venerdì 30 aprile 2010

Copan

Alle sette di mattina il sole e' abbagliante, le stradine di acciottolato sono vuote e non c'e' nessuno a fare colazione vicino alla piazza principale. Il sito archeologico maya e' a quindici minuti a piedi dal paese, arrivo poco prima delle otto. Il mio nome e' l'unico sulla data di oggi, sono il primo visitatore e lo rimarro' per quasi un'ora, unico spettatore del passaggio di due enormi pappagalli colorati sulle stele scolpite e sulla gradinata di geroglifici. Il primo gruppetto di turisti e' composto da giapponesi, poi un ragazzo solitario che vede il sito in mezz'ora in stile Speedy Gonzales. Piu' tardi il tutto sara' invaso da rumorose scolaresche che mi guarderanno con divertimento, chiamandomi irrimediabilmente "gringo". Non faccio neanche lo sforzo di spiegare che non sono americano e sorrido agli sguardi ammiccanti.
Mi siedo all'ombra a leggere il mio libro, poi la parte sulla storia dell'Honduras della guida. Nell'ultimo secolo ci sono stati ben 17 cambi costituzionali, roba da far rivoltare Kelsen nella tomba. Forse nessun altro stato del centramerica merita di piu' l'appellativo di "Repubblica delle banane". Compro un giornale per scoprire qualcosa della politica locale dopo l'ultimo colpo di stato, ma sbaglio testata e divento un esperto mondiale di footbol honduregno, forse piu' utile della politica.
Articolo 128

giovedì 29 aprile 2010

Da Guate a Copan

Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono. Mancava questa canzone di Giorgio Gaber dalla playlist durante la bella cena a casa di Flora e Paolino di ieri sera. Sei espatriati italiani che fanno un'anamnesi delle malattie croniche della sinistra italiana e fanno a gara a chi analizza meglio cause e concause del declino socio-politico dell'Italia degli ultimi vent'anni, con venature filosofiche e vagamente nostalgiche e un po' di caciara italica. La discussione confluisce naturalmente verso i commenti per la qualificazione dell'Inter, che ha giocato nel piu' puro stile catenacciaro pur non avendo neanche un giocatore italiano.
La mattina dopo sveglia all'alba e partenza verso Copan, Honduras. Il viaggio e' un piccolo calvario tra bus fatiscenti e minibus sovraffollati. Sconsiglio ai tutti i viaggiatori la compagnia Rutas Orientales, che oltre a partire in ritardo, raccoglie gente praticamente casa per casa. Cercando di distrarmi ascoltando un po' della mia musica, vedo passare decine di camion con insegne della Dole e della Chiquita, eredita' della guerra delle banane che ha portato la United Fruit Company e la CIA a fare un colpo di stato negli anni sessanta. Tento di sonnecchiare ma c'e' molto movimento sul bus. Prima sale un venditore di un te' miracoloso che cura nell'ordine: l'artrite, le malattine cardiovascolari, le infezioni urinarie, i dolori mestruali, il mal di testa, la gastrite e - non poteva mancare - previene il cancro (se lo sa Berlusconi lo fa ministro). Sceso il ciarlatano, sale un predicatore che estrae una consunta bibbia da combattimento e comincia a farneticare sulla fine del mondo nel 2012 che potrebbe anche essere anticipata se Gesu' lo decidesse, magari anche domani. Seguo a sprazzi i vaticini e mi sembra di capire che ce l'abbia con gli omosessuali e con i depravati di ogni genere, proponendo come unica via di salvezza "la palabra", la parola, senza specificare quale. Cita anche passi di San Matteo e - chiaramente - dell'apocalisse, poi se ne va lasciandoci in pace. In compenso l'autista accende una radio evangelica che sputa minacce contro i peccatori come fosse un lama.
Dopo varie ore e cambi di bus, arrivo alla frontiera con l'Honduras, che e' una casetta condivisa dai doganieri dei due paesi. Il visto d'uscita dal Guatemala mi costa un euro, mentre quello d'entrata per l'Honduras ben tre dollari. Dall'altra parte della barriera mi aspetta l'ennesimo minibus. Mi rendo conto che in tutta la giornata non ho visto neanche un turista.
Copan e' un paesino-cartolina, con le strade di selciato e qualche alberghetto e ristorantino. Domani visita al sito archeologico.
Anima salva

mercoledì 28 aprile 2010

Verso Guate

Mi incammino dalla finca Ixobel verso la strada principale con i miei due zaini e mi siedo ad aspettare che un autobus Fuente del Norte passi prima o poi. Dopo un paio di minuti sento uno stridere di freni e vengo investito da un flusso di aria calda e polvere. Il bus si ferma a un centinaio di metri e mi tira su. Si incaminna verso sud fermandosi qui e là a prendere gente, tra cui una signora con due figli, due reti da materasso, cinque sacchi e due cani che vengono sistemati nel bagagliaio sotto il bus. Dopo un paio d'ore, durante una pausa pasto, qualcuno si ricorda dei cani che vengono tirati fuori, ma uno dei due è inanime. Un venditore di giornali sentezia che morirà, mentre un crocchio di uomini baffuti danno consigli alla donna su come rianimarlo. Il povero cane viene innaffiato di acqua, si tenta di farlo bere a forza, finchè è chiaro che non ce la fa. Sia il cane vivo che quello morto vengono caricati sul bus e si riparte come se niene fosse.
A Rio Hondo, un posto che non appare in nessuna carta geografica, cambio bus per andare verso Guatemala City, alias Guate. Il secondo bus è strapieno e soprattutto torrido, visto che i finestrini non si aprono e l'aria condizionata è rotta. Mi siedo a fianco ad un uomo completamente straiato come se fosse a Miami Beach, che mi lascia circa tre centimetri per le gambe. Dall'altro lato del corridoio, due grassoni sono a petto nudo e stanno sudando come maiali.
Il bus riparte imbarcando gente tanto che si mettono dei secchi nel corridoio per far sedere una parte dei nuovi arrivati. Al principio di una salita il bus rallenta, per poi fermarsi e spgnersi senza più dare segni di vita. Miami Beach a fianco a me si risveglia dal suo sonno profondo e decide di dare un occhio al motore. Sperando sia il gemello di Mack Gywer, sono pronto a regalargli il mio coltellino svizzero pur di ripartire in fretta. Il resto del bus rumoreggia, mentre una venditrice di tacos al chicharron (maiale fritto) e alla gallina sta facendo affari d'oro con i due grassoni che hanno ormai rivoli di sudore che si dirigono verso l'ombelico. Miami Beach torna e avverte tutti che il bus è morto e sepolto. Bisogna aspettare quello successivo. Sbarchiamo tutti e io prendo al volo un minibus di passaggio invece di aspettare un paio d'ore e farmi il viaggio nel corridoio.
A Guate prendo un taxi per casa di Paolino che mi ospiterà. Le strade, inizialmente desolanti e deprimenti, si fanno via via più belle e moderne all'avvicinarsi alla zona 10, una delle zone ricche. Passo un controllo di scurezza ed entro nella colonia Oakland, un posto che potrebbe trovarsi nel midwest americano invece che a Guate: strade asfaltate, erba tagliata, gente bella che fa jogging, sicurezza onnipresente.
In Guatemala ci sono in media 14 omicidi al giorno, quasi di più che in Iak e la stragrande maggioranza si commettono nella capitale. La paura è una compagna di vita per tutti, ricchi e poveri. Quando il giorno dopo faccio un giro in centro (senza portafogli e senza macchina fotografica) mi sembra di entrare in un videogioco pieno di cattivi, alcolizzati, junkies e gente dall'aria malavitosa. La suggestione è forte e ci mette un po' a dissiparsi. Le strade del centro sono cadenti e decadenti. A differenza di altre città del Guatemala, i negozi e ristorantini del centro, invece di avere un'aria folkloristica e tranquilla, sono squallidi, grigi e tristi, popolati da persone che parlano poco e non sorridono. Eppure il centro ha dei piccoli gioiellini sparsi qua e là, come degli edifici coloniali con delle corti interne stupende, dei centri d'arte, dei piccoli musei molto belli. Una volta usciti da queste bolle di normalità e tranquillità, ci si trova in una strada polverosa, con bus che ti avvolgono in fumi neri. Agli edifici coloniali si alternano case fatiscenti, costruzioni moderniste che non sono mai state belle, una catena di fast food americana o locale o un negozio di armi. Devo ammettere che tornare verso la zoa 10 mi ha fatto piacere, nonostante il sentimento di sentirmi un carcerato di lusso.
Urban man

