18 mini-racconti

Reality death
Lui si sveglia, è buio. Sta immobile per un lungo attimo, ,poi si muove. Muove le braccia, le mani tastano quelle che sembrano delle pareti di legno. Lo spazio è molto stretto, sembra una scatola, forse una bara. Sì, ecco, è in una bara, lui.
Non sembra reagire, forse è l’effetto del calmante. Ora si strofina gli occhi, forse inizia a ricordare qualcosa. Si guarda attorno, non è più del tutto buio. Delle piccole luci illuminano delle scritte pubblicitarie e poi c’è una luce più grande sopra una piccola telecamera. Ora ricorda, tutto gli è più chiaro. Deve morire in diretta. Si tasta le tasche dei pantaloni, per fortuna loro gli hanno lascato le sigarette. Se ne accende una, poi accende il piccolo televisore sistemato sopra la sua pancia ed eccolo pronto a guardare la sua morte in televisione.

Sparizioni
C’è un signore nel bosco, non è né triste né felice, perché non ha una faccia con cui esprimersi.
C’è un signore nel bosco, non è né buono né cattivo, perché non ha mani per accarezzare o picchiare.
C’è un signore nel bosco, non è né alto né basso, perché non ha un corpo da misurare.
C’è un signore nel bosco, ma nessuno può più vederlo, perché il bosco non c’è più.

In fumo
Il fumatore si svegliò, spense con un gesto rapido e abituale l’odiatissima sveglia, poi con un altro gesto abituale cercò il pacchetto di sigarette sul comodino. Fumare una sigaretta era la prima cosa che faceva ogni giorno da trent’anni, senza eccezioni. Quella mattina, accanto alla sveglia, le sigarette non c’erano. Cazzo! Pensò. Si era dimenticato di comprarle il giorno prima ed ora era domenica. Tabaccai chiusi, niente distributori automatici. Provò al bar dell’angolo, dove trovò quattro puttane di colori diversi che facevano colazione e un vecchio alcolizzato con il primo Fernet Branca della giornata. Niente, le avevano finite. Tornò allora a casa a rovistare nella cassapanca dove di solito stivava sigari ricevuti in regalo, pacchetti lasciati in casa da visitanti sbadati e tutte le sigarette orribili comprate in viaggio all’estero. Niente anche nel cassetto, le scorte si erano esaurite durante l’ultimo sciopero dei tabaccai. Ormai disperato, non c’era altro da fare che fumarsi quello che c’era in casa. Corse in cucina, aprì la credenza e tirò fuori la scatola del tè. Se lo fumò tutto ma non bastò. Provò con il caffè che, anche se migliore, non si avvicinava al gusto delle sigarette. Finì tutte le polveri, compresi lo zucchero e il sale e ovviamente tutte le spezie. Non bastavano. Passò allora alle tende, alla moquette, ai copriletto, alle lenzuola, coperte, federe, asciugamani, strofinacci, saponi, i pizzi della nonna. Nulla, il desiderio c’era ancora e ancora più opprimente. Allora prese la decisione. Sapeva che era una scelta dura, ma una scelta andava fatta. Bussò alla porta di sua sorella e le chiese se poteva fumarla. Alle proteste di lei oppose il fatto che tanto bisogna morire e che il fumo non fa più male di una passeggiata nello smog. Di fronte ad argomenti così convincenti, dovette cedere. Come darle torto. Così lui cominciò a fumarle dapprima i capelli e i peli (a sua sorella non piaceva depilarsi), poi passò alla pelle, ai muscoli, agli intestini, alle ossa. Finché della sorella non rimase che un piccolo cumulo di cenere. Eppure ancora non bastava. Allora andò prima da sua madre, poi da suo padre, ripetendo la cosa. Ma ancora, si rese conto, non bastava.
Ormai sconsolato, consapevole della sua scelta, andò fino in fondo. Iniziò con l’accendersi un dito, poi l’altro, poi la mano, il braccio, finchè di lui non rimase che un cumulo di cenere. Il vento, poi, portò via tutto.

La storia di Bo
C’era un bambino che si chiamava Bo. Non chiedetemi perché, non lo so. Tutti lo èrendevanoin giro perché non aveva né un nome né un cognome, ma solo una sillaba: Bo. Per di più, se qualcuno gli chiedeva dove abitasse, quanti anni avesse o cosa gli piacesse fare, lui rispondeva sempre, alzando le spalle: “Bo?!”
Non c’è da stupirsi che Bo fosse un bambino solitario e taciturno. Tutto questo finché un giorno di primavera, passeggiando triste lungo un sentiero che solo lui conosceva, incontrò un bambino magro magro, triste triste, pallido pallido, che piangeva piangeva. Bo gli chiese, un po’ per pena, un po’ per fare gli onori di casa (d’altronde quello era il “suo” sentiero) che cosa avesse. Il bambino rispose tra un singhiozzo e l’altro che era solo, nessuno voleva giocare con lui e non aveva amici. Allora Bo, rinfrancato da queste parole, gli chiese palpitante come si chiamasse. Il ragazzetto rispose Diuc, e Bo – nonostante avesse sperato che si chiamasse Ma – gli fece i complimenti per il nome. Poi aggiunse che i nomi Bo e Diuc suonavano proprio bene insieme e che loro avrebbero dovuto diventare buoni amici e che avrebbero dovuto tentare la fortuna nelle serie televisive. E così puntualmente avvenne.

