Con alle spalle l’imponente minareto della moschea Hassan II, decine di coppie di varie età guardano le onde dell’oceano arricciarsi una dopo l’altra sugli scogli. Il cielo è blu, al largo delle navi stanno stancamente aspettando di attraccare e la luce del sole è di un‘intensità rara, accecante. E’ un primo pomeriggio di un martedì di quasi inverno. La gente si attarda senza uno scopo preciso, camminando sugli scogli che tra breve saranno coperti dall’acqua: l’alta marea sta arrivando.
A pochi passi dalla grande moschea, inizia uno dei quartieri popolari di Casablanca. Qui non ci sono turisti e il lato esotico del Marocco lascia il posto a qualcosa di meno oleografico e più reale: la povertà. Casablanca è il posto degli opposti: ristoranti chic sulla corniche e angoli di strada in cui si mangia furtivamente e in piedi; il centro commerciale più grande d’Africa e i mercati in mezzo al fango; l’élite francofona e secolare e l’islamismo montante.
Nella vecchia medina, un dedalo di viuzze che si intersecano e girano su se stesse, si vedono barbe lunghissime, portate con un certo orgoglio. Ci sono anche vari tipi di velo, fino ad arrivare al modello estremo, quello alla Dart Vader. La gente qui non è molto abituata agli stranieri e vice versa (i due europei che incrocio mi salutano come se mi conoscessero da tempo, quasi sollevati all’idea di vedere una faccia amica).
Decido di fare un po’ di shopping, svaligiando un negozietto di olive e poi proseguendo verso i datteri, l’uvetta, i limoni canditi e le mandorle. Decido anche di investire in uno stock di mutande Calvin Klein (chiaramente originali) per non tradire la mia personale tradizione di comprare biancheria intima solo ed esclusivamente in Maghreb. Quando ho finito rientro in albergo, costeggiando il mare, mentre il cielo si tinge di rosso in attesa del tramonto.
Casa non è bella ma piace.
giovedì 22 dicembre 2011
giovedì 15 dicembre 2011
Ritorno
Quando ho messo piede sull'asfalto del parcheggio dell'aeroporto di Bole e ho annusato l'aria fresca e l'odore di montagna mi sono sentito stranamente allegro. L'aeroporto era illuminato a giorno e di fronte a me c'erano i profili irregolari di edifici cresciuti come funghi. Dopo più di cinque anni sono tornato ad Addis Abeba, la città africana in cui ho vissuto sei mesi e che più di tutte ha lasciato un segno nella mia memoria. L'Etiopia la si ama o la si odia (a volte le due cose contemporaneamente), ma di sicuro non lascia mai indifferenti.
Come in ogni ritorno, tutto è cambiato e tutto è rimasto come prima. Ho fatto un po' fatica a riconoscere certe strade, certi quartieri. Un po' perché la mania di costruzione è diventata sport nazionale, un po' perché la mia memoria non riusciva a seguire il dedalo di strade che si intersecano in maniera irregolare, senza rispetto per la geometria.
Ma basta una cena per ritrovarsi in un ambiente familiare, anche se tutte le facce attorno al tavolo sono nuove. Non serve conoscere le persone quando ci sono le classiche tipologie della cooperazione italiana. E così si ritrovano i volontari arrivati di recente, animati da un misto di idealismo e di ambizione. Non sanno ancora se vogliono fare del bene oppure aspirare ad un contratto con una grande agenzia internazionale.
C'è chi invece la decisione l'ha presa da tempo e parla di "P table", ovvero la categorizzazione standard del livello di responsabilità (e di stipendio) del personale delle Nazioni Unite. Dopo la P è sempre bene avere un numero verso il 4 o il 5. In quel caso l'invito ai ricevimenti delle ambasciate è quasi automatico, altrimenti bisogna lavorare un po' sulle amicizie trasversali che possono aprire orizzonti insperati nell'ambiente degli espatriati annoiati d'Africa.
E infine ci sono quelli che il "cooperante" lo fanno per lavoro e che non sanno se lo faranno per sempre o se è giunta ora di cambiare aria, che si chiedono cosa mai potrebbero fare in Italia e se veramente avrebbero voglia di lavorarci, o se invece non sarebbe meglio perdersi in un'altra avventura dall'altro lato del pianeta, con la paura di non ritrovarsi. I dubbi esistenziali sono le uniche certezze degli umanitari.
Mangiando in un ristorante un po' più in alto dei duemila metri di Addis, con vista sulle luci della città e sui suoi usi e abusi edilizi, mi rendo conto che sono un animale strano, con un passato ed un presente che si riconciliano a mala pena. Un quadro pentagonale oppure ovale, quelli difficili da incorniciare. Ma questo non mi pesa, anzi mi conforta un po', perché più forme si hanno e più è possibile fare parte di mondi diversi e farli propri.
Per quanto abbia passato poco tempo in Etiopia, questo posto affascinante, illeggibile e complesso è un po' mio. Riconosco parole, visi, sapori. E', nel suo piccolo, un ritorno a casa.
Come in ogni ritorno, tutto è cambiato e tutto è rimasto come prima. Ho fatto un po' fatica a riconoscere certe strade, certi quartieri. Un po' perché la mania di costruzione è diventata sport nazionale, un po' perché la mia memoria non riusciva a seguire il dedalo di strade che si intersecano in maniera irregolare, senza rispetto per la geometria.
Ma basta una cena per ritrovarsi in un ambiente familiare, anche se tutte le facce attorno al tavolo sono nuove. Non serve conoscere le persone quando ci sono le classiche tipologie della cooperazione italiana. E così si ritrovano i volontari arrivati di recente, animati da un misto di idealismo e di ambizione. Non sanno ancora se vogliono fare del bene oppure aspirare ad un contratto con una grande agenzia internazionale.
C'è chi invece la decisione l'ha presa da tempo e parla di "P table", ovvero la categorizzazione standard del livello di responsabilità (e di stipendio) del personale delle Nazioni Unite. Dopo la P è sempre bene avere un numero verso il 4 o il 5. In quel caso l'invito ai ricevimenti delle ambasciate è quasi automatico, altrimenti bisogna lavorare un po' sulle amicizie trasversali che possono aprire orizzonti insperati nell'ambiente degli espatriati annoiati d'Africa.
E infine ci sono quelli che il "cooperante" lo fanno per lavoro e che non sanno se lo faranno per sempre o se è giunta ora di cambiare aria, che si chiedono cosa mai potrebbero fare in Italia e se veramente avrebbero voglia di lavorarci, o se invece non sarebbe meglio perdersi in un'altra avventura dall'altro lato del pianeta, con la paura di non ritrovarsi. I dubbi esistenziali sono le uniche certezze degli umanitari.
Mangiando in un ristorante un po' più in alto dei duemila metri di Addis, con vista sulle luci della città e sui suoi usi e abusi edilizi, mi rendo conto che sono un animale strano, con un passato ed un presente che si riconciliano a mala pena. Un quadro pentagonale oppure ovale, quelli difficili da incorniciare. Ma questo non mi pesa, anzi mi conforta un po', perché più forme si hanno e più è possibile fare parte di mondi diversi e farli propri.
Per quanto abbia passato poco tempo in Etiopia, questo posto affascinante, illeggibile e complesso è un po' mio. Riconosco parole, visi, sapori. E', nel suo piccolo, un ritorno a casa.
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