anche qui sembra che tutti si sveglino con il sorriso in faccia. Manca solo il barman baffuto e uno si crederebbe in un episodio di Love Boat.
Per ragioni professionali faccio un’ispezione nella parte più lussuosa dell’albergo. La ragazza che mi accompagna è guatemalteca e ha passato gli ultimi anni tra Seychelles, Mauritius e Dubai. Il suo lavoro attuale è fare il maggiordomo privato per i clienti delle ville che strapiombano sul mare. Mi fa vedere la più esclusiva che è dotata di ben due piscine private (che non si sa mai che uno vuole cambiare un po’ aria tra una nuotata e l’altra), palestra privata, sauna e varie altre amenità. Il modico prezzo va dai 9.000 ai 15.000 dollari a notte. Come mi spiega la maggiordomo senza una vena di ironia nella voce, si ha in cambio un’enorme privacy (ci mancherebbe altro). Per quanto apprezzi lo sforzo di produrre tanto sfarzo, il risultato finale è di una banalità disarmante. E poi? Ti viene da chiederti: e poi?
Dopo qualche giorno passato più a fare riunioni che a nuotare, ripasso per Doha sulla via del ritorno dove passo tredici ore tra lavoro e dormiveglia. Faccio un giro per il centro che è un’accozzaglia di grattacieli di medie dimensioni inframmezzati da strade e dal nulla, in attesa che quest’ultimo sia riempito da altro cemento in breve tempo. Metà degli edifici sono degli enormi alberghi a cinque stelle, praticamente semivuoti. Verso mezzogiorno, con una temperatura vicino ai quaranta gradi, la città sembra deserta. Si vedono solo strade ed edifici. Non c’è la traccia di un albero e ancora meno di un passante, tanto che non si capisce perché abbiano costruito i marciapiedi visto che tutti vanno in giro in macchina. Dove vadano è un altro mistero, visto che i posti più “turistici” – il porto, la spiaggia, il lungomare – sono tutti irremediabilmente deserti. Solo le shopping mall debordano di gente, per lo più uomini vestiti in tuniche bianche con delle tovaglie sulla testa e donne in completi totalmente neri, con o senza l’opzione tapparella sulla faccia. Vista la moda dilagante non si capisce chi compri gli abiti multicolori e succinti che si vendono nei negozi. Più che un’economia di mercato sembra piuttosto un mercato dell’economia.
Quando atterro a Zurigo e prendo il trenino che porta all'uscita mi accorgo che il mio vicino è completamente tatutato, letteralmente dalla testa ai piedi. Nonostante le mie scarse conoscenze dei video di Lady Gaga lo riconosco grazie ad un articolo che ho letto in 20 Minuten, il giornale distribuito gratuitamente nel tram (e mia fonte porincipale di vocabolario tedesco). Trattasi di Rick Genest, alias Zombie Boy. Vorrei chiedergli se gli piace Camus ma sembra troppo concentrato sul suo iPod nano.




martedì 28 agosto 2012

Groenlandia 4



Romain lo Svizzero non si è messo la crema solare per tutto il viaggio perché non gli piace. Il risultato è che gli si sta squamando la faccia come ad un Visitor. Non ha neanche messo il Labello e le sue labbra sono tumefatte. Per di più, qualche giorno fa è caduto su una roccia maciullandosi un dito che è ormai in cancrena. Non l’avessi visto integro non più di dieci giorni fa penserei che sia un lebbroso.
Si parte alle 7.30 per l’ascesa alla vetta. Sono poche centinaia di metri di dislivello, ma lo zaino le fa sembrare eterne. In cima al monte Trefoten abbiamo una vista a 360 gradi sui ghiacciai che si gettano nell’oceano.
C’è poi il dubbio sulla via da prendere per continuare il nostro giro. François esplora l’orizzonte come Mosé e poi sentenzia: “di qua”. Lo seguiamo per un dirupo pietroso e dopo pochi metri Stefanie fa un doppio salto carpiato con avvitamento e atterraggio sulla faccia. Pensiamo al peggio, ma si rialza da sola anche se dolorante e con una serie di escoriazioni sulla fronte. Ora può fare concorrenza con Romain lo Svizzero che – nonostante qualche visibile problema di stabilità – è riuscito a scendere senza maggiori problemi.
Di fronte a noi abbiamo un immenso ghiacciaio e François decreta l’incordatura causa rischio crepacci. La mia cordata è composta da Ben e Romain. Ben procede a passo di lumaca, mentre lo svizzero quasi corre per poi bloccarsi e riprendere a correre. Per evitare il tira-e-molla decido di tenere la corda ben tesa così da rallentare Romain. Mi sembra di avere un cane al guinzaglio.
Finito il ghiacciaio c’è un altro dirupo roccioso e Stefanie sembra traumatizzata. Con molta fatica arriviamo ad un punto quasi verticale in cui decidiamo di calarci con la corda. Scendo per primo per aiutare gli altri a scendere. Con i più restii sono costretto a tirarli giù a forza. Con gli zaini uso la stessa tecnica ma con risultati peggiori perché mi sfuggono di mano e fanno un volo di 50 metri. Il fucile anti-orso non apprezza.
Verso le sei di sera troviamo un posto per dormire. Non è il migliore ma nessuno ha voglia di continuare. Abbiamo camminato otto ore che si sentono tutte.