Tristi incroci di storie
Gino era quello che si può definire proprio un bravo bruco. Un bruco tutto foglie, terra e rugiada, quasi acqua e sapone, senza grilli per la testa (che tra l’altro per un bruco di piccole-medie dimensioni come lui sono un po’ fastidiosi). Non aveva capelli, quindi niente diavoli. Un povero diavolo Pino, che però valorizzava le sue potenzialità: era diligente, onesto, faceva ginnastica per buttare giù la pancetta e non faceva uso di sostanze stupefacenti, evitando qualsiasi tipo di erba sospetta. Peccato che un bel giorno di primavera, su un sentiero che era convinto di conoscere solo lui, fu calpestato da un bambino triste e solitario che stava parlando con un suo amico.

Storia happy end
Pino, il cugino di Gino, era un bruco molto svelto e dotato di un certo fascino. Tutti lo chiamavano James –Pino – Bond per il suo successo con le donne. Vari animali del bosco venivano a cercarlo per avere consigli sull’amore, che lui dispensava con vera nonchalance. Finché una sera di mezza estate, poco prima del tramonto, ebbe un incontro che gli avrebbe rivoluzionato la vita. Si imbattè in una bruchessa dai tratti mediorientali. Era la principessa di Persia, venuta trovare suo zio durante le vacanze di Pasqua (ndr questa storia è ambientata nel futuro, quando il fondamentalismo cattolico avrà sconfitto quello islamico e pareggiato con quello ebraico, dopo aver squalificato il buddismo per insufficienza di dogmi). Era accompagnata da due bruchi-gorilla, i suoi guardaspalle.
Il nostro Pino chiaramente si innamora e – preso dal sacro fuoco di Cupido – un po’ bruciacchiato, le si inginocchia ai piedi, ricavandone un bel calcio nei denti. Ma Pino non demorde, corre a casa, di fa la doccia, si mette il vestito delle grandi occasioni, prende una Porsche in leasing e si fionda a conquistare la bella bruchessa. Appena lo vede simil-ricco, lei mangia la foglia (d’altronde è una bruchessa!), lo riconosce ma accetta lo stesso un passaggio per scroccargli una cena in un ristorante chic. Pino, pazzo di gioia, la scarrozza in lungo e in largo, in alto e in basso, facendo anche un salto nella quarta dimensione. Alla fine della serata Pino è sfinito, pieno di cambiali e di pagherò brucari (tremendi titoli di credito a breve termine alla scadenza dei quali, in caso di inadempimento, il bruco viene deposto in un pollaio, e chi s’è visto s’è visto). Con gli ultimi centilitri di benzina, Pino riporta la bella bruchessa a casa, nella speranza che gli venga rivolta la fatidica domanda:”Vieni su a prendere un drink?” La bruchessa invece lo bidona e se ne va senza neanche ringraziarlo.
Pino cade allora nello sconforto, poi in una cupa depressione, infine inizia a ricevere minacce dagli strozzini che iniziano a cantargli “chichirichì” la notte sotto casa. Allora prende la decisione di scappare: presi armi e bagagli, con le gambe in spalla e una certa puzza di piedi sotto il naso, prende la via della montagna, lasciata sola da Maometto. Lì si trova un bell’albero (nella fattispecie una conifera) con cui fa amicizia. Diventano in breve tempo così amici da diventare inseparabili. Tanto che tutti iniziano a chiamare l’albero “l’albero di Pino” e poi solamente Pino. Ed è per questo che ora il pino si chiama pino e non era vero che questa storia era ambientata nel futuro.

La passeggiata
Esco in strada. C’è un caldo soffocante. La gente nelle macchina non ha certo un bell’aspetto. C’è una donna che si sta ristrutturando – ferma al rosso – con il kit del piccolo maxillo facciale. Quello della macchina dietro sta approfittando della sosta per fare pulizia nasale (caccole, peli e foruncoli), mentre sua moglie manda messaggini al suo amante. Un prete dalle venti facce, comprese tra i 2 e i 100 pollici, condanna gli adulteri in diretta dal pulpito di un negozio di hi-fi, poi dice che la donna è uguale all’uomo ma – visto che è più brava in cucina – è suo dovere rimanerci. Un ragazzo senegalese lava finestrini lucidissimi. Tutti gli tirano monetine addosso per levarselo di torno. Lui si scansa ma poi si china a raccoglierle: anche lui ha fatto la sua giornata. Un gruppo di tifosi invade le strade dopo un pareggio in un’amichevole tra due squadre rionali e riesce a ripulire la zona di presenze vitali, meglio di una bomba a neutroni. Porta in processione la testa del portiere colpevole di aver lasciato passare il gol del pareggio. Io mi salvo dal linciaggio nascondendomi in un tombino. Ora puzzo un po’ di merda ma in compenso la strada è deserta, anche se un po’ sporca di sangue. Comunque si sentono gli uccellini cantare. Cosa importa se è un nastro registrato che il comune manda in filodiffusione? Un bambino a due teste mi passa accanto. Mi dico che in fondo è giusto che per avere due televisioni qualcuno si trovi due teste (che tra l’altro deve anche essere un’esperienza interessante).
Poi mi sveglio, sudato. Fa caldo, è estate, sono le tre di mattina, è stato un sogno. La stanza è una sauna, ho sete. Mi alzo e vado a bere. Accendo la televisione e mi guardo una puntata di Porta a Porta del 2002: non capisco se Mastella è con la destra o con la sinistra e nel dubbio giro sui canali regionali, unica vera frontiera di democrazia mediatica del terzo millennio, ma solo dopo mezzanotte. Per gli insonni c’è sempre una bella bionda con un telefono tra le tette a salvarli dalla disperazione totale.