domenica 25 aprile 2010

Finca Ixobel

Oggi ho lasciato una Flores addormentata per continuare il mio viaggio verso sud, nell'ormai classico minibus che - causa giornata domenicale - era meno pieno del solito. La strada dritta passava a fianco di varie fattorie da "ganado" (bestiame), mentre tutti gli uomini che salivano erano vestiti uguali: stivali di pelle a punta, jeans, cintura con fibbione gigante, camicia stile Far West (di cui la migliore e' stata una con un tramonto disegnato sul petto) e cappello da cowboy. Optional, ma molto graditi, i baffi da sparviero e i denti d'oro.
In questo panorama pullulante di rodei, vacche e cavalli c'e' la finca Ixobel, un posto incantanto in mezzo al verde, dove una sorgente naturale alimenta un piccolo laghetto in cui si puo' nuotare. Il ritmo e il relax sono guatemaltechi, mentre l'efficienza e' svizzera. Il genere di posto adatto a rimettersi un po' in forma, anche grazie all'ottimo ristorante. In compenso l'eta' media e' over 40, visti i prezzi piu' cari (il mio bungalow con elettricita' e bagno privato costa l'esosa cifra di 11 euro).
Invece di cazzeggiare, ho deciso di andare a fare una gita a cavallo. In un caldo mostruoso e accompagnato dal cowboy piu' taciturno del West (a domanda rispondeva con un si',un no o un'alzata di spalle), ho iniziato a sperare che qualcosa succedesse, visto che si andava ad un'andatura da "A spasso con Daisy". Sono stato accontentato verso la fine, quando il mio cowboy ha deciso di andare a recuperare i cavalli sparsi per la fattoria facendo versi sovrumani, mentre il mio cavallo aveva deciso che ne aveva abbastanza della gita e che era ora di tornare a casa. Alla prima occasione si e' girato ed ha iniziato a galoppare nell'altra direzione, mentre tentavo invano di fermarlo. Il cowboy ha fatto cenno di tirare le redini (neanche in quell'occasione ha parlato), al che sono effettivamente riuscito a fermarlo, ma in compenso il cavallo ha iniziato ad alzarsi sulle zampe posteriori. Io ho proposto al cowboy di tornare a casa con il mio cavallo (che aveva l'aria di conoscere la strada)lasciandolo ai suoi doveri, ma lui ha preferito mettere il suo cavallo di traverso e frustare il mio perche' andasse nella direzione da lui voluta. Strategia vincente per circa quindici metri, dopodiche' si e'prodotta una scena da "Furia Cavallo del West" con un nitrito diabolico e me aggrappato alla sella che vengo scaraventato a terra, per fortuna atterrando in piedi. Il cowboy ha allora fatto cenno che era meglio scambiare i cavalli, dicendo che il suo era piu' tranquillo.
Tornato al bungalow sano e salvo, sono andato a farmi un bagno nel laghetto, scoprendo con orrore che ho un'abrasione a livello dell'osso sacro tipica del cavallerizzo principiante. Avendo scongiurato una vescica ai piedi durante l'approccio al Mirador, e' probabile che ne avro' una proprio sopra le chiappe.
Culo seduto

Il secondo giorno alla finca doveva essere dedicato a molteplici attivita' tipo yoga, escursione ad una grotta e nuoto. In realta' mi sono svegliato tardi, ho portato - con uno sforzo supremo - i vestiti sporchi (lerci per essere precisi) a lavare, ho mangiato, ho dormito, ho mangiato di nuovo, ho dato un'occhiata alla guida del Sudamerica per vedere se si puo'passare dall'Ecuador al Peru verso il Brasile per l'Amazzonia (non e' chiaro) e ho pisolato sull'amaca del mio bungalow. L'attivita' piu' intensa e' stata cucire due bottoni di una mia camicia e di radermi per avere un aspetto un po' meno selvatico in vista della capitale.
Ghiro & goro

sabato 24 aprile 2010

El MIrador

Prologo

Dieci di sera. Dopo quattro giorni di insonnia, riesco finalmente a dormire, finche' qualcuno si mette a battere insistentemente contro la porta. Ci metto un po' ad lazarmi e ad aprire. All'uomo che bussa appare una stanza fatiscente, vestiti ammucchiati un po' ovunque ed un essere in mutande, spettinato ed insonnolito che lo squadra con aria interrogativa.
Riconosco il tipo. Ha una piccola agenzia che organizza escursioni, tra cui quella a El Mirador, il sito maya piu' grande del mondo che si trova a 63 chilometri di marcia: cinque giorni a piedi nella foresta andata e ritorno. Avevo gia' abbandonato l'idea per mancanza di partecipanti ed ero pronto a muovermi verso sud. Mi dice invece che ora ci sono tre persone disposte ad andarci e che la partenza e' per le sette. Mi chiede se sono ancora interessato. Domanda superflua.

I personaggi

John: quarantenne newyorkese, di lavoro fa l'occupational therapist (riabilitazione motoria per anziani e obesi). John e' logorroico, ipocondriaco e maniaco di attivita' all'aria aperta. Superequipaggiato con tanto di berrettino copri-collo tipo Stanlio e Ollio nella Legione Straniera, e' comunque invidioso del mio zaino che non tocca la schiena e mi chiede varie volte come lo trovo dilungandosi in spiegazioni sulla ragione per cui non ha portato il suo.

Catleene & Katy: coppia canadese di treehuggers (ambientaliste radicali), sono partite di casa in macchina e sono arrivate in Guatemala perche' il loro visto messicano stava scadendo. Catleene e' vegetariana, fa yoga e sembra uscita da "La casa nella prateria", mentre Katy cammina come un cowboy e spara battute a raffica. Nonostante standard igienici ben al di sotto di quelli femminili italiani, l'antipatia per la depilazione di ogni tipo e un'assenza di manicure di base per cui hanno le unghie perennemente nere, sono due bei personaggi.

Lady Boo: misto di quasi tutte le razze del pianeta, e' un cane randagio di piccole-medie dimensioni raccattato in Messico da Catleene e Katy. Ha eletto la loro macchina a sua casa e cuccia. Interessi principali: mangiare pollo e abbaiare agli asini.

Otto: guida tedesco-guatemalteca, e' stato militare, putchista, capo guerrigliero e varie altre cose. Holliwood potrebbe creare una serie di mille puntate sul dieci per cento della sua vita. Nella foresta e' a casa come Tarzan. La sua filosofia e' un misto di sciamanesimo naturista maya e di marxismo rivoluzionario.

Carlos: aiutante di Otto, gli vengono le vesciche dopo due ore di marcia e rimane inservibile per il resto dell'escursione.

Chepe, Baia e Orna: rispettivamente il conduttore e i suoi due muli. I tre sono inseparabili (e visceralmente odiati da Lady Boo): parlano poco (i muli per niente) e lavorano molto.

