sabato 30 ottobre 2010

Buenos Aires

Buenos Aires é una Parigi in cui si mangia italiano e si parla spagnolo. Qui siamo in Europa, l'America Latina é lontana, marginale, periferica. Questo é il centro del mondo, o meglio un ritaglio di mondo antico nel pieno del mondo nuovo.
Dopo mesi di almuerzos nei "ristoranti" piú improbabili, vedere tanta abbondanza di caffé, locali, menu, design é un piccolo shock culturale. Come un vero campagnolo incollo il naso alle vetrine, fisso la gente per strada, mi schiaffeggio per essere sicuro di quello che vedo. La Paz é un ricordo.
Gli argentini sono argentini, quasi tutti li odiano, ma a me piacciono. Mi fa tenerezza la loro retorica molto italiana (si parla per il gusto di sentirsi parlare), il loro senso di superioritá innato, l'accento, le parole che esistono solo qui (laburar invece di trabajar, fiaca invece di pereza, boliche invece di discoteca). La medaglia d'oro per la migliore espressione va alla frase "soy Gardel con una guitara electrica".
Vicino a Plaza de Mayo, la piazza centrale dove le madri dei desaparecidos hanno lottato per decenni contro l'impunitá ed il silenzio, c'é una chiesa che nel frontespizio ha quattro statue. C'é San Francesco in posizione principale e sotto di lui ci sono Dante Alighieri, Giotto e Cristoforo Colombo (!). Ma il cuore dell'italianitá é La Boca, il quartiere costruito dagli immigrati italiani all'inizio del ventesimo secolo.
E' mercoledí, ma non c'é nessuno per strada. Oggi é giorno di censo e - per un'organizzazione assurda - tutto é chiuso per legge. La gente deve stare a casa ad aspettare di essere censita (anch'io, nell'ostello, sono stato debitamente contato). Non c'é un ristorante aperto, non un negozio. Chi - come me - sta girando la cittá, dovrá aspettare le otto di sera per mangiare. La Boca é un quartiere popolare, senza molti fronzoli, e forse per questo molto vero. La Bomboniera, lo stadio del Boca Juniors, é una presenza costrante, anche quando é vuota. Per strada si respira calcio, unica attivitá di questa giornata di paro.
Quando torno verso il centro, la Casa Rosada, il Palazzo Presidenziale, é circondata da polizia. Il bandierone che sventola sul retro é a mezz'asta. E' morto Kirchner, l'ex-Presidente, marito dell'attuale Presidenta. La gente aspetta il turno per entrare nella camera ardente con dei fiori. La strada d'accesso é bloccata al traffico e varie persone stanno camminando verso la piazza. Si forma una coda. C'é un venditore di hot dogs che sta facendo affari. Appare un venditore di bandiere: una bandiera dieci pesos. Arrivano anche venditrici ambulanti di fiori: rose e garofani (Kirchner era peronista-socialista). Le strade laterali sono piene di furgoni di televisioni locali con generatori che fanno un rumore bestiale. I gornalisti si pettinano, si guardano allo specchio, si sistemano la giacca. I cameramen - come sempre - hanno l'ara annoiata di chi ha visto di tutto e non vede l'ora di poter andare a farsi una birra in santa pace.
Il giorno dopo la pìazza deborda di gente. Una fiumana umana si incammina lentamente verso la camera ardente. Ci sono striscioni "fuerza Cristina", un pupazzo gigante con la faccia della Presidenta, cartelli che dicono "Nestor, Evita e Perón juntos en el cielo". Mancano solo il bue e l'asinello. La folla rumoreggia. Partono cori da stadio, sventolano bandiere. Uno schermo gigante mostra le immagini della camera ardente: la gente entra, alcuni urlano frasi di sostegno alla Presidenta, altri fanno dei piccoli discorsi: pugni alzati o mani che mandano baci alla bara.
La sera, nel Puerto Madero, il quartiere chic che ha preso il posto dei vecchi docks del porto, Nestor Kirchner é giá dimenticato. La gente riempie i ristoranti, quintali di carne stanno cuocendo sulla brace (la carne argentina ha ritardato di almeno dieci anni al mia decisione di diventare vegetariano). Dopo cena si beve e dopo ancora si balla. L'Asia Cuba é the place to be. La musica é disco-techno, la pista ci mette un po' a riempirsi, ma quando il DJ mette i grandi classici tutti iniziano a dimenarsi, nel fumo illuminato da luci stroboscopiche. Tutte le discoteche del mondo sono uguali e in tutte c'é la stessa musica. Niente salsa, niente merengue. Questa é Londra non Cali.
Gaucho