La storia di Piero
Piero non sapeva disegnare e per di più era cieco. C’è chi dice che non sapeva disegnare per questo, ma io non ci credo. Mi padre mi diceva sempre:”Se uno vuole ardentemente una cosa, con molto impegno la può ottenere”. Insomma, Piero non sapeva disegnare e questo lo turbava molto, tanto che un giorno andò da suo padre e lo implorò:”Babbo, babbo, insegnami a disegnare”. Il babbo, annoiato, alzò lo sguardo dal giornale e gli rispose:”Impossibile! Tu non potrai mai disegnare: non hai l amano abbastanza ferma”. La famiglia di Piero non voleva accettare il fatto che lui non vedesse e se lo nascosero anche quando per sbaglio cadde nella piscina della casa, rischiando di annegare. Come pare chiaro, la famiglia di Piero era schifosamente piena di soldi e siccome quel che non può la natura può il denaro, il padre di Piero lo mandò a lezione privata di disegno. Quel che non sapeva era che anche il professore di disegno – un pittore piuttosto famoso – era cieco. I suoi quadri erano ammirati dalla critica per essere “permeati da un profondo odio per le forme comuni”. Fatto sta che il professore, non potendo ammettere di essere cieco e non potendo insegnare disegno, rispedì Piero dal padre adducendo che non aveva la mano abbastanza ferma. Piero, deluso, abbandonò le sue velleità artistiche e si buttò a pesce nella letteratura. Il problema è che non sapeva scrivere e neanche leggere perché era andato a scuola privata dove c’erano vedenti danarosi messi peggio di lui, così da farlo passare inosservato ai professori. Non potendo chiedere al padre di insegnarli a scrivere, gli chiese di mandarlo a lezione di linguistica e semiotica. Piero si disse:”Se non mi insegnano a scrivere loro che studiano i testi, chi può farlo?” Suo padre invece si chiese:”Che cazzo è la semiotica?”, pensando fosse una parolaccia. Una volta capito che era cosa alquanto noiosa tuttavia inoffensiva, scrisse l’assegno e iscrisse il figlio. Alla sua prima lezione il professore vuole fargli analizzare un pezzo dell’Ulisse di Joyce, ma Piero gli spiega il suo problema. “Leggere?” - chiede il professore – “ma se anche io mi sono dimenticato come si fa!” e aggiunge “Io metto i testi nel computer, lui mi sputa fuori dati e percentuali e io le faccio analizzare dai miei studenti, poi pubblico i loro lavori a mio nome. Piero, disgustato, se ne torna a casa. Si siede sul divano e piange. Una lacrima particolarmente pesante cade sul telecomando che accende la televisione: un programma della Carrà. Ed avviene il miracolo: la vede. Lui, Piero, vede la Carrà, la televisione, la stanza, il blu della piscina e il verde del giardino. “Ma è fantastico!” Piero corre da suo padre “che brutto!” pensa, ma a lui non gliene frega niente. Sua madre è dalla pedicure e sua sorella è a lezione di yoga tantrico. Non ha amici. Insomma, non gli resta che rimettersi a guardare la televisione. Ora danno Bo e Diuc. Per lui che non è abituato ai due amici e cugini è uno shock troppo grande. Il cuore gli batte in petto e lui si accascia sul divano e muore.

Come senza perché
Gli abitanti del paese di Come, per una ragione ancora da chiarire, stavano disimparando a parlare. L’intellettuale del paese, ex-professore di filosofia del liceo recentemente chiuso, la chiamò la “patologia dell’amnesiapensieroparola”. Poi fu investito da un diciottenne alcolizzato neopatentato e impasticcato. Sulla sua lapide non fu scritto nulla, perché nessuno si ricordava come si faceva. Ormai nel paese di Come tutti comunicavano a gesti, intervallandoli da “come si dice?”. Poi la patologia dell’amnesiapensieroparola aggredì la parola “sì” e infine quella “dice”, lasciando il “come” tutto solitario ad adempiere le onerose funzioni di passepartout linguistico. Da quel momento si potevano assistere a dialoghi del tipo:

- Come? - Cosa desidera?
- Come, come, come…come! - 3Kg di pesche e 2 di albicocche!
- Come! - Ecco a lei!
- Come, come, come? - Come sono quei fagiolini?
- Come come come - Sono freschi freschi
- Come come come come - Me ne dia un chilo
- Come? - Nient’altro?
- Come come come - Basta così grazie