Giorno uno

Ora di partenza fissata per le sette. Alle dieci stiamo ancora caricando taniche d'acqua mentre Lady Boo da' la caccia a delle sfortunate galline. Arrivati al mini-paese della Carmelita, caricate le provviste sui muli, riempite le borracce e trovata la crema solare per John che e' molto felice di non aver vomitato in macchina come al solito, Otto inizia a darci delle istruzioni di sicurezza di base. Bisogna camminare assieme, se vediamo un giaguaro dobbiamo alzare le mani e urlare, se vediamo un serpente non dobbiamo muoverci tranne con una specie che attacca ed e' pure mortale. Non molto rassicurati dalle istruzioni partiamo in fila indiana sotto il sole devastante di mezzogiorno.
Dopo mezz'ora il gruppo si e' gia' disgregato. John si rammarica di non aver portato i bastoncini in alluminio, mentre Catleene e Katy fanno merenda mangiando un melone. Otto inizia a dirci che siamo quasi arrivati al campo, cosa che ripetera' per almeno dieci volte ad intervalli regolari. Quando vediamo due teli di nylon stesi alla bell'e meglio capiamo che la profezia si e' avverata. John approfitta per farsi una doccia lamentandosi del prezzo, mentre Lady Boo inizia a mangiare la zuppa di pollo destinata a noi.
Incontriamo anche altra gente che e' partita per El Mirador senza muli, senza guida e senza acqua. Chepe mi prepara un'amaca con tanto di copertina e zanzariera ed io dormo sette ore di fila per la prima volta da quando sono in Guatemala.

Giorno due

Uno dei componenti dell'altro gruppo si chiama Ronnie. E' un venezuelo-egitto-uruguayo-ebreo-americano. Un po' complicato da spiegare ma il risultato e' generalmente positivo. Si unisce a noi assieme a Mary, una ragazza ventiduenne del Minnesota che e' arrivata nel Nord Carolina in bici per poi imbarcarsi su barche a vela dirette verso i Caraibi. E' in pausa-studio da quando la sua universita' ha chiuso causa bancarotta.
Carlos, l'assistente guida con le vesciche, soffre palesemente dopo essersele aperte con il mio coltellino svizzero. John mi parla dei suoi pazienti obesi, Otto della guerra in Guatemala, mentre Lady Boo cerca di suicidarsi correndo dietro alle scimmie. Ad un certo punto la perdiamo e Otto dichiara che se l'e' mangiata un giaguaro, facendo la stessa fine di sei dei suoi sette cani. Dopo un po' Lady Boo riappare portandosi dietro uno squadrone di zecche che ci accompagneranno per il resto dell'escursione.
Arriviamo a El Mirador prima di sera, perdendo per strada Carlos. Otto ha gia' deciso che se non arrivera' lo lascera' nella foresta, cosi' la prossima volta non si perde. John scopre che nel nuovo campo la doccia costa meno che nel precedente. Amch'io decido di investine un euro in un po' di igiene personale. La doccia e' in realta' un telo di nylon con un secchio pieno di acqua piovana ed un cimitero di saponi e shampi abbandonati nei secoli da decine di gitanti. Il risultato finale e' piuttosto positivo: la mia pelle diventa piu' chiara e mi alleggerisco di cinque zecche.
Per cena (riso in bianco con fette di carne di maiale in scatola arrostite sul fuoco da campo) ci raggiungono i membri del gruppetto indipendente tra cui tre australiani e una bielorussa dal passaporto canadese. Otto anima la serata parlando della sua famiglia massacrata dalla CIA e del suo miglior amico gallego ucciso dall'esercito. Ci fa anche un riassunto in un quarto d'ora della guerra civile dal 58 ad oggi. Nordamericani e australiani non capiscono una sega e hanno bisogno sia di traduzione dallo spagnolo, sia di un corso accelerato di storia contemporanea di base. La serata finisce con uno scuotimento di teste generale.

Giorno tre

Otto mi sveglia alle cinque tirandomi giu' dall'amaca. Katy, John e un australiano si uniscono a noi per vedere l'alba in cima alla piramide piu'alta del sito (che in seguito scopro essere la piramide volumetricamente piu' grande al mondo, alla faccia degli egizi). Visto che secondo Otto siamo in ritardo, ci mettiamo a correre come dei forsennati per la foresta per 45 minuti e saliamo i gradini della piramide tre alla volta. Arriviamo che mancano vari minuti all'alba e scopriamo che c'e' una tale foschia che non si vedra' assolutamente niente. Mi rifaccio guardando uccelli tropicali con il binocolo appannato di Otto.
Dopo un po' scendiamo a fare colazione: porridge di farina di fave con banane cotte. Mettendoci mnezzo litro di miele e mezzo chilo di granola sa anche di qualcosa. Il resto della giornata e' dedicato alla visita dell'immenso sito, con Otto che ci fa da Cicerone e sciorina anche tutto il suo repertorio da Mister Crocodile Dundee, mostrandoci piante che curano ogni tipo di male, tra cui il morso di serpente, con la solita eccezione di quello molto stronzo che se ti morde ad un braccio l'unico modo di sopravvivere e' tagliarselo con il machete (se ti morde ad un fianco sei veramente sfigato).
Durante la giornata Lady Boo e' molto triste perche' deve rimanere al campo al guinzaglio (i tacchini dei guardiani ringraziano). La troviamo mezzo strangolata dal tanto girare attorno al palo a cui e' legata. Catleene inizia a toglierle zecche e tutti la imitiamo esplorando le nostre gambe...
Prima di cena saliamo sulla piramide de El Tigre, grande come il complesso piu' monumentale di Tikal da cui si vede un mare di foresta sotto i nostri piedi. Il panorama mi ricorda quando si va in motagna e si vedono le nuvole
da sopra. In cima alla piramide, guidati da Catleene, quasi tutto il gruppo si mette a fare yoga, mentre io spiego a Katy i miei piani per diventare milionario vendendo birra gelata a El Mirador. Il povero Carlos, nonostante le vesciche, viene reclutato per una sessione di respirazione collettiva e non sembra capire che cosa ha fatto di male per meritarsi tutto questo.
Cala la notte. Un'anima santa cucina una cena piu' che decente e poi tutti a nanna. Il Chepe accompagna il sonno con delle sonore scorregge, mentre Carlos russa come un bandito.