La mattina è fredda e umida. Il solito torcicollo in formato famiglia si è frapposto tra me e il sonno. Ben non ha russato come al suo solito, indice che anche lui ha dormito poco. Quando si toglie la mascherina dagli occhi i dubbi sono conformati: sembra un vampiro.
Il programma della giornata rimane invariato rispetto agli ultimi dieci giorni: si cammina. Tutta una serie di piccoli dolori confluiscono gli uni sugli altri come gli affluenti di un fiume in piena: caviglie, polpacci, ginocchia, fianchi, schiena, spalle, nessuna parte del corpo è risparmiata.
La giornata passa tra i soliti panorami da sogno, con tanto di piccola gara di sci su un nevaio. Per la notte troviamo un piccolo angolo di paradiso vicino ad un lago. Al momento di montare la tenda Ben ed io abbiamo uno dei nostri momenti di vecchia coppia inacidita: io voglio terrazzare il fondo per la tenda mentre lui è ben contento che gli spigoli delle pietre appuntite gli si conficchino tra le vertebre mentre dorme. La soluzione dell’enigma è salomonica: io lavorerò sulla mia metà della tenda (quella destra) e lui la lascerà così com’è. Per il resto seguiamo degli automatismi collaudati. Io mi occupo dei picchetti mentre Ben cerca delle grosse pietre (odia sporcarsi le mani). Ne approfitto per imparare qualche parola tecnica in francese: i picchetti si chiamano sardine, mentre i pali della tenda si chiamano balene. L’immaginario è piuttosto marino, ma la cosa non mi sorprende. Il francese è una lingua in cui vagina è maschile e cazzo è femminile.
Visto che è presto e c’è un bel sole, c’è tempo per un bagno nel lago. Siamo in quattro a sfidare la sorte. Oltre a François, Ben e me si aggiunge anche Romain lo Svizzero che per la prima volta tenta un contatto ravvicinato con l’acqua. Mai avrei pensato che mi sarei ritrovato a fare un bagno in un lago groenlandese ai piedi di un ghiacciaio. L’acqua è meno fredda del previsto, il bagno è quasi piacevole. Ben esce dall’acqua con una frase storica:”la sortie n’est pas trionfale, ma bite est plus courte de 10 cm”.


La giornata seguente doveva essere dedicata a una “petite balade”, una piccola passeggiata senza zaino. François aveva indicato un itinerario sulla carta e tutti – ignari di quello che ci aspettava – abbiamo acconsentito. La passeggiata si è presto rivelata un calvario di rocce acuminate e passaggi a fior d’acqua su laghi gelati. Alla prima discesa difficile, Romain lo Svizzero decide di scivolare sul sedere aprendosi uno squarcio nel pantaloni a livello delle chiappe. Per far muovere Stefanie, invece, François la fa sedere dietro di sé e scendono assieme come su una slitta.
Il giro continua con un’ascesa per una valle stretta e innevata, che sbuca su un altipiano. Da lì la strada sembra facile e diretta, ma si rivela presto un labirinto di creste rocciose e falesie a strapiombo. Avanziamo lentamente camminando su massi o sulla neve. Il GPS ci mantiene informati sulla lentezza del nostro avanzare. Le distanze sono date in linea d’aria. Per coprire duecento metri ci vogliono due ore. Mi sembra di essere Achille e la Tartaruga nel paradosso di Zenone. A fine giornata avremo fatto poco più di dodici chilometri in poco meno di dieci ore. Nel frattempo i miei piedi sono diventati dei rivoluzionari maoisti.


Penultimo giorno di marcia. Ben ed io mostriamo un raro affiatamento nello smontare la tenda. Si parte verso le 8.30 (oggi François è stato clemente e il gallo ha cantato tardi) e sembra di essere in vacanza: zaino mezzo vuoto, strada in discesa e terreno soffice e morbido. Manca solo un mojito.
Copriamo i dieci chilometri che ci separano dalla costa in un paio d’ore e appena ci fermiamo per mangiare siamo assaliti da un’armata di zanzare che riescono addirittura ad entrare nella zanzariera che mi sono messo sulla testa (oggettino leggero e anonimo ma di grande utilità, benché non proprio esteticamente pregevole). Impossibile anche solo pensare di poter fare un pisolino: il rumore nelle orecchie è quello di uno stormo di cacciabombardieri in rotta per Pearl Harbour.
Ci spostiamo poco lontano per piantare le tende. Quando sto già pensando ad una bella pennichella al riparo dalle zanzare François punta il dito indice verso nord-ovest e siamo già ripartiti per un’altra “petite balade”.
Costeggiamo la spiaggia passando qualche torrente. Il paesaggio è quella famosa tundra nordica composta da muschi e licheni tanto cara al mio sussidiario delle elementari. Il mare scintilla di una luce intensa e gli iceberg all’orizzonte sembrano immobili. Camminiamo ognuno per sé, uno a fianco all’altro, a velocità leggermente diverse. Mi sembra di essere in una scena del “Fascino discreto della borghesia” di Boñuel.
Non so perché ma ho in testa il ritornello di una stupida canzone televisiva che non sento da secoli: “ahi ahi ahi se faccio un figlio, ahi ahi ahi lo chiamo Emilio, sempre meglio di Basilio, se è una femmina non so”.