Il tutto condito da grandi sorrisi, strizzate d’occhi e boccacce mostruose. La vita comunque procedeva tranquilla nell’isolamento dal mondo, in quello spazio siderale compreso tra il centro commerciale e il bar, finché un giorno arrivarono visite. Si trattava del professor John F. Hopkins dell’università di Harvard, esperto di antropologia della comunicazione pre e post-industriale che passò di lì per caso durante una vacanza in Italia. Il professor Hopkins rimase assolutamente stupefatto dall’incredibile ospitalità degli abitanti del luogo. Tutti lo invitavano ovunque e gli dicevano “vieni, vieni!” e per di più in inglese!. Insomma passò una vacanza strepitosa tra bicchieri di vino e grandi spaghettate e non si accorse mai che la gente non sapeva dire altro che “come”. Poi ripartì per Harvard e dopo quel giorno non ci furono più visite. Gli abitanti di Come non sapevano più che anno fosse, come si chiamassero, quanti anni avessero. Non guardavano neanche più la televisione perché non ci capivano niente. Se ne stavano tutto il giorno seduti a bere vino e a mangiare spaghetti. Siccome nessuno riusciva più a comunicare con l’esterno, il vino finì, gli spaghetti anche e morirono tutti di fame.

Margherita
La locomotiva Margherita amava l’Italia. Era un’appassionata d’arte e quando c’era da andare a Roma o Firenze si faceva sempre bella nella speranza di essere scelta per un bel viaggio. Questo accadeva di rado perché ormai Margherita era un modello vecchio e le nuove locomotive avevano molte più lucette sul cruscotto e andavano molto più veloce. Così Margherita era costretta su linee secondarie, tra la campagna industrializzata lombarda e le piccole medie imprese venete. Era così depressa quando pensava all’inutile operosità di quegli ometti che quasi si dimenticava di fischiare ai passaggi a livello. Ormai aveva perso ogni speranza di rivedere città d’arte, che avrebbe solo potuto rivedere nelle foto in bianco e nero che ancora decoravano i tristi vagoni arrugginiti che trasportava. “Ah che vita grama!” sospirava ogni mattina scaldando il motore elettromagnetico e trasportando il triste carico di pendolari da un capo all’altro del Nord Italia miracolato.
Passava intanto inesorabile il tempo. Margherita si faceva sempre più vecchia e cigolante e ormai veniva solo usata alla domenica per portare tifosi a picchiare altri tifosi. Ma, a parte la compagnia, a lei quel lavoro non dispiaceva. Aveva modo di uscire dalla nebbia! Era dunque sempre in prima fila quando c’era da portare gli juventini a darsele con i fiorentini. Per lei era fantastico: più di due ore di sosta a Firenze. E benché la stazione non fosse poi tanto attraente, con quella sua pianta a forma di fascio littorio, non stava nella carrozzeria al pensiero di essere vicina al duomo, a Santa Maria Novella, agli Uffizi… Poi si tornava a Torino in una pioggia di molotov e in una nebbia di gas lacrimogeni, per riportare i superstiti a casa entro il lunedì di lavoro.
Ma arrivò il tempo che Margherita era troppo vecchia anche per le domeniche e, come tutte le cose che il nord rifiuta, la si spedì al sud. Tanto lì la gente non si arrabbia per quindici minuti di ritardo. Così Margherita conobbe la Campania, la Calabria e la Sicilia innamorandosene perdutamente. Poi divenne vecchia anche per quello. Era così lenta che i bambini la superavano in bicicletta. Il suo metallo era così arrugginito che non si poteva più riciclare. Così decisero di metterla a riposo e – siccome ormai ogni luogo era occupato da cemento – si decise di organizzare un nuovo parcheggio per i rottami in Piazza Navona a Roma. Margherita coronò così il sogno si una vita e poté decadere tranquilla tra la bellezza ormai ignorata.