giovedì 28 ottobre 2010

Bus e frontiere


Il viaggio è come lo show: it must go on. Alle sei di pomeriggio sono di fronte ai trasporti La Veloz, che gestisce i traxi che vanno a Bermejo, alla frontiera con l'Argentina. Mentre l'auto segue le curve della strda, il cielo diventa di fuoco e i profili scarni delle montagne si tingono di varie tonalità di blu, mentre i vitigni scorrono ai lati della strada. Si fa buio pesto su una strada senza lampioni. Ogni tanto appare all'improvviso un asino, una mucca, una capra, un cane o delle persone. L'autista impreca contro i padroni degli animali e racconta tutti i suoi aneddoti di incontri ravvicinati con mammiferi suicidi. Poi armeggia per un quarto d'ora con un sacchetto di foglie di coca, selezionando le migliori nel tratto di strada con più curve. In sottofondo c'è una musica locale che parla di mucche, cavalli e donne ed è un misto tra musica llanera colombo-venezuelana e una ranchera messicana. In altre parole una vera schifezza.
Al posto di blocco prima di Bermejo scendo per le formalità doganali. In dodici secondi netti ho il visto d'uscita sul passaporto. Ripartiamo. Quando il taxi si ferma, l'autista mi informa - con faccia innocente - che abbiamo passato da un pezzo la frontiera e che non sapeva che volevo andarci (certo, colleziono visti d'uscita per purto piacere!). Riprendo un altro taxi, con un autista ancora piú autistico del precedente, che semplicemente non ascolta quello che gli dico e tenta di indovinare a caso. Riformulo la domanda in vari modi: "frontiera argentina", "passaggio verso l'Argentina", "il posto da cui partono i bus per Buenos Aires". Il tassista sembra spiazzato da tante varianti e alla fine mi lascia di fronte ad un cartello con scritto "boleteria". Per due bolivianos compro un biglietto che mi permetterà di attraversare un fiume su una barca a motore. Dall'altro lato una baracca con un cartello "migracòn" mi dice che sono in Argentina. Dentro, tre pingui gendarmi che mi ricordano i sottuficiali della mia visita militare (non proprio la memoria più bella della mia vita) stanno guardando una televisione con volume troppo alto, bevendo mate e mangiando empanadas. Ci vuole un po' prima che il più atletico dei tre prenda il mio passaporto e inizi una lotta incruenta ma agguerrita contro il computer. Quindici minuti dopo avrò il mio visto d'entrata.
Ora devo trovare Flecha Bus che dovrebbe portarmi a Buenos Aires in 28 ore più o meno: sono le undici di sera. L'ufficio è illuminato, ma l'uomo un po' rincoglionito  che sta guardando la televisione non sa niente. Bisongna aspettare "el muchacho" che è andato a cenare, ma non si sa dove. Dopo una mezz'ora scende da una moto un ragazzotto cicciottello che mi spiega cosa mi aspetta: taxi per Oran (Camus non c'entra), bus da Oran a Guermes (partenza alle 2 arrivo alle 5) e bus da Guermes per Buenos Aires (partenza alle 8.30 arrivo alle 4 del giorno dopo). Evviva!
Il tassista che porta me e il ragazzotto ad Oran sta ascoltando - in omaggio a tutti gli stereotipi - una trasmissione radiofonica dedicata al tango. Ad Oran arriva anche la sorella del muchacho che mi spiega i suoi problemi di salute: ha una valvola cardiaca artificiale, deve prendere anticoagulanti e a causa di un incidente in moto ha una caviglia che sembra un melone. Saliamo sul bus. Alle cinque l'aiuto autista mi sveglia. La stazione di Guermes è mezzo addormentata. Ci sono una decina di persone che stanno aspettando e un ubriaco molto rumoroso che urla cose incomprensibili al tipo della bigliettertia che lo ignora. Mi siedo sull'unica panchina vicino a cui qualcuno ha vomitato di recente. Verso le sei vado in una specie di caffetteria dove ordino un sandwich di lomito (carne, mayonese, uovo fritto) e un mate. La televisione è accesa e guardo la fine della partita del campionato francese di rugby Toulouse - Stade Français, che ha la solita maglietta rosa a motivi floreali e in cui gioca il quasi compaesano Mauro Bergamasco (il fratello Mirko è assente). Per la cronaca vince il XV dello Stade per 22 a 15, nonostante quattro calci piazzati e un drop di Jonny Wilksinson.
Alle otto e mezzo riparto sul bus Tata Rápido. Il facchino che carica il mio zaino vuola una propina e si arrabbia quando non gliela do. L'Argentina sarà anche uno degli stati più sviluppati dell'America Latina, ma è anche l'unico in cui le compagnie di trasporto non pagano i facchini. Il viaggio da Guermes a Buenos Aires è un infinito paesaggio piatto di soli pascoli. Per ore e ore si vedono solo alberi, prati e mucche. Ogni tanto una città immersa nel torpore domenicale, un po' triste e decadente, con molta immondizia lasciata qua e là. La pausa pranzo si fa in un ristorante anni '70: uno stanzone immenso prieno di tavoli e sedie in similpelle. Anche il cibo - cotoletta con purè - sembra sia stato cotto alla stessa epoca. I prezzi, me ne sono già reso conto, sono almeno il doppio o il triplo di quelli boliviani. Il pomeriggio passa in un secondo, con tre film guardati a spezzoni ascoltando la mia musica, con una sensazione di deja vu. A tratti mi sento come in un video musicale: the tormented singer watching the landscape pass by.
Poi verso le nove di sera il miracolo. Dopo mesi di viaggi in bus - molti quelli notturni - avviene il fatto strano, più che altro non sperato: mi addormento. Non è il sonno semicosciente interrotto da luci e rumori, tra una frenata e l'altra. Questo è vero e proprio dormire, per ore, senza memoria alcuna. Mi sveglio alle tre di mattina, felice. Verso le quattro il bus arriva a El Retiro, la stazione di Buenos Aires che sembra un aeroporto: tirata a lucido, caffè aperti 24 ore e anche delle edicole (l'ultima l'ho vista a Rio de Janeiro tre mesi fa) con dei veri giornali patinati. Per quattro dollari prendo un mate e due mini-croissants aspettando di poter arrivare in albergo senza il rischio di farmi tagliare a pezzi dal guardiano di notte. Sono le sei di mattina. Delle uime 85 ore solo 8 le ho passate in un letto .
Sleeper