Le zanzare ci aspettano per colazione. Per tornare a Ittoqqottoormiit seguiamo la spiaggia e camminiamo a fiancho a pezzi di banchisa che non si sono ancora sciolti. Sono alti tre o quattro metri. Tra qualche settimana il mare ricomincerà a gelare e si potrà attraversare il fiordo a piedi.
Nell’intenzione iniziale l’ultima tappa doveva essere una passeggiata piatta e facile. La realtà è resa più complicata e bagnata dal fatto che tutti i ghiacciai della zona si sono dati appuntamento per rilasciare acqua proprio oggi. I torrenti che attraversiamo sono uno più grosso e profondo dell’altro. L’acqua arriva prima alle caviglie, poi alle ginocchia e alla fine devo togliermi i pantaloni perché arriva quasi alla vita.
Quando vediamo Ittoqqottoormiit, con i suoi 400 abitanti, mi appare come la sintesi della mondanità. François ha il fucile anti-orso a tracolla e Ben ed io abbiamo il passo stanco del guerrigliero. Sopra di noi passa rasoterra l’elicottero che fa la spola verso l’aeroporto. Sembra di essere in “Apocalypse Now”.

Alla guesthouse, dopo una doccia riparatrice, ci stendiamo sul divano facendo commenti maschilisti sulle alzatrici di peso delle olimpiadi e ci appassioniamo per la medaglia di bronzo del doppio misto di badminton che la TV danese ci propone ad libitum perché è la loro prima medaglia. Si cena a trota artica al forno con contorno di patate. La metamorfosi è ormai completa. Solo la barba lunga, le facce abbronzate e i vestiti da montagna ricordano le due settimane passate in tenda.
Il giorno dopo sveglia all’alba per prendere l’elicottero. Tutta la comunità danese di Ittoqqottoormiit è riunita per gli addii. Ci sono il poliziotto in partenza e il direttore delle poste che sta aspettando uno scienziato pazzo che ha passato mesi nel mezzo della Groenlandia per misurare l’innalzamento terrestre (voci di corridoio dicono che la Groenlandia si alzi di 3 cm all’anno).
Il viaggio in elicottero è perfetto per ripassare il circuito fatto negli ultimi giorni. All’aeroporto di Constable Point guardiamo le interessantissime gare dell’eptatlon e una famiglia di inuit che si abbuffa di cibo spazzatura: la ragione dell’obesità di massa è presto spiegata.
Il volo per Reykjiavik parte in orario e sorvola tutta la costa est. Passiamo sopra immensi ghiacciai che affluiscono come fiumi di lava, ognuno mantenendo la propria traccia formando delle curve parallele come corsie d’autostrada. Le dimensioni sono fuori proporzione: ghiacciai lunghi centinaia di chilometri con crepacci che devono essere alti come condomini. Le considerazioni sulla piccolezza umana e sulla grandezza della natura si sprecano mentre mangio un ottimo panino al tonno offerto dalla gentilissima hostess islandese che sembra uscita dalla serie TV sulla Pan Amdegli anni 60.
Il resto è un banale rientro su Parigi, con treno finale per Zurigo in immersione completa nel turismo agostano. Della Groelnadia restano già i ricordi.

sabato 25 agosto 2012

Groenlandia 3



Nonostante abbia i copri-occhi della KLM, la luce nella tenda è accecante ed è difficile dormire. Per di più ho un torcicollo mefitico che si attiva nell’attimo esatto in cui mi sdraio. La notte non è buona compagna.
La mattina comincia con un vento freddo che ci obbliga a tenerci addosso le giacche. Il panorama è sempre uguale e sempre diverso. Gli iceberg che costeggiamo assumono le forme più diverse, spesso zoomorfe. C’è un cigno, una lepre e anche un coccodrillo.
Nel primo pomeriggio arriviamo ad un ex-avamposto militare americano ora utilizzato dai cacciatori inuit. Si tratta di due baracche di legno e di una putrida discarica a cielo aperto: barattoli di latta, bottiglie, lattine, sacchetti di plastica e ossa di vari animali, principalmente foche e cani.
Poco lontano c’è un villaggio inuit abbandonato. C’è un vecchio camion arrivato chissà come, un’altalena ed anche le tende alle finestre. Sembra che gli abitanti siano stati rapiti dagli extraterrestri.
Piantiamo il campo poco lontano. Mentre Ben si deprime ascoltando Brel sul suo i-Phone sdraiato nella tenda, il resto della comitiva discute dei viaggi d’esplorazione al polo nord e al polo sud di cui tutti sembrano essere grandi esperti. Io guardo il mare.