Giovanni
L’elettrone Giovanni era una scheggia. Schizzava da una parte all’altre dello spazio attratto dal nucleo e respinto da una forza a lui ignota. Forza che non si dimenticava mai di ringraziare, perché no avrebbe mai sopportato di entrare in contatto con quei protoni grassi e prepotenti. Si davano così tante arie e non la smettevano mai di ripetere: “Sai qui nel nucleo si sta proprio bene, pensa che noia dover oscillare tutta la vita!” E poi si credevano chissà chi solo per essere più pesanti di qualche migliaia di volte di Giovanni e i suoi fratelli. Ma loro non raccoglievano mai quelle provocazioni: sapevano benissimo di possedere la stessa identica carica dei protoni e – nonostante la loro massa fosse inconsistente – la loro forza di attrazione era la stessa.
La vita di Giovanni procedeva comunque tranquilla: il suo atomo era stabile, faceva parte di una sana e robusta molecola di ossigeno e lui era l’elettrone nell’orbitale più esterno. La sua vita passava serena tra una partita a scopone e una a calcio con quelli del primo orbitale, con i quali era nata una certa rivalità. Secondo lui a forza di stare così vicino ai protoni erano diventati come loro. Però nessuno gli stava più in odio di quegli smidollati, equidistanti, senza carica né palle dei neutroni. Loro non prendevano mai posizione, non si esponevano, non si sbilanciavano: sempre saldi al centro. Eppure erano culo e camicia con i protoni, tutti lì a contatto nel nucleo. I neutroni dicevano che non lo facevano apposta, che era colpa della forza di interazione forte, e che se fosse stato per loro avrebbero vissuto in un mondo immobile e senza troppe cariche. Forza o non forza Giovanni non li sopportava proprio.
Così passava il tempo tra una partita di qua e una disputa poliatomica di là. Finché un giorno successe l’incredibile. La molecola di Giovanni venne aggredita da una fiammata così calda che nessuno riusciva più a respirare. Poi il calore passò e le particelle subatomiche ripresero fiato. Che paura! Per fortuna si erano salvati. I neutroni proposero di accendere un cero alla Madonna, ma vennero subito zittiti dagli elettroni più razionalisti. In quel momento ci fu un’altra sorpresa: si udì infatti una voce che disse: “Silenzio! Tacete che ho mal di testa”. Allora tutti si voltarono e videro un atomo di carbonio: era tutto nero, sporco e pelato. Puzzava anche un po’. Iniziò subito a dare ordini e venne immediatamente eletto capo-molecola. Così, mentre i protoni si dichiaravano entusiasti, i neutroni accettavano senza opporsi e gli elettroni guardavano attoniti, Giovanni poco a poco si allontanava sempre più. Finché, approfittando di un momento di distrazione dei protoni, diede un gran colpo di reni e si librò nell’aria: finalmente libero.

Anna
L’ape Anna volava sonnolenta in una mattinata di sole. Non si preoccupava, come tutte le altre api, di raccogliere nettare per poi farne miele, non si era mai interessata a questi dettagli gastronomici. Lei volava e parlava. Non parlava a vanvera, tutt’altro! Era sempre indaffarata a mettere in risalto questioni morali di ogni tipo e misura. Si occupava soprattutto di questioni apine, con particolare riguardo al rispetto degli apidiritti. Trovava inconcepibile la superiorità dell’ape regina che, dall’alto del suo trono, schiavizzava le api operaie trasformandole in un branco di muratrici, cuoche e baby sitter. L’ape Anne fu la prima ape operaista della storia. E sembra anche l’ultima.
Nonostante l’ape Anna fosse portatrice di idee rivoluzionarie, la regina la trovava simpatica ed era convinta che l’organizzazione creata dall’ape Anna A.I. (Api Insieme) non fosse più che un elemento di folklore nel suo stabile reame. Per questo, e anche per sembrare democratica alla comunità del bosco, la faceva rimanere nel suo alveare e le concedeva pure di esporre le sue idee durante la pausa pranzo. Tutto ciò finché un giorno non successe un evento terribile: un terremoto. Tutto l’alveare tremava terribilmente e le api si fecero prendere dal panico e volavano in tutte le direzioni senza sapere cosa fare. Fu in quel momento che sentirono una voce che le rassicurava: “State calme! Non disperdetevi! Raggruppatevi tutte qui”. Era l’ape Anna che impartiva gli ordini. Era fuori a zonzo come ogni giorno e aveva visto l’uomo avvicinarsi alle arnie. Una volta organizzata la resistenza, sferrò l’attacco contro l’invasore, liberando così il suo popolo. Divenne così l’eroina dell’alveare, prese il nome d’arte di ape Anna d’Arco e venne posta plebiscitariamente sul gradino più alto della scala sociale. In breve tempo installò un regime dittatoriale nell’alveare, imprigionò l’aristocrazia precedente e nazionalizzò la produzione di miele. La sua immagine venne affissa in ogni angolo accanto a frasi del tipo “Anna d’Arco, la freccia che sconfisse l’invasore”.
Poi venne un altro uomo, che si appropriò dell’alveare e costrinse tutte le api a lavorare per lui. In breve tutti si dimenticarono dell’ape Anna.