martedì 26 ottobre 2010

Tappa di trasferimento

Dopo essere diventato un bastonicno Findus a causa dell'altipiano andino, mi sto lentamente scongelando a Tarija, nel sud della Bolivia che - nonostante sia a più di 2000 metri - ha un clima da primavera inoltrata da far venire i brividi (di piacere). Via la giacca a vento, via i maglioni, via ddirittura la felpa: nudi alla meta.
Non solo qui fa caldo, ma sembra di essere in Europa, o meglio in Argentina, che è poi la stessa cosa. Belle donne per strada in vestiti succinti, vino nei bar, prosciutto nei ristoranti e vecchietti che si prendono in giro seduti ai tavolini della piazza centrale bevendo birra. La giornata soleggiata (e l'albergo decente) fanno dimenticare l'ennesima piccola odissea per arrivare qui da La Paz: il bus che parte alle cinque di sera ed arriva alle undici di mattina, la fermata infinita ad Oruro a caricare trenta casse da concerto di un metro e mezzo per un metro (come siano entrate nel bagagliaio ancora non l'ho capito), la fermata alle tre di mattina per svuotare vesciche troppo piene, quella alle quattro per fa salire la mia vicina di sedile (per fortuna molto bassa e non troppo grassa), quella alle otto per rendere il propritario di un bagno pubblico miliardario nel giro di un quarto d'ora, le salite e discese vertiginose per strade sterrate attraversando minuscoli ponti traballanti, il vecchietto sdentato con la bocca piena di foglie di coca che vuole fare conversazione, i paesaggi da film western in cui mancano solo gli indiani e la diligenza, i banchi di nebbia a 4000 metri e - non dimentichiamolo - ore ed ore ininterrotte di orrida cumbia, la musica sudamericana più insopportbile dopo il reggeton.
Nessuno