Il sole splende sul mare luccicante. Gli iceberg al largo sembrano immensi a causa di un effetto ottico che li fa apparire come miraggi nel deserto. La camminata resa leggera dagli zaini ormai vuoti viene complicata dalla guida François che – per evitare una salita – ci fa prendere un sentiero da stambecchi. Per un’ora abbondante saltelliamo su enormi massi di granito. Per puro miracolo nessuno si rompe una caviglia.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa di fronte ad un muro di ghiaccio che sovrasta un lago. Un’ora dopo siamo a Ittoqqortoormiit ed è quasi ritorno a casa. E’ l’ora del pranzo per i primi cani che vediamo: stanno mangiando una foca catturata di recente.

Di ritorno alla civiltà Ben ed io decidiamo di prendercela comoda e prendiamo una stanza alla guesthouse invece di optare per il campo allestito fuori dal paese. La prima cosa che facciamo è comprarci delle birre e la seconda è accendere la televisione (la terza e la quarta sono una doccia e una lavatrice). Oggi iniziano le olimpiadi di Londra, per cui mangiamo le nostre cene liofilizzate seduti sul divano bevendo birra: una scena da veri uomini medi.
Visto che la cerimonia d’apertura è una palla pazzesca, usciamo alla ricerca dell’unico bar del villaggio. Giriamo per un po’ di tempo, seguendo indicazioni poco chiare in lingue che non capiamo. Rinunciamo quando scopriamo che il bar è una casa dai vetri sfondati e senza insegna. Durante la ricerca incontriamo una mezza dozzina di inuit completamente sbronzi. Lo sport nazionale da queste parti è il bere, il che – unito agli incroci tra consanguinei e ad un clima non proprio clemente – genera qualche leggero squilibro psichico.
Il piano per il giorno seguente (non fare assolutamente niente fino a sera) è scombussolato dall’arrivo imprevisto dei nostri compagni di sventura, accompagnati da un bell’odore di speck, postumo delle serate passate attorno al fuoco. Mentre due dei quattro si fanno la prima doccia da una settimana, vado al supermercato locale per vedere di mettere assieme un pranzo degno di tale nome. Trovo pasta Barilla e salmone, oltre ad un vero materassino autogonfiante che compro all’istante. Il mio collo e la mia schiena ringraziano emozionati.
Il resto della giornata è passato a vedere badminton, nuoto, pugilato e ping pong in televisione. C’è qualcosa di ipnotico nel vedere dei completi sconosciuti competere in sport minori. Per fortuna mi trovo in Groenlandia e passerò la prossima settimana a bivaccare nella neve, sennò non mi muoverei dal divano se non per espletare funzioni fisiologiche.
Verso sera Ben ed io ci muoviamo verso il campo, domani si ricomincia, ma prima bisogna dividersi il cibo, ovvero il peso. François crea dei mucchietti di provviste che dovrebbero essere dello stesso peso, ma alla fine della spartizione Ben ed io ci ritroviamo con molto meno peso che la settimana prima. In compenso lo Svizzero e Mr. Gadget sono carichi come muli. Neanche al gioco delle tre carte li avremmo potuti fregare di più.
Domani ci aspetterà la sofferenza, ma per il momento c’è nell’aria solo un soffice rumore d’onda. François spiega alla truppa cos`é l’haiku, la poesia giapponese. Mi lancio in una composizione
Danzano lenti
Nel mare lucente i
Monti di ghiaccio


La partenza è ritardata dai problemi al tendine d’Achille di Stéphanie, la moglie del superaccessoriato. François si trasforma da guida in Mac Gywer e prepara una protezione per il tallone con della spugna trovata in spiaggia. Che funzioni o no sospetto che avrà delle vesciche grandi come meloni a fine giornata.
Il mio zaino mi sembra leggerissimo, ma acquista peso via via che la salita si fa più ripida. In contemporanea riesco a nutrire tutte le zanzare della Groenlandia fino al 2034 e le mia braccia diventano cotechini. Mentre mi fermo per fare una doccia nello spray anti-zanzare, passano due buoi muschiati, animali dall’aria preistorica , dalle corna ricurve e il pelo lunghissimo. Ci guardano da lontano e poi continuano a camminare come se niente fosse.
La salita si fa più ripida e Ben, preso da una vena poetica inattesa, si mette a produrre haiku. Le poesie parlano di crepacci e di torba. Ho paura che appena tornato a Parigi inizierà a scrivere poesie sui biglietti della metropolitana e sul Pastis.
Quando la salita di neve e di roccia finalmente finisce abbiamo sotto di noi il fiordo completamente illuminato dal sole, circondato da montagne innevate. Fa così caldo che siamo tutti in maglietta. Poco lontano c’è un ghiacciaio che si tuffa in un lago: il posto ideale per montare la tenda e farci una lavata nell’acqua gelida.