The lost bomber
Prima la scarpa destra, con grazia, attenzione, badando a slacciarla bene prima di infilarla nel piede e poi allacciandola con cura in modo che vi aderisca perfettamente. Poi quella sinistra, con la stessa accurata procedura. Lo spogliatoio è muto durante il rito magico della vestizione. Prima i suoi piedi erano degli insignificanti pezzi di carne, ora sono dei gioielli rari e preziosissimi. Il Bomber è pronto, impeccabile come sempre, l’eletto tra i giocatori.
Loro si sono cambiati prima per non disturbare la sua concentrazione e hanno seguito il rito della vestizione in un silenzio sacrale. Ora il Dio è pronto a giocare, a vincere con la sua classe immensa. Pronto a sfoderare il suo destro, i suoi pallonetti liftati, gli assist geniali, i dribbling fulminanti. Pronto a calciare punizioni capolavoro, corner chirurgici, rigori spiazzanti. Non ha mai fallito il Bomber, è perfetto. Nessuno lo dubita. Ne sono convinti i suoi compagni di squadra, il suo allenatore, i suoi avversari, le migliaia di spettatori in estasi. Non ha paura di deludere il Bomber, perché gli hanno insegnato che Dio non sbaglia mai. Il Bomber è bellissimo, biondo e ben pettinato, alto e proporzionato, ha la grazia di un angelo e la precisione di un gatto.
Ora bisogna entrare in campo, è giunto il momento di vincere. Lo stadio emette un boato quando Lui entra e lo speaker annuncia il suo nome. La città si ferma ad ascoltare: i bambini dietro i banchi, le maestre alla lavagna, le casalinghe dal parrucchiere, i malati dentro ai letti, i carcerati dietro ale sbarre, i disperati al pendolo si una corda. Tutti piangono vedendo il Bomber, quello che è e quello che loro non sono. Piangono di gioia e di dolore, per quel dolore che diventerà gioia quando il Bomber vincerà per loro.
L’uomo in nero fischia, un attimo prima silenzio sacrale, un attimo dopo il movimento, la vita. Passaggi e finte, scatti e marcature strette: la partita è spigolosa. Duri gli scontri, asfissiante il pressing. Passano i secondi, i minuti, c’è qualcuno che inizia ad avere paura: “Che succede?” Il Bomber avrebbe già dovuto segnare. Poi la tragedia, il tiro nemico è scoccato, devia il Bomber, ma nella porta sbagliata: “autogol!” grida l’annunciatore. Il bomber s’accascia, ha perso, è finito. Muto lo stadio assiste impotente alla tragedia annunciata. Il Bomber sconfitto, un Dio imperfetto non serve a nessuno. Ma che succede? Lo stadio sconvolto: il semidio sta scomparendo. Già non ha più i capelli, si sta abbassando, perde i denti e le unghie, anche la pelle. Il Bomber è scomparso, la folla sconvolta minaccia suicidio di massa.
“Alt!” grida il presidente “ho comprato un altro Dio, portate via i resti di quello vecchio!”

Storia d’amore
Avevo un unico amico, si chiamava Ernesto. La sua unica dote era quella di saper ascoltare: poteva stare delle ore intere proteso verso di te che parlavi incessantemente. Per il resto non era di grande interesse: non parlava, non rideva, non scherzava. Camminava solo, a volte correva, raramente andava in bici. Ci incontravamo tutte le sere al bar. Io parlavo, parlavo: della mia vita, dei miei progetti, dei miei problemi e amori. Lui per tutto il tempo assumeva un’espressione assorta, quasi preoccupata, come se avesse paura di perdere anche una sola delle mie preziosissime parole. Quando io smettevo di parlare lui si distraeva un po’, appoggiava la schiena allo schienale e mi guardava soddisfatto come se avesse compiuto un grande dovere sociale. Poi che ne andavamo, ognuno per la sua propria strada, soli come eravamo venuti.
Passò il tempo e io iniziai a frequentare anche altra gente, finché qualcuno non mi rivelò il segreto di Ernesto: era sordo. Io, allibito, mi sentii preso in giro, quasi umiliato. Il mondo mi stava crollando addosso: il mio unico vero amico – la cui unica dote era quella di saper ascoltare – non capiva un cazzo di quello che gli dicevo. Così cominciai a boicottare i nostri incontri serali, finché Ernesto si accorse che sapevo. Lo capivo dal suo silenzio, che era diverso dal solito, ma non avevo il coraggio di affrontarlo. Così fu Ernesto che si fece avanti, spedendomi un biglietto. C’è ancora, ed è appeso sul muro del nostro soggiorno (di Ernesto e mio). Dice così: “Se tu fossi muto, o lo fossi sempre stato, passerei la vita ad ascoltarti”. Fu l’unica cosa che Ernesto scrisse in vita sua.

Un’altra storia d’amore
Rosa è la donna più bella che abbia mai conosciuto. Era così bella che gli specchi piangevano perché erano incapaci di copiare la sua immagine. Rosa no parlava, no rideva, non leggeva, non scriveva: respirava e stava. Tullio, che è l’essere in assoluto più brutto al mondo, non la conosceva e non l’avrebbe mai fatto se quel giorno, quel martedì mattina, non ci fosse stato sciopero degli autobus. Così Tullio dovette camminare fino alla biblioteca e passò dotto le finestre della casa di Rosa proprio mentre lei si affacciava per vedere il sole mattutino. Non la vide però, perché oltre che brutto, Tullio era anche molto miope. Fu lei invece a farsi avanti dicendo: “Attento lei, sta per pestare una merda!” Tullio fu così colpito da quelle parole, le uniche che gli fossero mai state rivolte, che corse su da lei. Quel giorno Tullio non andò in biblioteca e passò l’intera giornata a casa di Rosa. La stessa cosa fece il giorno dopo e il giorno dopo ancora, e così per i trent’anni successivi. Nessuno sa cosa facessero. C’è chi dice che stessero immobili per delle ore: prima lui a guardare lei stare e poi lei a guardare lui leggere i suoi libri. Così per anni. Poi lei invecchiò, lui divenne un famoso scrittore ed ebbe altro da fare. L’ultima volta che lo vidi era a braccetto di una bionda ventenne analfabeta.