Giorno quattro

Inizio la giornata con un gesto da Indiana Jones. Seguendo l'esempio di Otto, mi spalmo una foglia di una pianta sulla lingua e poi ci spengo sopra una sigaretta: nessuna ustione e nessun dolore. Secondo Otto, la foglia magica serve anche ad abbassare il ritmo cardiaco, come antidolorifico e per la sterilita'femminile (nel senso che la fa venire). Visto che siamo nell'ambito della medicina da campo, si passa in seguito a curare le piaghe dei camminanti. John e io dispensiamo cerotti a meta' della comitiva. Quelli presi peggio sono Carlos, che ha ormai due piaghe da decubito ai piedi e Katy, i cui piedi assomigliano ad una fiorentina, con aggiunta di un po' di sporco organico e un po' di sporco inorganico.
Il piano della giornata e' molto semplice: si torna indietro, sempre camminando. Per fortuna la giornata e'clemente ed il cielo un po' nuvoloso. Fa un po'meno caldo, ma John rimane sempre molto preoccupato per la quantita' d'acqua da bere e spera che sia sufficiente. Tra travasi e parsimonia, riusciamo ad arrivare al campo senza troppi problemi,incontrando anche qualche tacchino selvatico e delle scimmie che ci fanno la cacca in testa. Il campo e' lo stesso del secondo giorno, anch'esso dentro ad un sito archelogico (Tintal) che troviamo la forza di visitare. Saliamo sull'ennesima piramide ad aspettare il tramonto in tre: John, un australiano ed io. John approfitta dell'attimo di raccoglimento per fare un'analisi dettagliata di quanto stronza e'una sua paziente che gli ha detto che dopo la sua distorsione alla caviglia soffrira'sempre del cambio di tempo. Io penso invece a quanto sono idioti quelli che scrivono il loro nome sulle agavi che crescono in cima alla piramide. Quando mi volto, vedo che l'australiano sta scrivcendo AUSTRALIA su una foglia d'agave con un sasso. Decido che il tramonto sulla piramide fara'ameno di me e scendo a sonnecchiare sulla mia amaca.
La sera si avvicina e non c'e' movimento in cucina. Sento che ci sono molti spaghetti avanzati e, per limitare i danni, mi metto all'opera accendendo il fuoco, mettendo l'acqua a bollire e facendo un sopralluogo degli ingredienti per il sugo. Ci sono cipolle e carote in abbondanza. Mi rendo pero' tragicamente conto che ci sono cinque buste di salsa al pomodoro, di cui solo due normali (ovvero al vago gusto di ketchup), mentre le altre sono al gusto pollo e al gusto frutti di mare. Per tentare di dare un po'di decenza al tutto,annego il sugo in un mare di origano e ci metto anche delle proteine vegetali che Catleene tira fuori dalla sua busta dei misteri vegetariani. Il risultato finale e' indicibile, ma vista la ciurma poco esigente e lafame atavica, tutti fanno il tris e c'e' chi se lo mangia a colazione il giorno dopo (le canadesi si portano addirittura gli avanzi per il pranzo).
Mi addormento senza problemi, svegliandomi tuttavia nel mezzo della notte tra un concerto di scorregge di persona ignota e il russare preciso e ritmato di John. In un eccesso di zelo archeologico-astronomico, decido di salire la piramide di notte per vedere le stelle. Armato di lampada frontale, mi introduco nella foresta. Bastano pochi attimi e mi rendo conto che sarei un'ottima colazione per un puma affamato, nonche' la preda ideale per il serpente stronzo. Decido comunque di andare avanti, con un sentimento panico che accresce via via. L'ombra di una palma mi fa trasalire e il riflesoo degli occhi dei ragni mi fa rabbrividire. Solo salendo le scale della piramide la paura si dissipa, perche' la fatica fisica prende il sopravvento.
In cima lo spettacolo e' magnifico e anche totalmente gratuito. Il cielo e' terso ed in lontananza si vedono i rilievi delle pirami di coperte di verde degli altri siti sparsi un po' ovunque nell'immensa pianura.

Giorno cinque

Si fanno gli zaini per l'ultima volta. La giornata e'torrida e faremo le cinque ore che ci separano dalla prima strada sterrata con 35 gradi. John e' particolarmente in forma e inizia a parlare al minuto zero per terminare a fine giornata. Scopro che prima di diventare occupational therapist e' stato analista finanziario, poi insegnante di inglese in Giappone, infine copyrighter (inventava idee pubblicitarie). Ora pensa di specializzarsi ulteriormente nella terapia e,a46 anni, vorrebbe riprendere gli studi.
Come una mandria che torna a casa copriamo l'ultimo tratto di foresta a velocita' record, nonostante alcuni abbiano ormai i piedi in putrefazione. Riusciamo ad arrivare al paesino della Carmelita prima di mezzogiorno, per scoprire che la macchina che deve riportarci indietro non c'e'. Per stemperare la delusione prendiamo d'assalto il negozietto di bibite e il comedor che ci serve gli ormai classici frijoles con uova assieme alla granita piu' buona del mondo. E'il primo pasto batteriologicamente accettabile da quando siamo partiti: i piatti lavati e ognuno con la sua forchetta.
La macchina finalmente arriva, ma invece di essere il pickup 4x4 dell'andata, e' un catorcio di pullmino che solleva un sacco di polvere e l'imbarca tutta a causa di un buco nel telaio. In breve ci ritroviamo tutti coperti di bianco come dei mugnai, compresa Lady Boo, che ha trovato spazio sotto le mie gambe e tenta di conquistarne di piu' muovendosi come un serpente. Dopo un'attenta analisi della dentatura di Lady Boo, mi rendo conto che non solo le manca il canino destro, ma la mandibola e' un po'inclinata, cosa che spiega perfettamente l'abbondante salivazione che cola sul mio ginocchio destro. Non avendo piu'la forza per oppormi agli elementi, aspetto che il viaggio di ritorno abbia fine.
Mentre ci avviciniamo a destinazione, passiamo un albergo dal nome esplicito di "El amor secreto", seguito poco dopo da un altro albergo che si chiama "El otro amor secreto". Se qualcuno dovesse aver bisogno di due alberghi a ore a poca distanza l'uno dell'altro per un doppio tradimento, adesso sa dove trovarli.
Dopo una doccia che lascia sul fondo tre dita di polvere e terra, la giornata finisce con una sbevazzata collettiva.

Il buon selvaggio

lunedì 19 aprile 2010

Tikal

La sveglia suona alle 4 e 20. Fuori e' buio pesto. Non fa piu' il caldo opprimente della sera prima e l'americana demente che urlava nel corridoio a mezzanotte sta probabilmente ancora dormendo. Scendo le scale e mi ritrovo per strada. Nessuno in giro. Dietro di me la porta si apre di nuovo e sbuca una ragazza, poi una coppia. La ragazza e' franco-birmana, vive in Quebec e fa la psicologa, si chiama Melodie e ci incroceremo un paio di volte durante la giornata. La coppia e' messicana. Aspettiamo che passi a prenderci l'ennesimo minibus. Direzione Tikal, il sito archeologico piu' famoso del Guatemala.
Sta albeggiando, lasciandomi dietro tutto il gruppo che faceva la coda ai cessi aspettando la guida e comprando magliette, entro per primo nel sito. Poco dopo l'ingresso si entra in un tunnel di alberi. Dopo qualche passo un paio di scimmie si mettono a saltare sopra di me. Stanno facendo colazione. Scatto qualche foto e le lascio finire. Dopo poco mi ritrovo faccia a faccia con un animale a meta' tra il procione e il formichiere. Sembra una scena di mezzogiorno di fuoco. Camminiamo l'uno verso l'altro, finche' lui noncurante mi gira attorno e continua a camminare indisturbato. Non sembra stupito dalla mia presenza.
Nel mezzo della foresta, tra un cinguettare di uccelli di ogni colore, appare la prima di molte piramidi maya. Girandole attorno si scopre un'altra piramide gemella. Quasi tutte le priramidi di Tikal vengono in coppia allineate su un asse est-ovest. Tutte sono immerse nella foresta e su quasi tutte ci si puo' salire, con una certa fatica, visto che i gradini sono enormi e - nonostante l'ora insolita - fa gia' abbastanza caldo.
Il sito e' cosi' grande che incontro solo una paio di persone sui sentieri piu' periferici. Il silenzio e' solo rotto dai versi degli uccelli o dal rompersi di un ramo su cui una scimmia e' saltata troppo pesantemente.
Tikal e' un posto che ti manca il momento stesso in cui attraversi il cancello per uscirne sei ore dopo esserci entrato.
Magic moments