mercoledì 22 agosto 2012

Groenlandia 2


La sveglia suona alle 6.45. La notte è passata tra sogni inverosimili e tentativi vani di chiudere i pochi orifizi del sacco a pelo. Sforzo inutile visto che il freddo viene dal basso. Sarà forse un’ovvietà ma la neve è fredda, soprattutto quando ci si dorme sopra, comunque il mio sacco a pelo ha tenuto, quello di Ben – a giudicare dalla faccia – non proprio. Più che per il freddo è irritato dal fatto che si vede la prima crepa nella sua attrezzatura.
La colazione è spartana: muesli secco e tè. La meta della mattina è arrivare in cima alla calotta. La salita è dolce, non ci sono crepacci. Più per divertimento che per motivi di sicurezza ci incordiamo. Chi si diverte per davvero sono i tre cani superstiti (due sono tornati indietro) che credono che la corda sia un nuovo originalissimo gioco. Volano urli, partono bastoncini e i cani trovano qualcos’altro con cui giocare.
Arrivati in cima alla calotta scendiamo per il versante sud-est alla ricerca del mare. Scendere nella neve è sempre un piacere, perché ricorda un po’ lo sci. Nella discesa scompare uno dei tre cani e rimangono in due. Ben – che è tradizionalmente sempre più gentile con i cani che con gli esseri umani – gli dà qualche crosta di formaggio, sotto lo sguardo sospettoso dello svizzero Romain che quasi quasi l’avrebbe mangiata lui, uomo perennemente affamato che finisce tutto il cibo che resta.
Alla fine della discesa arriviamo in una piccola baia in cui il ghiacciaio si getta nel mare. Al largo una miriade di iceberg e la banchisa di ghiaccio che tra poche settimane smetterà di sciogliersi e inizierà a riformarsi, per la gioia degli orsi polari. Speravamo di trovare una spiaggia ma la costa è ripida e rocciosa. Jeremie, il francese superequipaggiato, si dice sicuro di aver visto a poco meno di un chilometro uno spiazzo ricoperto di soffice torba che diventa il nostro miraggio per la sera. I chilometri saranno almeno tre e la torba una distesa di sassi, ma non c’è niente di meglio.
Come tutte le sere il menù è fisso. Si inizia con una minestra in bustina e poi si continua con porzioni dai nomi altisonanti tipo “tajine di pollo all’orientale” o “goulash di manzo con riso”. Nella realtà si tratta di un misto tra cibo per cani e vomito di cammello.
Tutto quello che entra deve anche uscire. Ci siamo accampati in un immenso piano coperto di sassi. Per trovare un po’ d’intimità bisogna fare chilometri. L’ora frizzante della sera intima massima velocità e precisione nei movimenti. L’escursione nordica è caldamente sconsigliata agli stitici.
Memore del freddo della notte prima, mi vesto come un pinguino prima di infilarmi nel sacco a pelo. Inizio presto a sudare. Il problema di questa notte non sarà il freddo quanto piuttosto il materassino che si sgonfia facilitando il contatto tra le mie vertebre lombari ed una grossa pietra spigolosa. A mezzanotte mi sveglio. Il cielo è illuminato a giorno.


La mattina c’è una sorpresa. Tutta la banchisa di ghiaccio che si trovava al largo si è spostata sotto costa ed il mare non è più blu ma bianco.
Grazie ad un’idea geniale che mi è venuta il giorno prima, in preda a crampi ai polpacci, la giornata di oggi sarà dedicata ad un’esplorazione della costa verso nord senza zaini. Lasciamo dunque le tende montate e camminiamo leggeri come piume. Abbiamo anche il tempo di guardarci attorno e fare foto. I due cani superstiti vagano in cerca di cibo, trovando qualche ossa di lepre polare che genera liti furibonde tra i due.
La costa est della Groenlandia è a prima vista un territorio terribilmente inospitale, la vita sembra impossibile. Eppure qua e là ci sono segni inequivocabili del passaggio di animali: una piuma, le corna di una renna, escrementi di animali che generano supposizioni tra la ciurma. Ad un certo punto una lepre bianca ci appare a pochi metri. Ci avviciniamo tutti per fare foto . La lepre ci vede ma non si muove. E’ convinta che il pelo bianco la renda invisibile. Il problema è che è seduta su pietre nerissime. Avrà comunque la reazione di scappare a gambe levate all’accorrere dei cani che tenteranno un’improbabile caccia, tornando indietro con la lingua che tocca per terra.