Eros e Tanatos
Si venne a sapere in giro che la regina non amava più il re. Tutto il reame rimase shockato da questa notizia, perché tutti erano devoti al loro re che – nonostante a scarsità di larghe vedute – si muoveva con accortezza nell’esercizio della sua politica cercando di soddisfare i bisogni. Lo choc fu grande anche perché tutti amavano la regina, una donna dalle lunghe trecce e dallo sguardo dolce e deciso. Consolo era ammirata per la spiazzante bellezza del suo aspetto, ma anche per la sua grande intelligenza che metteva in luce nel parlare con filosofi, matematici, storici, teologi e artisti. Era anche molto brava a tirar di scherma e nessun guerriero al servizio del re osava sfidarla. Alla regina piaceva viaggiare nel suo regno a piedi o a cavallo, scortata da un gruppo di alfieri o da semplici scudieri. Andava in visita ai regni vicini e spesso tornava inviperita dal cattivo trattamento ricevuto o – nei casi peggiori – addirittura con una dichiarazione di guerra. Al re la guerra non piaceva: era troppo violenta e pericolosa. Preferiva stare a casa al calduccio, protetto dalle mura e dalle torri del suo castello e muoversi solo quando era strettamente necessario o veniva attaccato direttamente. Al contrario, la regina era sempre sulle barricate per proteggere il suo regno, pronta anche a sacrificarsi per salvarlo, così come per ampliarlo sconfiggendo i regni vicini.
Due personalità diverse, è chiaro, che comunque si compenetravano e si integravano. Avevano inoltre in comune una sorta di codice morale da rispettare e da far rispettare: la diversità per esempio. Ognuno nel regno aveva il suo ruolo, chi molto importante, chi meno, però ognuno godeva della stessa dignità e la perdita del più umile dei sudditi era vista come una vera tragedia per tutto il regno. Insomma una vera democrazia gerarchica che, a tutt’oggi, non sembra aver avuto altro riscontro storico.
Si diceva dunque che la regina non amava più il re. Alcuni cavalieri l’avevano vista avvicinarsi ripetutamente al re di un paese vicino, con propositi fintamente aggressivi, in realtà fortemente passionali. I cavalieri che erano alle dipendenze della regina si rivoltarono, così fecero gli alfieri, seguiti dalle torri e dai pedoni. Fu per questo che persi la mia ultima partita di scacchi.

Storia triste
Zigopulos ed Eva uscirono dal bar, l’aria era soffocante, Roma deserta, anche i barboni della stazione Termini erano al mare. Lo sbalzo di temperatura tra il locale condizionato e i 40 gradi dell’agosto romano li fece fermare sulla soglia, socchiudere gli occhi e aspettare un attimo. In quell’attimo il colpo partì, mortale. Eva cadde, il sangue le macchiava la camicetta bianca, era morta.Zigopulos era fuori di sé, urlava, l’abbracciava, non sapeva cosa fare. Il resto lo sapete da voi, no trovarono mai l’assassino, non si capì il movente.

Caduta
Vuoto, una fitta di vuota l’assale. Il suo peso si annulla, fluttua nell’aria, cade nell’aria, sente l’aria passarle a fianco, sfiorarla e perdersi dietro di sé. Cade, inesorabilmente, cade. Ad una velocità pazzesca, sempre maggiore, ogni secondo di più. L gravità, forza misteriosa, la domina, la controlla, la culla e la fa precipitare. Vede laggiù la fine della caduta, la terra brulicante e viva, frenetica ed eccitata che si prepara ad accoglierla o a respingerla. L’angoscia è inevitabile come la morte, la morte inevitabile come i tempo. Chiude gli occhi per spegnere il tempo e per un attimo ci riesce. Sente il suo corpo appesantirsi e rallentare, ma non fermarsi. E’ solo un’illusione, uno scherzo della fisica che uguagli il peso della sua massa all’attrito dell’aria, due forze che si bilanciano: ora cade senza accelerazione ma continua a cadere. Riapre gli occhi, poi li richiude, chiude orecchie e pori della pelle, ma non riesce a vincere il vuoto che è dentro di lei. Pena: “sto cadendo”.
Riapre gli occhi, uno spettacolo meraviglioso le appare inaspettatamente: una terra sgargiante e coloratissima, dalle forme sinuose e provocanti, sotto di lei. Sopra di lei un cielo plumbeo e inquietante e milioni di sue compagne accanto,. “Non sono sola” pensò “non sono sola!” Una gioia immensa la pervade. Si sta avvicinando alla terra, ora appare vicinissima, si vede una costruzione ovale gremita di gente. Sente un boato, la folla impazzita. “Non sono sola” ripete un’ultima volta prima di scomparire tra i biondi capelli di un giocatore di calcio.