domenica 18 aprile 2010

Verso Flores

A differenza del Messico, dove i trasporti terrestri sono molto sviluppati e sia turisti che messicani (ricchi e poveri) prendono gli stessi bus per andare nelle stesse destinazioni, in Guatemala non e' cosi'. Per chi non parta da Guatemala City, la sola alternativa sono quasi sempre i minibus-sardina. In parallelo si e' invece sviluppata una rete de trasporti che sono offerti solo ai turisti. Il vantaggio e' un minimo di spazio in piu', lo svantaggio e' il prezzo doppio e l'impressione di essere come delle mucche all'alpeggio: un giorno ti portano su, quello dopo ti portano giu'.
Facendo un enorme errore di valutazione tra i pro e i contro, ho deciso di muovermi da Coban verso Flores con un minibus turistico. Sono stato prelevato alle dieci di mattina dal mio hostal e portato in una specie di centro di smistamento turisti, in un piazzale un po' sassoso e un po' erboso, pieno di rifiuti. Sui pochi spazi erbosi, si erano stesi dei ragazzi mezzo rincoglioniti dalla sbronza della sera prima, mentre tutto attorno brulicava un'umanita' con indosso infradito, bermuda, piercing in ogni anfratto cartilaginoso, tatuaggi, occhiali da sole, capelli rasta, bottiglie di birra in mano. Tutti ad aspettare indolenti, probabilmente senza aver fatto un giro dietro l'angolo a vedere la piazza e la chiesa. Nell'insiemeun'immagine di decadenza post-ideologica. Detta in altri termini, un mucchio di imbecilli.
A peggiorare le cose, scopro con orrore che piu' della meta' dei viaggiatori del mio minibus sono degli israeliani, i peggiori compagni di viaggio che uno possa aspettarsi: rumorosi, incazzerecci e maleducati. Nel loro gruppo c'e' anche una bavarese che e' seduta a fianco a me (con cui faccio il minimo di conversazione per non apparire piu' stronzo di quello che sono) e un ragazzino canadese con chitarra al seguito che sembra affascinato dall'appartenenza al branco e sta imparando qualche parola di ebraico. Tra i vari aneddoti un po' annebbiati dal mezzo litro di birra mattutina, sta facendo un resoconto della sua unica esperienza in "chicken bus", ovvero il bus per locali, descrivendolo come se fosse l'anticamera dell'inferno a cui lui solo e' sopravvissuto.
Alla prima sosta, gli israeliani si fiondano fuori dal pullmino e - invece di aspettare un paio di minuti che si liberi il bagno - si mettono a pisciare come degli idranti a fianco del ristorante dove si doveva mangiare. Felici per essersi svuotati, si accalcano attorno al bancone cercando di ordinare saltando la fila. Quando e' il momento di risalire sul minibus, la meta' e' scomparsa e quando riappaiono si incazzano con l'autista perche' mette troppa fretta. "Abbiamo pagato" gli dicono, facendogli segno di tacere. Mi chiedo quale processo antropologico sia riuscito a trasformare l'elite intellettuale del mondo in un branco di deficienti ottusi ed arroganti.
Il viaggio continua in un caldo soffocante. La meta si avvicina, ma invece di sbarcare a Flores e farsi ognuno gli affari suoi, veniamo incanalati in una procedura di smistamento bovini. Prima tappa e' il bancomat: tutti vengono invitati a ritirare i soldi perche' a Florse non ci sono sportelli aperti (falso). Seconda tappa i tour per Tikal, il sito maya piu' famoso del Guatemala e la ragione per cui siamo tutti qui. Infine, l'albergo. Come una mandria di ritorno dal pascolo, si gettano tutti sull'albergo indicato dall'autista, strappandosi l'un l'altro le chiavi che erano appoggiate sul banco come se fossero l'unica via di salvezza nel mezzo di un incendio. Nessuno pensa che in citta' ci sono altri alberghi, magari piu' belli, o meno pieni o in un posto migliore. Mi faccio dare il mio zaino, fermo un tuc tuc e me ne vado in cerca del posto piu' lontano possibile, trovandolo.
Snobbish traveler

Semuc Chempey

L'immagina e' da cartolina: una vallata lussureggiante in cui scorre un torrente impetuoso. Grazie ad un fenomeno carsico, il torrente va sotto terra, tranne per un po' d'acqua che rimane in superficie e riempie delle vasche naturali, che digradano via via. Si puo' nuotare in queste piscine ancestrali, con un'acqua fresca ma non fredda e delle cascatelle che rimpiazzano la migliore delle jacuzzi.
Una giornata bella e rilassante in compagnia di Chiara, fotogafa toscana trapiantata a Barcellona che sta facendo dei servizi per delle ONG che lavorano in Guatemala, una coppia franco-canadese e un ragazzo norvegese: relax e tranquilllita´.
Zen

venerdì 16 aprile 2010

Verso Coban

Quando si chiedono indicazioni ad un guatemalteco, lui raramente ti dira' che non sa rispondere. Piuttosto ti dara' un'informazione sbagliata. Per sapere a che ora partiva il mini-bus per Coban ho sondato varie fonti, arrivando alle seguenti conclusioni: partiva alle 4, no alle 4 e mezza, no alle 5, no alle 6, no alle 7. Il punto di partenza era il Parque, no la stazione di benzina vicino a Villa Nebaj, no alla Terminal. Per sapere quale sia la risposta giusta bisogna fare delle statistiche tra il pubblico come se si fosse a "Il Milionario".
Un'altra difficolta' risiede nel fatto che il concetto di destra e sinistra e' praticamente ignoto. Si dice "subir" o "bajar" o "para alla'" o "por aqui" e nessuna di queste definizioni corrisponde a standard uniformi e condivisi.
Per la cronaca, il minubus partiva alle 5 dalla pompa di benzina. Il viaggio e' durato 5 ore con livelli di sardina altalenanti, ma piuttosto elevati, tanto che l'autista - cosa mai vista - ha dovuto rifiutare alcuni passeggeri. Il viaggio mi ha ricordato moltissimo i miei spostamenti da pendolare in Colombia, quando andavo a Bucaramanga: strade sterrate che si inerpicavano e riscendevano senza sosta tra montagne poco abitate. La differenza e' che noi eravamo in due in una Toyota Landcruiser per 11 persone. In compenso qui non ci sono mine.
All'arrivo a Coban, non proprio la citta' piu' bella del Guatemala, non ero proprio fresco come una rosa. Tra il caldo, il traffico, il problema della destra-sinistra e quello del non ammettere che non si sa rispondere, trovare un albergo e' stato un calvario. Ho comunque trovato una pensioncina con un bel patio interno, ma con la stanza piu' rumorosa del mondo. Penso che dormiro' di nuovo con i tappi.
Metropolitan explorer