Il sole esce da una nuvola, il vento cala: il tempo perfetto per una pennichella. I cani sono distrutti e iniziano a russare. Romain lo Svizzero, con la pancia piena di formaggio, si unisce al concerto per trombe e tromboni.
Tornati al campo è giorno di abluzioni. Dopo tre giorni di marcia senza lavarci profumiamo tutti di gorgonzola. Per minimizzare l’esposizione all’acqua gelida decido di lavarmi per pezzi e soprattutto di asciugarmi immediatamente. Questa è senza dubbio la doccia più rapida e più fredda che abbia mai fatto. Ho anche il tempo per riparare il materasso, immergendolo nell’acqua come se fossa la camera d’aria di una bicicletta.
La buona notizia della mattina è che il rattoppo del materassino ha tenuto. La cattiva è che c’è la nebbia. In ogni caso la camminata lungo la costa è splendida: camminiamo sulle rocce, poi sulla neve, poi ancora su roccia e neve, finché non arriviamo ad un torrente troppo profondo per attraversarlo con gli scarponi ai piedi. Ci mettiamo quindi i sandali per il guado. La coppia francese superaccessoriata tira fuori il coniglio dal cilindro: dei calzini in neoprene per attraversamento di guadi gelati, mai più senza.
L’acqua è effettivamente gelida. All’inizio è una sensazione quasi piacevole, poi diventa fastidiosa, infine una miriade di spilli che si conficcano nella carne. I cani sono troppo bassi per attraversare il torrente per cui ne prendiamo uno io e uno Ben e si continua al completo.


Al di là del torrente c’è un uccello che fa finta di avere un’ala spezzata. I cani accorrono in festa e quando stanno per arrivare l’uccello spicca il volo. Ha il nido lì vicino, ma le sue uova sembrano sassi e i cani non se ne accorgono. Abbiamo i cani più polli della Groenlandia.
La costa è un susseguirsi di insenature, con il mare ancora pieno di iceberg. Poco dopo troviamo un bello spiazzo per piantare le tende vicino al mare. La sera, dopo cena, Ben e io iniziamo a parlare di una nuotata nel mare. La cosa da scherzo si fa più seria e dopo pochi minuti siamo entrambi in mutande che ci gettiamo in acqua. Vado verso un piccolo iceberg e ci monto sopra. Solo più tardi scoprirò due enormi escoriazioni sulla pancia e sulla coscia. Sul momento fa troppo freddo per sentire dolore. Ogni idiozia si paga in moneta sonante.

domenica 19 agosto 2012

Groenlandia 1



Dopo tre ore scarse di sonno mi trovo al terminale 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi. Sono le 5.30 di mattina e di fronte al check-in della Icelandair c’è già una lunga fila. Alle 6 arriva Ben, amico incontrato in Tunisia nel 2009. All’epoca si era presentato per un giro a piedi nel deserto con camicia bianca, mocassini, maglioncino di cachemire e Rolex al polso. Questa volta, unica concessione per il viaggio in Groenlandia, il maglioncino in cachemire è stato sostituito da una maglia in polartec della Lowe Alpine. Ben è un vero dandy.
Aspettando la guida come da istruzioni della nostra agenzia specializzata in viaggi estremi, facciamo un rapido ripasso delle nostre vite. Siamo entrambi scapoli e misogini: nulla è cambiato dunque.
Sono le 7 e la guida non si vede, il volo parte alle 8. Chiamiamo il suo numero di cellulare che è spento, poi il numero d’emergenza dell’agenzia che suona a vuoto. Decidiamo di metterci in coda per il check-in quando chiama l’agenzia dicendo che non sanno dove sia la guida: si inizia bene. A metà volo, dopo un annuncio della hostess, c’è una voce francese che dice cose che non capisco. Deve essere il nostro uomo, che ritroveremo ai bagagli. L’organizzazione e il mondo urbano non sembrano essere i suoi punti forti, speriamo che sui ghiacciai vada meglio.
A Reykjiavik si cazzeggia un po’ e Ben inizia a fare l’inventario del suo materiale tecnico e a compararlo con il mio, cosa che fa da quando gli ho aperto gli occhi sul magnifico mondo dell’attrezzatura da montagna. Questa volta sembra convintissimo di avermi battuto su tutti i fronti. La punta di diamante della sua attrezzatura è un cappellino con rete anti-zanzare integrata con cui non posso competere.
A Reykjiavik incontriamo anche gli altri compagni di sventura: un professore di chimica svizzero che ha già fatto un giro in solitaria in Groenlandia e una coppia di avvocati-maratoneti francesi che sembrano un catalogo ambulante di materiale super-tecnico da montagna. Ben critica in sordina le scarpe da ghiacciaio della ragazza giudicandole troppo pesanti e vantandosi di aver scelto le sue vecchie scarpe Raichel, marca nel frattempo scomparsa.