La strana relazione del signor f. con le monete
Di regola generale, il signor f. teneva le monete nella tasca destra dei pantaloni, a meno che questa non fosee bucata, nel qual caso usava la tasca sinistra. Riteneva inoltre che un’assoluta separazione delle monete dalle banconote fosse necessaria per una corretta igiene comportamentale. Si asteneva dunque dal tenere le monete nel portafogli – dove teneva le banconote sistemate in misura decrescente a seconda del taglio – e solo in casi eccezionali metteva delle banconote direttamente nelle tasche. Spesso camminava con le mani rinfoderate soppesando le monete e facendole rimbalzare l’una contro l’altra, con un leggero tintinnío non percepito dai passanti. Al tatto riusciva a distinguere il loro valore : un euro, due euro, cinquanta centesimi, uno o due centesimi. Piú difficile trovava differenziare le monete da dieci da quelle da venti centesimi, perchè troppo simili tra loro. A volte prendeva tutte le monete in mano e le sistemava a forma di piramide, non già in ordine di valore, quanto piuttosto in ordine di grandezza. In quel caso faceva spesso la riflessione su come, paradossalmente, la moneta da cinquanta centesimi fosse piú grande – benchè meno spessa – di quella da un euro. Cercando una ragione di tale differenza, perveniva spesso alla conclusione che non ce ne fosse, come in molte situazioni che si producono quotidianamente dall’antichità ad oggi, una fra tutte il vivere.
Pur cosciente della mancanza di un senso al suo agire, il signor f. si era imposto l’utilizzo del numero massimo di monete ad ogni transazione commerciale : l’acquisto del giornale (di solito una moneta da un euro e due da dieci centesimi), il cappuccino con brioche alla crema (una moneta da due euro e una da dieci centesimi) e cosí via. La gioia provata dal signor f. quando arrivava alla cifra esatta con tutte le monete che aveva in tasca era tanto speciale quanto rara. A volte aveva l’illusione di avere dato tutto e – ad un esame piú accurato – si accorgeva che delle monetine da pochi centesimi, le piú leggere e meno facili da identificare, restavano immancabilmente sul fondo della tasca. Pensava allora con disappunto alla difficoltà di trovare un oggetto o un’inisieme di articoli la cui somma totale prevedesse la spesa di quei tre o quattro centesimi. Per potersi disfare delle utlime monete avrebbe dunque dovuto prima accumulare altre monete, nella speranza che la somma totale delle monete, ad un momento dato, fosse uguale a quella dell’importo da pagare. Tale possibilità non richiedeva solo tempo, ma necessitava inoltre di una precisa volontà strategica, se non addirittura di un’accurata e oculata politica individuale.
Il signor f. pensó in piú occasioni di sbarazzarsi delle monete in eccesso gettandole nel bicchiere a forma di scarpone riempito di un liquido verde che serviva a raccogliere le rare mance dei clienti del bar sove andava a fare colazione il lunedí mattina (gli altri giorni mangiava a casa). Tale gesto, che avrebbe apportato una soluzione radicale a tutti i suoi problemi, gli sembrava tuttavia un’inammissibile scorciatoia per il raggiungimento del fine prefissato. Solo una volta, preso da una frustrazione crescente, gettó quattro monete (da uno, due, cinque e dieci centesimi) nel bicchiere a forma di scarpone e riempito di liquido verde. Una profonda e spiacevole sensazione, che identificó in « senso di colpa », inizió progressivamente a pervaderlo e lo accompagnó per tutto il giorno e per alcuni giorni successivi, fino a che il signor f. si abituó a tale sensazione e non riusciva piú a distinguerla dal resto di sé. Traumatizzato da tale esperienza, prese l’inappellabile decisione di non gettare mai piú alcuna moneta come mancia a meno che tale gesto non fosse tassativamente richiesto dagli usi e costumi locali. In tal caso, tale mancia non doveva corrisponderealla totalità delle monete che aveva in tasca.
Essendo una persona precisa, diligente e disciplinata, il signor f. riesce ormai con sorprendente frequenza ad eliminare tutte le monete dalla sua tasca destra. La cosa puó avvenire due ed anche tre volte a settimana. Dopo un periodo di profonda soddisfazione personale, dettata dall’aver sfiorato un grado di perfezione quasi assoluto, il sgnor f. sta sprofondando in uno stato di dubbio e e apatia tanto inaspettata quanto ingiustificata. Come i grandi eroi sportivi o le stelle della muscia o dello spettacoloi che non trovano piú un senso alla loro esistenza una volta raggiunto l’apice del successo, anche il signor f. si trova spaesato e rasenta la depressione. Nemmeno un’impresa radicale quanto la spesa al supermercato – alla difficoltà dettata dal numero degli articoli va sommata l’alea relativa alle promozioni e agli sconti, alcuni dei quali spesso fatti direttamente alla cassa – riesce ormai a fargli provare alcun piacere. Scrutando con cura nel profondo del suo animo, il signor f. ha ormai identificato la fonte nascosta della sua sofferenza latente. Si è infine reso conto che anni di pratica assidua e paziente che lo ha portato a polarizzare la totalità delle sue energie sul calcolo e sul gesto, gli hanno oscurato un dato essenziale e pure cosí evidente : una volta svuotata la tasca, questa è inesorabilmente destinata a riempirsi di nuovo, in un moto continuo e disarmonico che si fermerà con la sua morte, a meno che il signor f. non tramandi la sua conoscenza ai posteri.
La coscienza della sua quotidianità titanica, invece di atterrire il signor f., sembra avergli dato una provvida spinta al perseverare la sua opera. Continua egli, senza sosta e senza indugio a manipolare, soppesare, impilare e contare le monete nel tentativo di svuotare la tasca. Una volta vuota, il signor f. sorride all’idea cche si riempirà di nuovo.