giovedì 15 aprile 2010

Trekking nell'Ixil

Primo giorno
A Cotzol, a 2400 metri di altitudine, sto scrivendo sul mio quaderno tentando di riscaldarmi un po' dopo aver camminato per due ore sotto la pioggia battente, con un K-way che fa acqua da tutte le parti. L'unica parte del mio corpo che non si e' bagnata sono i piedi e per questo ringrazio di tutto cuore l'inventore del goretex.
La giornata e' iniziata al Descanso, un centro creato da un'associazione di volontariato che organizza anche i (rari) giri per le montagne dell'Ixil. Raphael mi preleva e mi porta alla stazione dei minibus per un'altra dose di trasporto-sardina su strada sterrata. Raphael parla poco e quando lo fa ricorda il Maestro Yoda di Guerre Stellari: frasi corte, enigmatiche, parole intercalate da silenzi e totale assenza di interiezioni. Dopo essere scesi dal minibus nel mezzo del nulla e aver camminato una mezz'oretta, Raphael scruta il cielo con il suo sguardo da sciamano e dice "va llover", piovera'. Il seguito a prova che aveva ragione.
Dopo un po' vengo preso in consegna da Jose' che mi accompagnera' per il resto del giro. Assieme a lui scendo una vallata per risalirla dall'altro lato e arrivare a Xeo, il micro-villaggio in cui vive: qualche casa di legno col tetto in lamiera, galline, un maiale e fango sia fuori che dentro casa, dove non c'e' pavimento e tutti sputano con una frequenza e una naturalezza sorprendenti. La casa dove vive Jose' e' uno stanzone di 5x5, con letti di legno senza materasso, una tavola, una panca e un piccolo armadio sbilenco. Le donne cucinano mentre lui fa conversazione con uno dei suoi nove figli. Non capisco niente di quello che dicono perche' parlano in Ixil, il dialetto maya locale. Per pranzo mangio una novita' gastronomica mondiale: fusilli con una patata lessa, un uovo in camicia e tortillas di mais. Da bere c'e' della "bebida", ovvero dell'acqua in cui e' stata bollita della farina di mais. Durante il pasto si parla di un po' di tutto, con il figlio di Jose' che fa una raffica di domande su dove vivo e sul mondo in generale. Spiego che l'Irak non e' vicino all'Italia, che il Papa vive in Vaticano che e' vicino a Roma, che in Europa ci sono quattro stagioni, che l?'Italia produce macchine di cui le piu' conosciute si chiamano Ferrari e che si coltiva piu' grano che mais. In due minuti faccio anche un resoconto sintetico ma completo del conflitto Israelo-Palestinese dalla fine dell'ottoceto ad oggi.
Dopo pranzo ripartiamo per completare i mille metri di dislivello quotidiani (senza contare i precedenti cinquecento di discesa). Inizia a piovere violentemente e il mio equipaggiamento tecnologico non regge al confronto con quello meno chic ma piu' efficace di Jose': un sacchetto di plastica sul cappello e un telo di nylon attorno alle spalle. Durante la camminata continuiamo a parlare e Jose' scopre che Bin laden non e' un leader governativo ma un capo terrorista. Bisogna aggiungere che qui tutto quello che sa di governo e' considerato in maniera negativa, mentre tutto quello che e' legato alla guerriglia e' visto di buon occhio. Tento di spiegare che la situazione in Irak e Afganistan e' un po' diversa da quella del Guatemala degli anni '80. Non so se ci riesco.
Nella zone dell'Ixil c'e' una profonda identita' non solo etnica, ma anche di classe. Il mondo si divide tra "el gobierno" e "los ricos" da una parte e "los pobres" dall'altra. La repressione violenta che ha portato alla distruzione di case e alla fuga di molte famiglie (incluso quella di Jose') non fanno che rafforzare l'idea che lo stato sia un male e che l'unica via per il riscatto sociale sia la lotta, armata e non. In fondo la coscienza di essere poveri e' l'unica vera richezza di queste comunita' perche' le spinge a fare sforzi sovrumani per migliorare un po' le primitive condizioni in cui vivono. Ma la coscienza di classe e' estremamente esclusiva. Per esempio a Jose' non piace Rigoberta Menchu, leader indigena e premio Nobel per la pace. Ai suoi occhi ha tradito la causa, e' diventata una conferenziera a gettone e si e' messa con i ricchi.
A fine giornata mi ritrovo un po' piu' asciutto e un po' piu' caldo a finire di scrivere queste righe. Fuori e' buio pesto perche' c'e' luna nuova. Ho mangiato in una casa del villaggio da una signora di un'eta' imprecisabile che sembra uscita da un libro illustrato sulla civilta' maya. Le ho proposto di farle una foto, al che lei si e' prima preoccupata - con insospettabile civetteria - per la sua capigliatura (poco prima aveva tirato un rutto mostruoso alla Bud Spencer) e poi si e' messa in una posa ufficiale, seria, quasi marziale. Le ho fatto vedere la foto e sembrava molto lusingata. Il potere delle immagini e' dirompente e universale.
Pulcino bagnato
Secondo giorno
La decisione di portarmi dei tappi delle orecchie e' stata molto saggia, perche' alle sette e mezza di ieri sera, mentre io facevo cruciverba della Settimana Enigmistica, Jose' ha iniziato a russare come una betoniera. Deve aver dormito come un sasso perche' questa mattina sono stato io a svegliarlo verso le sei. Colazione in una casa ancora piu' povera delle precedenti a base di una specie di zuppa, delle onnipresenti uova e di un caffe' che scambio per te finche' non me ne offrono una seconda tazza.
Poco dopo l'inizio della discesa che ci portera' dai 2400 metri verso i 1500 del fondo valle seguente, Jose' si ferma e mi dice con fare enigmatico di non muovermi, poi sparisce in mezzo alla foresta. Quando la natura chiama non si puo' dire di no. Decido di fare lo stesso. Proseguiamo verso valle con l'aiuto della propulsione che i fagioli mangiati un po' ovunque ci offre a ripetizione. Anch'io inizio a sputare come un lama provando grande soddisfazione.
Il sentiero scende ripido per un bosco che racchiude la flora della macchia mediterranea (pini marittimi), quella delle prealpi (querciole, faggi, altre conifere) e tropicale. Il paesaggio e' stupendo. In compenso inizia a fare un caldo pazzesco che ci accompagnera' per tutta la salita seguente, il che ci fa fermare un paio di volte a riposare e a parlare. Jose' continua con le sue domande a tutto campo: com'e' l'Italia, perche' i turisti vengono in Guatemala, chi li paga, cosa mangiano i contadini in Italia, etc... Parla anche un po' di se'. Anni fa e' partito verso la costa a lavorare nei campi di canna da zucchero e di cotone. Dell'esperienza si ricorda che l'acqua del mare fa male agli occhi. Poi chiede dove finisce il mare e cosa c'e' dall'altra parte. Faccio del mio meglio per dare una spiegazione plausibile e mi sento un po' Galileo.
La camminata continua con un'altro pasto a base di zuppa e uovo cotto dentro. La fine della gita e' piu' piatta e si cammina su una strada sterrata su cui passano ogni tanto dei bus. Le case si fanno via via piu' grandi, la gente meglio vestita. La citta' si avvicina e con essa il rumore, la polvere , il casino. Se due giorni fa Nebaj mi sembrava un posto dimenticato da Dio, ora mi sembra una metropoli. Comunque infine posso farmi una doccia calda.
Uomo stanco
Cifre
Secondo una pubblicazione di Solidaridad Internacional, nella zona dell'Ixil:
Il 60% dei illaggi non ha accesso diretto ad una strada
Il 25% dei bambini ha accesso all'educazione primaria
Il 50% delle comunita' non ha infrastruttura sanitaria
Il 70% dei villaggi non ha connessione alla rete dell'elettricita'