La mattina comincia con la spartizione di tonnellate di formaggio, principale fonte di cibo nei prossimi giorni. Poi si prende un volo per Constable Point, ovvero una pista sterrata sulla costa orientale della Groenlandia circondata da mare, roccia e ghiaccio. I passeggeri dell’aereo si dividono in due grandi categorie: da una parte gli Inuit (Eschimesi) e i loro amici e benefattori e dall’altra parte dei masochisti dell’estremo che pagano delle piccole fortune per farsi del male e soffrire il freddo. Nel caso specifico si tratta del nostro gruppo e di un gruppo di pazzi francesi che risaliranno la costa verso nord in kayak in totale autonomia.
Tra l’aeroporto e il villaggio di Ittoqqortoormiit (no non è un errore di battitura, si chiama proprio così) non c’è strada, né un ponte che permetta di attraversare il fiordo. L’unico modo per andarci è prendere un elicottero che fa la spola portando ogni volta sei passeggeri. L’organizzazione del trasporto è molto aleatoria e la flemma è d’obbligo. Se non fosse per il fatto che siamo oltre il circolo polare penserei che siamo in Africa centrale.
Il rumore di pale dell’elicottero è assordante quando l’elicottero si stacca dolcemente da terra e sorvola il fiordo e i ghiacciai che vi si gettano dentro. Il viaggio dura quindici minuti, ma varrebbe la pena rimanere in aria per delle ore ad ammirare il paesaggio.
Ittoqqortoormiit è un villaggio di 400 anime in cui le case sono tutte uguali, tranne che per il colore. Sembra di vivere nel paese dei Puffi. Cosa faccia la gente tutto il giorno rimarrà un mistero insolubile. Ad Ittoqqortoormiit c’è una sola guesthouse gestita da Jennifer, canadese con la passione dei cani da slitta, che ci spiega tutto quello che dobbiamo sapere sul posto. Il punto principale del briefing è la presenza di un ladro – il ladro ufficiale del paese – di cui bisogna evitare l’ingresso nella guesthouse. Il ladro viene sistematicamente condannato dal giudice volante che arriva ogni tanto, ma visto che non c’è prigione rimane in libertà. Ittoqqortoormiit è l’emblema delle pene alternative.
Il resto del giorno è dedicato ad aprire i pacchi di provviste e a spartirsi il peso aggiuntivo. Scopriamo che la guida non conosce il posto e la cartina di cui dispone è praticamente una fotocopia di un atlante geografico. Si discute se portare o meno la corda, che viene approvata a furor di popolo. Veniamo anche dotati di bengala anti-orso sulla cui utilità ho qualche dubbio, nonché di fucile a pallettoni, anch’esso anti-orso, sempre che si riesca a sparargli prima che lui ti mangi. Il peso totale del mio zaino a pieno carico sarà di circa 25 Kg.

La partenza è alle 9 di una domenica mattina. Ittoqqortoormiit è completamente deserta causa festeggiamenti della sera precedente. Non abbiamo ancora oltrepassato l’ultima casa che la mia schiena inizia a scricchiolare come una vecchia trave mangiata dai tarli. Il tempo è nebbioso e prendiamo una vaga direzione nord-est. Non si vede niente e ci si ferma ogni tanto a prendere dei punti col GPS. Quando ci fermiamo ho la forza di guardarmi attorno e mi trovo improvvisamente sulla luna. Una distesa di rocce quarziche è ricoperta da licheni neri. Ogni tanto appare qualche minuscolo fiorellino viola, una cacca di lepre polare e anche dei miracolosi mirtilli che pendono da una minuscola piantina di pochi centimetri d’altezza.
Camminiamo sulla roccia e sulla neve e le gerarchie del fiato si rivelano alla prima salita. Lo svizzero e i due francesi sembrano correre leggiadri sulla neve, io li seguo affaticato mantenendo un certo contegno e Ben arranca con la lingua di fuori. Ha smesso di fumare il giorno prima e non sembra vivere uno dei suoi giorni migliori.
Verso l’una la nebbia scompare e ci lascia finalmente vedere il paesaggio: a nord la calotta coperta di neve che costituirà la nostra meta peri prossimi due giorni e a sud un mare di un blu irreale attraversato da iceberg di diverse dimensioni e forme. Verso metà pomeriggio si alza il vento e di colpo fa freddo. E’ ora di trovare un posto per la notte. Montiamo le tende su uno spiazzo di neve con vista mare. I cinque cani da slitta che ci hanno seguito da Ittoqqortoormiit si sdraiano sulla neve e si addormentano all’istante. Non hanno bisogno di zaini, sacchi a pelo, giacche a vento o creme solari. Neanche di cibo a quanto pare, visto che non ne hanno chiesto e non ne hanno ricevuto (lo abbiamo appena per noi). La cena è a base di gulash liofilizzato, minestra knorr e cappuccino solubile. La vista in lontananza è la ciliegina sulla torta che non c’è.  