sabato 23 ottobre 2010

Quei 198 metri in più

6088 è un numero che può dire poco. Ma per chi non riesce ad evitare di competere con se stesso, 6088 metri vogliono dire un altro record personale. Potevo non accettare la sfida?
Il mio compagno di avventura per la scalata al Huayna Potosi è un pannocchione austriaco che durante tre giorni non riuscirà a dire una cosa divertente e/o interessante. Assieme alla guida arriviamo a 4.700 m al "campo base", nome un po' troppo pomposo visto che ci si arriva in macchina. Per fortuna arrivano altri escursionisti per cui la vita sociale si prospetta piú rosea del previsto. Il pomeriggio è dedicato ad acclimatarsi, fare un giro per il ghiacciaio e giocare un po': con imbrago, corda e picozza facciamo delle prove di scalata su una parete di ghiaccio verticale. Sarà che è da un po' che non arrampico, oppure a causa dell'altitudine, ma il primo tentativo va maluccio. Il mio stile "culo in fuori" è poco efficace e dopo qualche minuto ho le braccia che non si muovono più. Lascio il campo al pannocchione che - con molta fatica - riesce ad arrivare in cima. L'arrivo di altra gente (tra cui ben quattro ragazze) non mi lasciano scelta: bisogna arrivare in cima, costi quel che costi. Mi lego di nuovo e questa volta seguo il consiglio della guida: "cojones contra la pared". Tra varie cadute e scivolate riesco comunque ad arrivare in cima. Le braccia, però, non le sentirò per le prossime tre settimane.
La cena al campo base è, ci mancherebbe altro, molto basica. Attorno alla tavolata si incrociano conversazioni in inglese, francese e spagnolo. L'atmosfera nei rifugi è sempre speciale, permeata di un'attesa leggermente elettrizzante, ma allo steso tempo rilassata. Anche le più banali conversazioni di viaggio (il Perù, il salar di Uyuni, chi è stato al lago Titicaca?) diventano interessanti. Dopo cena dò un'occhiata alla partita di scacchi tra una guida e la figlia della padrona del rifugio, poi mi metto a leggere il libro che ho comprato a Copacabana: "Night" di Elie Wiesel, che parla dell'odissea dell'autore in vari campi di concentramento polacchi. Alla parete del rifugio c'è una carta geografica con le bandiere di tutti i paesi, il loro nome e la loro capitale. C'è una capitale che è cancellata, a proposito. Al posto di Tel Aviv, una mano sconosciuta ha scritto una parola di cui si distinguono solo le ultime lettere "alen". Avrei voglia di prendere una penna e cancellare "Jerusalem" per riscrivere "Tel Aviv", perchè un popolo che ha sofferto tanto dovrebbe avere più rispetto per il dolore degli altri.
La notte si dorme poco e la mattina si fanno degli zaini che sembrano dei grattacieli. Il mio, tra scarponi da ghiacciaio, vestiti, sacco a pelo, acqua e un po' di cibo deve pesare attorno ai venti chili. Lasciamo i 4700 metri per andare al secondo rifugio a 5200, questa volta a piedi. Pensavo che la salita mi avrebbe massacrato, ma invece salgo senza troppi problemi. Si fa una sola pausa, verso 4900, dove due donne vestite in abiti tradizionali, in una casetta di sassi senza tetto, in mezzo a roccie e neve, fanno pagare l'"entrata" alla montagna: un dollaro e mezzo.
Il rifugio "campo alto roca" ha la forma di una chiesetta di montagna. Qualche alpinista appena rientrato dalla cima sta mangiando qualcosa con faccia stravolta. Il rifugio è avvolto dalla nebbia e fa un freddo pungente. Non resta altro da fare che rimanere nel sacco a pelo ad aspettare la cena, mentre lo stanzone in cui si dorme si riempie rapidamente di gente. Quando sarà ora di andare a dormire non rimarrà un centimetro libero sul pavimento e la notte si riempirà di odori e rumori. Nessuno chiuderà occhio.
La sveglia è per mezzanotte. I sacchi a pelo si muovono come grossi vermi per far uscire braccia e gambe. Una ventina di zombie cercano vestiti e attrezzatura nella penombra attraversata dai fasci delle lampade frontali. Dopo venti minuti ho indosso tre paia di pantaloni, cinque strati tra maglie e giacca a vento, due paia di calzini, un imbrago, berretto, casco e guanti. La colazione si mangia in fretta, senza appetito. La mente è altrove. La mente è a 6088 metri.
Quando usciamo, la luna ci accoglie con una luce calda riflessa dalla neve. Orione dorme sonni tranquilli in mezzo al cielo australe. Si montano i cramponi, ci si lega con la corda, si seguono le tracce di chi è partito prima di noi. Si cammina lenti, con passo cadenzato, seguendo il fascio della torcia, la respirazione che segue i movimenti delle gambe. La salita è ripida ma non massacrante, ogni tanto si ha l'energia di guardare le montagne e le stelle. In lontananza si vedono le luci tremolanti di La Paz. Camminiamo per un'ora senza fermarci: due passi, un respiro. Poi la salita si fa più ripida: un passo, un respiro. Passiamo dei crepacci, dei piccoli pezzi più tecnici: picozza, puntare i cramponi, la corda si tende, fiatone. Via via riprendiamo quelli partiti prima di noi. Nessuno sta correndo, solo andando al suo ritmo.
Il pezzo più duro dell'ascesa sono gli ultimi venti minuti, dove la pendenza non perdona. Si vede la cima, è lì vicino, ma le gambe sono di piombo, l'aria non esiste. Respirare, respirare, respirare. Alle cinque e cinquanta siamo in cima. Il sole non è ancora sorto, ci stava aspettando. In pochi minuti l'aria diventa rossa, i profili delle montagne innevate si fanno più nitidi, si riesce a vedere tutto attorno per chilometri: laghi, ghiacciai, vallate. La cima si fa via via meno esclusiva. Non c'è più solo il francese arrogante che ha pagato per farsi portare  il suo zaino al secondo rifugio dalla moglie della sua guida. Arrivano gli altri, con le facce pietrificate in una smorfia di fatica e di vittoria. Mancano alla conta solo tre persone, che sono dovute rientrare a causa dell'altitudine o della fatica. Tempo per le foto, per le pacche sulle spalle, poi si scende.
Il sole è alto nel cielo, la luce riflessa dalla neve accecante. Una sensazione di intenso piacere mi pervade. Si scende scivolando e guardando il paesaggio. Dopo poco inizia a fare caldo. Ci si ferma a togliersi uno degli strati a cipolla. Il caldo si fa più intenso, il sole implacabile. Scendere non è più un piacere: caldo, fatica, l'austriaco che cammina lento e la corda che intralcia i passi. In poco tempo la discesa è un vero e proprio calvario. Non si riesce a credere che abbiamo camminato tanto nel buio della notte. I passi si fanno pesanti e la neve si fa pesante, attaccandosi al fondo degli scarponi. Il rifugio appare in fondo alla discesa, ma i minuti che ci separano da lui sembrano interminabili. Quando arriviamo alla fine del giacciaio e ci togliamo corda e cramponi ci sentiamo liberati. Cinquanta metri ci separano dal rifugio, ma sono in salita. Quando riesco a sedermi sulla prima sedia che trovo, il mio corpo si ferma, immobile. Dovrebbe finire di svestirsi, togliere gli scarponi, cambiare la maglietta, ma rimane  immobile, alla ricerca di qualche grammo residuo di energia.
Ad ogni salita corrisponde una discesa.