mercoledì 14 aprile 2010

Atitlan-Nebaj

Non so se sia perche' ho scelto come compagno di viaggio un romazo di Kafka, ma sta avvenendo in me una metamorfosi. La barba sta crescendo, l'igiene personale sta diminuendo, la preoccupazione per quello che indosso e' minima. Corollario di questa trasformazione e' una crescente noncuranza per tutto cio' che normalmente troverei irritante. Ritardi, trasporti lenti e sovraffollati, inefficienze e anche i piccoli tentativi di "fregare il turista", invece di innervosirmi, diventano familiari e addirittura piacevoli. Il tempo rallenta. Arrivare un'ora dopo o il giorno dopo fa poca differenza.
Ho deciso di lasciare la strada piu' battuta dai turisti andando verso nord attraverso la zona del Quiche' e dell'Ixtil, passando per Nebaj dove mi fermero' un paio di giorni a camminare nelle montagne. Per arrivare a Nebaj ho cambiato quattro minibus tutti con 14 posti a sedere e tutti con il doppio esatto di occupanti. Il paragone con delle sardine in scatola e' inadeguato perche' nelle scatole di sardine c'e' anche spazio per un po' d'olio. Prezzo medio di un tragitto di 30 minuti: 50 centesimi di euro (aria condizionata esclusa).
Prima mini-tappa Chichicastenango, famosa per il suo mercato bisettimanale (come Castelfranco). Non essendo giorno di mercato, ho girovagato distrattamente con i miei due zaini (quello grande dietro, quello piccolo davanti) suscitando qualche sguardo incuriosito ma discreto della gente. Chichi e' una cittadina con stradine di porfido in cui c'e' una stupenda chiesa del '500 in cui il cattolicesimo si fonde alla religiosita' maya in maniera indissolubile: le scale che portano all'entrata rapresentano le piramidi, Maria diventa la Luna, mentre Dio rappresenta la terra. Vicino alla porta, un chuchkajaue (persona che dirige la preghiera) sparge incenso recitando preghiere in lingua maya. All'interno della chiesa l'incenso crea una nebbiolina da cui appaiono figure genuflesse che si muovono con movimenti rapidi lungo la navata centrale verso l'altare. C'e' un silenzio irreale.
Seconda mini-tappa di giornata e' Quiche', citta' piu' movimentata, con un parque central carino e vivace, vicino al quale ho comprato sei banane per 30 centesimi di euro. La Terminal, la stazione da cui partono i bus pubblici e i minibus piu' veloci e scavezzacollo e' invece un piazzale polveroso in cui ho mangiato il peggior pasto da quando sono in Guatemala: carne al cautchu con un po' di riso freddo e una salsa non precisata.
La strada verso Nebaj e' una continua curva che l'autista prende alla massima velocita' possibile, evitando accuratamente di usare i freni. La strada sale senza sosta e si ha l'impressione di toccare il cielo. Un incidente ci rallenta il passo, ma l'autista decide di rischiare sospensioni e trasmissione salendo sul ciglio della strada, per l'orrore di due donne dominicane venute a trovare la figlia/nipote che fa la volontaria nella zona. La strada passa per piccoli agglomerati di case di contadini. Su alcune di queste e' disegnata una mano che fa il segno delle tre dita. L'acronimo che le accompagna e' FGR, il partito dell'ex-presidente Rios Mott durante la cui presidenza migliaia di persone, in maggioranza indios sono state uccise. La volontaria mi spiega che le case vengono date gratis in cambio del voto. Rios Mott e' ancora in parlamento.
Arrivo a Nebaj con freddo e pioggia. Anche qui la chiesa e' splendida, ornata di pizzi che scendono dal soffitto. Tempo di riposarsi.
Sardina Jones

lunedì 12 aprile 2010

Volcan San Pedro

Alle sei di mattina sono partito con Pedro, nato a San Pedro, per raggiungere la cima del vulcano San Pedro. Il sentiero si inerpica in mezzo alla foresta tropicale, attraversando ogni tanto qualche coltivazione di caffe' e dei piccoli campi coltivati a granturco e fagioli (la pianta di fagiolo si aggrappa a quella di mais, produce e poi muore, mentre l'altra continua a crescere). Nei libri di geografia delle medie si chiamava agricoltura di sussistenza. Nella realta' significa camminare ore e portare tutto il raccolto in spalla, con una cinghia appoggiata alla fronte.
Pedro ha 29 anni, fa la guida da quando ne aveva 14, e' sposato con due figlie (5 e 7 anni). La sua lingua materna e' il maya e parla spagnolo come seconda lingua, sbagliando ogni tanto i maschili per i femminili. Suo fratello, doo aver attraversato il deserto a piedi, e' immigrato clandestino negli Stati Uniti e fa il muratore. In famiglia sono quattro fratelli e sei sorelle. All'inizio dell'ascesa Pedro fa l'andatura e praticamente corre per il sentiero. Ad un certo punto ha pieta' di me e mi fa andare avanti. Il passo rallenta un po', anche se comunque copriamo i 1300 metri di dislivello in poco piu' di due ore, arriando in cima (3020m) verso le otto di mattina. La vista semplicemente splendida: il lago riflette la luce del sole ed e' attraversato da lance di cui non si sente il minimo rumore. Tutt'intorno montagne vulcaniche coperte di vegetazione. In basso i vari villaggi sulla riva. Un colibri' fa colazione vicino a noi.
Scarpone

domenica 11 aprile 2010

San Pedro La Laguna

Mal di testa, mal di pancia, insonnia, sveglia nel mezzo della notte. Piu´ che un essere umano sono una lista ambulante di sintomi da jetlag. In queste condizioni sono arrivato al lago Atitlan, circondato da verdi vulcani e percorso da qualche sparuta lancia che mi porta a San Pedro, passando per villaggi sonnolenti e qualche casa di lusso arrampiacata su una montagna.
San Pedro e´ un ritrovo post-hippie in cui pesudo-studenti di spagnolo e vagabondi internazionali passano in ordine sparso qualche giorno a fare poco o niente (yoga, massaggi, happy hour, kayak). Il paese e´ diviso in due: c´e´ la parte vicino alla spiaggia dove si concentrano tutti gli stranieri: hotel, ristoranti, bar e c´e´ il paese vero e proprio che si arrampica per una salita ripida tra cavi elettrici a penzoloni e case in stile Calabro-palestinese (si fa il primo o il secondo piano e poi si lasciano i tondini di ferro sul tetto in attesa di costruire il piano seguente). Sui muri di San Pedro si alternano inviti alla fede (¨dios esta contigo¨, ¨sonries dios esta aqui¨, ¨con dios estamos¨) a inviti a non gettare immondizia e a non defecare in strada. Le chiese si distinguono oltre che per la fantasia di forme geometriche, anche per la loro alternanza cromatica: ce n´e´una rosa-fucsia, una verde-abete e una giallo-vaniglia. La battaglia della fede si sta combattendo tra i battisti, gli anglicani, i pentecostali e i testimoni di Geova. La Chiesa cattolica sembra assente, probabilmente in ritiro strategico in attesa che qualche scandalo di pedofilia colpisca gli avversari. La sera si sentono canti religiosi sovrapposti, mentre il sole cala, gettando una luce trasparente sulla nebbiolina che sale a coprire le cime dei vulcani.
Sonnambulo

sabato 10 aprile 2010

Antigua

La Antigua e' un piccolo gioiellino di architettura coloniale, strade perpendicolari, chiese barocche (quasi tutte semi-distrutte da vari terremoti), giardini interni. La ciliegina e' il Parque Central, dove la gente sta seduta all'ombra, legge, parla o si fa lucidare le scarpe. Antigua e' anche un piccolo miracolo di integrazione di turismo indipendente, scuole di lingua e immigranti di lusso occidentali, in una dimensione locale in cui le contraddizioni disaggreganti del Guatemala (distribuzione iniqua della ricchezza, divisione sociale tra i ladinos e gli indigeni) sono meno apparenti, o per lo meno molto ben nascoste. Sorprendente che Antigua possa mantenere la sua apparenza di piccolo paradiso terrestre a solo 45 minuti dal piccolo mostro di Guatmala City, una Mexico City in miniatura.
Come nel resto del paese, anche ad Antigua la religiosita' traspira da ogni angolo di strada. Le chiese stanno ora tornando alla normalita' dopo la sbronza di processioni e messe della Pasqua appena passata. La chiesa piu' frequentata e' quella di Hermano Pedro, un monaco Francescano che ha costruito un'ospizio per i poveri ed e' stato beatificato. La sua tomba e' meta di pellegrinaggio per cui chiede una grazia e la parete della chiesa e' coperta di ex voto. C'e' un libro in cui si puo' scrivere la propria richiesta. Sbirciando tra le righe leggo che un signore chiede aiuto per "triunfar en los Estados Unidos". Gli auguro, se non proprio un trionfo, almeno un po' di fortuna, che venga da Hermano Pedro o da altre fonti.
Oltre a passeggiare per chiese, ieri ho deciso di iscrivermi a un piccola gita, in direzione del vulcano attivo di Pacaya (da non confondere con Pataya, il paradiso del turismo sessuale Thailandese). La gita e' stata uno spaccato di sociologia del turismo. C'era l'immancabile gruppetto di Israeliani che se ne fragano di tutto e non ascoltano nessuno (con il risultato che si ritrovano dopo il tramonto senza pila e senza maglioni a morire di freddo e a camminare nel buio), c'e' l'americano super-equipaggiato che si fa il caffe' riscaldando l'acqua sul cratere del vulcano, c'e' la coppia inglese che e' partita da Buenos Aires sei mesi fa e fa un resoconto dettagliato di tutto il viaggio in 45 minuti, c'e' la svizzera che ha lasciato il lavoro per viaggiare finche' le durano i soldi, ci sono due francesini di buona famiglia che si sono presi una pausa dalla loro vacanza-studio in Messico per vedere il Guatemala e c'e' l'italiano pseudo-avventuriero che sta testando le sue nuove scarpe da trekking per vedere se resisteranno a prove piu' dure. Alla fine della gita c'e' un po' di malumore, perche' purtroppo il vulcano non ha eruttato lapilli e lava, cosa che era successa il giorno prima. Un vero peccato essere scampati a morte per pioggia di sassi incandescenti.
Trekker