giovedì 19 luglio 2012

Piz Kelsch


Non si può vivere in Svizzera senza visitare uno dei suoi ghiacciai. Ho quindi preso un treno che mi ha portato nelle montagne intorno a Saint Moritz per lasciarmi ad una minuscola stazione con fermata su richiesta. Lì ho incontrato i miei compagni di viaggio: un Superman svizzero superaccessoriato, una guida alpina  relax ed un anziano molto arzillo che dedica la pensione alla montagna, con e senza la moglie al seguito. Piccolo problema, i tre parlano solo svizzero tedesco. Mi aspetterà un week end di lunghi silenzi.
La prima tappa è un rifugio a 2600 metri, dominato dal Piz Kelsch, la montagna che scaleremo il giorno dopo. Appena arrivati vedo che i miei compagni si sono tolti gli scarponi e hanno indosse delle Crocs, le orrende ciabatte di plastica con i buchi. Mi mordo le mani per non avere portato delle ciabatte anch'io e mi prospetto come l'unico avventore ad andare in giro in calzini, triste e solitario. Poi scopro che le crocs sono messe a disposizione del rifugio, per cui me le metto anch'io e mi riconforto dall'essere uguali a tutti gli altri: ora sono felice.
A cena si sente parlare solo italiano. Gli italiani sono solo tre in mezzo ad una trentina di svizzeri, ma il volume è al massimo, per cui la stereofonia è assicurata. Parlano principalmente di cibo, chiaramente lamentandosi di quello che hanno davanti.
A letto con le galline e sveglia prima del gallo alle 5. Come sempre i primi passi della mattina sono delle mazzate alle gambe, poi ci si scalda un po' e la fatica passa. Si arriva a breve al ghiacchiaio, si montano i cramponi, poi il ghiacciaio finisce, ma non la montagna. Con mia grande sorpresa, l'ultimo pezzo è tutto un misto di roccia e neve, senza grandi protezioni, per cui la corda è poco più che una decorazione. In compenso scopro con grande gioia che i cramponi tengono a meraviglia sulla roccia, anche se con un rumore non proprio piacevole. Con in mente ancora la fatica totale dei ghiacciai andini, la salita mi sembra normale, anzi piacevole. Prima che me ne renda conto siamo in cima, a 3500 metri. Sotto di noi il mondo. Sopra di noi il cielo. Superman non ha neanche il fiatone, e anche l'arzillo vecchietto è salito senza troppi problemi. La guida è contenta che siamo veloci e potrà rientrare a casa ad un'ora decente.
La discesa è uno spettacolo. Scendiamo per tutto il ghiacciaio e poi continuiamo in un misto di neve e ruscelli, in un paesaggio lunare. Poi appare qualche filo d'erba, del muschio, infine dei pini mughi e poi ancora qualche abete, fino all'apparire dei fiori e delle latifoglie. Ognuno dei 2000 metri di dislivello sembra avere un regalo per noi.

mercoledì 11 luglio 2012

Sud Sudan


Arrivando in aereo, il Sud Sudan sembra un'immenso campo da golf: una distesa verde, con qualche albero, dei piccoli corsi d'acqua e anche i bunker di sabbia o terra. Ancora prima che i pneumatici dell'Embraer 170 della Kenya airlines tocchino l'asfalto della pista d'atterraggio, appare chiaro che il Grande Circo Umanitario è arrivato al gran completo. Parcheggiati uno dopo l'altro, ci sono alcuni elicotteri con la scritta UN, seguiti da decine di aerei di organizzazioni internazionali e ONG: PAM, ICRC, Save the Children, etc...
L'aeropoto è un piccolo edificio caotico, in cui la parvenza di sicurezza (le valigie sono ispezionate a mano, una per una) lascia spazio alla cultura del potere. Ed è così che vengo prelevato in mezzo ai viaggiatori del mio volo per essere portato alla sala VIP: grandi divani in similpelle e aria condizionata. Non importa quanto povero o quanto giovane possa essere uno stato, la sala VIP non può mai mancare.
Fuori dall'aeroporto si entra automaticamente in un ingorgo di jeep e pick up 4x4. In genere più uno stato africano è povero, meno macchine circolano. Per esempio ad Asmara o Bujumbura, i semafori sono presenze totalmente pletoriche, mentre le capitali degli stati più "sviluppati" come il Ghana, il Kenya o la Nigeria, vivono al ritmo di polmoni malati di smog.
Juba, la capitale del Sud Sudan, lo stato appena nato (un anno d'età), fa eccezione. La ragione di tanto traffico è un'economia drogata di aiuti internazionali, mischiata ad un ritorno massivo della diaspora, che si è portata dietro i soldi accumulati negli ultimi anni.
Ed è così che, invece di ritrovarmi circondato da capre e galline, finisco in un bar per espatriati in cui si inscena nientemeno che una sfilata di moda sponsorizzata da "She", il magazine femminile di Juba, che ha poco da invidiare a Vanity Fair (anche l'articolo sulla povertà femminile africana sembra scritto da chi vive a Manhattan piuttosto che dietro l'angolo).
Vivo questi "ritorni alle origini" con un misto di nostalgia e sollievo. Nostalgia perché, alla fine, il mondo umanitario fa parte della mia vita e la comunanza di interessi e di vissuto con la gente che lo popola è molto grande (provo ancora piacere con le piccole gioie della vita da extraterrestre anche se le guardo con un sorriso). Sollievo perché quando tornerò a Zurigo potrò andare a vedere un film in un cinema vero, oppure andare ad un concerto, oppure passare il week end in montagna (e tutto questo senza sentirmi né privilegiato né in colpa). 
La conversazione con l'operatrice di IRC (International Refugee Committee) sui problemi legati alla ricollocazione della popolazione che viveva in Sudan verso il mezzo del nulla (la zona centrale del Sud Sudan dove lei vive senza elettricità né acqua corrente) è molto interessante. Ma più che i programmi e i progetti, quello che mi colpisce è la frustrazione della ragazza e quella stanchezza devastante che ti fa chidere ogni giorno: "Niente sta funzionando. Ma chi me l'ha fatto fare?"