venerdì 9 aprile 2010

Volo

Per chi non si fosse mai svegliato alle cinque di mattina con Radiodue, e' un'esperienta che non consiglio, sia per l'ora insolita, sia per la programmazione atroce. L'ascolto e' durato solo qualche minuto, perche' alle 5.08 ero gia' nel parcheggio dove mi aspettava una tassista mestrina e logorroica a cui e' stato subappaltato il mio trasporto all'aeroporto.
Tra il semaforo della circonvallazione e la rotonda di Paese ho avuto un briefing dettagliato e minuziosissimo sui pro e i contro di essere tassisti per e da l'aeroporto. Mi ha anche detto, mentre accelerava e frenava bruscamente ogni due secondi in previsione di pericoli piu' immaginari che reali, che le donne tassiste sono molto meglio degli uomini - quasi tutti ex-camionisti - che in genere bestemmiano e non si lavano. Scopro anche che suo padre era camionista, dal che deduco che la doccia a casa loro non era di moda.
La tassista mi ha anche interrogato sulla destinazione, durata, motivi espliciti e impliciti del mio viaggio, nonche' su un'eventuale compagnia. Benche' un po' stupita dalla mia spiegazione, ha approvato la scelta, sottolineando come la cosa fosse impossibile per un lavoratore indipendente come lei. Ho evitato di esprimere il mio disaccordo temendo una feroce invettiva contro i vigili comunisti che mangiano i pneumatici.
L'aeroporto di Venezia era sonnolento e semi-vuoto. Non avendo il privilegio di passare mezz'ora al cechk-in e un'ora alla sicurezza, mi sono sciroppato due ora d'attesa semisdraiato su una poltroncina da fachiro, seguite da altre due ore abbondanti verso Madrid.
Tra tutti gli inspiegabili misteri del cosmo, quello che mi e' in assoluto piu' oscuro e' perche' tra due stati culturalmente, linguisticamente, gastronomicamente, vinicolmente, religiosamente e calcisticamente piuttosto simili come la Spagna e l'Italia, noi facciamo sempre la figura dei pezzenti. Invece del souk fatiscente e incasinato di Fiumicino (dove la posizione dei bagni e' un segreto tramandato tra pochi intimi e c'e' un giapponese che sta tentando da tre giorni di ordinare un cappuccino perche' tutti gli passano davanti urlando) c'e' uno splendore di vetrate, scale mobili funzionanti, ascensori, pannelli leggibili e anche - miracolo! - un numero di poltoncine proporzionale a quello dei passeggeri in partenza, benche' sempre modello fachiro.
Dopo circa 5 secoli, mi ritrovo a fare lo stesso percorso di Cristoforo Colombo, anche se con qualche vantaggio tecnologico in piu'. In comprenso non c'e' stata una grande evoluzione della qualita' dei pasti. Peggio, la qualita' delle hostess e' in inesorabile caduta libera. Dopo la KLM che impone calze opache che abbattono ogni sex appeal e dopo che la Lufthansa ha messo come prerequisito polpacci da terzino e fianchi da contadina moladava, la Iberia sembra aver dato il definitivo colpo di grazia: tutte le hostess assomigliano alla mamma sdi Brian di Nazareth nel film di Monty Python, mentre gli steward devono avere tutti avuto un passato da tassisti mestrini.
In compenso il tassista (vero) che mi porta da Guate ad Antigua non se la prende col tempo e col governo e mi porta a destinazione sano e salvo. Dopo ben 24 ore dopo la partenza riesco infine a dormire un po'.
Navigante

martedì 6 aprile 2010

Tre paia di pantaloni lunghi, due corti, sei magliette, due camicie, tre paia di scarpe, due felpe, un cappello, un mini-asciugamano superassorbente, una torcia frontale, coltellino svizzero, giacca a vento, cappello, saccoletto, mutande, calze, medicine, spazzolino, dentifricio, occhiali da sole, libro (Kafka), lettore Mp3, collezione di sudoku, quaderno e penne, documenti, biglietto aereo, macchina fotografica, soldi. I miei molteplici e possibili compagni di viaggio dovrebbero ormai esserci tutti o quasi. Per il momento accatastati alla rinfusa sul letto, in attesa del giudizio univoco e finale : chi viene e chi resta. Qualcuno potrà essere aggiunto all’ultimo momento in un eccesso di zelo e previdenza (non si sa mai…), qualche altro sarà depennato con rammarico per cause di forza maggiore perché o troppo pesante o troppo ingombrante.
Come un vecchio e acciaccato centravanti che aspetta il suo turno partendo dalla panchina conscio degli sprazzi di gioco e gioventú che puó ancora dare al suo pubblico, per uno in particolare è venuto il momento del riscatto. Il lungo viaggio è come una partita importante, ci si affida ai veterani. Non è piú il tempo di trolleys da fighetti, né di giganteschi bauli da emigrante (quelli dalla Tunisia devono ancora arrivare), né di valige Roncato Sfera per i viaggi metropolitani. E’ venuto il tempo proletario, il tempo dello zaino, che aspettava da ben due anno di sentirsi dire di iniziare a riscaldarsi. E’ ancora un po’ stordito e confuso. Sta pensando ai postumi di intervento articolare (cucitura rifatta dalla Pelletteria Fior) oppure a tutti gli sballottamenti che ha dovuto subire nei bus cambogiani o sui battelli in Laos. Forse non ha voglia di uscire da casa, sembra depresso, vuoto e fiacco, un po’ polveroso. Ma a chi dubita che ce la farà, io dico che di qui a domani sera sarà pieno, rotondo e con una voglia matta di salire sul tapis rouland del check in di Veneza.
Backpacker

venerdì 2 aprile 2010

Ogni lunga marcia inizia con un primo passo. Ogni lungo viaggio inizia con un primo biglietto, nel mio caso d'aereo. Grazie alla preziosa collaborazione di Virago viaggi (gli occhi piu' belli di Castelfranco) il risultato è il seguente:
Andata: Venezia-Guatemala City l'8 aprile
Ritorno: Buenos Aires-Venezia il 30 ottobre
In mezzo un grande boh fatto di bus, treni, navi, aerei, pulmini sgangherati, camminate, carri, biciclette, motorini, canoe, il tutto in attesa del teletrasporto.
Capitano Kirk