giovedì 21 ottobre 2010

Nella vallata della pace

Il colpo d'occhio di La Paz, arrivando in bus, è da far perdere il respiro, e non solo per i 3.600 metri che ne fanno la capitale più alta del mondo.I versanti della vallata sono letteralmente ricoperti da una moquette di costruzioni di mattoni grezzi (l'intonaco non è di moda in Bolivia), che non lasciano neanche uno spazio libero: non un albero, non un'aiuola. In confronto, le costruzioni abusive sui fianchi del Vesuvio appaiono come delle ville venete.
A prima vista La Paz sembra una specie di inferno su terra. Non é cosí. Nella realtà è molto accogliente e gentile con i nuovi arrivati. Non è bella, ma la gente per le strade che vende di tutto a tutte le ore, le migliaia di minibus che percorrono le stradine in salita sgasando e strombazzando, il sole che appare e scompare come una star di Hollywood cambiando il paesaggio (e la temperatura) in un microsecondo, i mercati strapieni di gente, tutte queste cose assieme la rendono unica.
Il cinema ¨16 di luglio¨ è un immensa sala da duemila posti, con le pareti ed il soffitto ricoperti da centinaia di cartoni porta-uova. Alla sessione delle nove e mezza, a vedere il film argentino "Aparecidos" che mischia horror psicologico alla dittatura degli anni 80 (sorpendentemente riuscito) non c'è nessuno. La gente, il sabato sera, cammina per le strade. Tra mezzanotte e l'una inizia ad entrare nei locali: c'è il Mongo's, quello fighetto che riesce a mala pena nell'intento, il Traffic con la musica house dove c'è solo qualche gringo che fuma sigarette non-stop, il Mama Diablo che fa musica latina dal vivo dove il buttafuori non fa entrare un ubriaco troppo vivace ed il Target Urbano, il locale alternativo dove un gruppo rock scopiazza i Cranberries in versione locale. Ma la stragrande maggioranza delle persone, il sabato sera, si dedica alla Paceña, la birra nazionale. Le strade di La Paz si trasformano in orinatoi pubblici e in dormitori a cielo aperto per chi non riesce ad arrivare a casa in tempo. Se ci si sveglia presto la mattina, li si ritrova ancora lì, addormentati per terra, con posture da cadaveri colpiti da un fulmine. Come resistano al freddo della notte resta un mistero.
Il biglietto per vedere il gruppo andino che si definisce "fuerza tellurica de los andes" costa un dollaro e mezzo. Quello più caro ne costa tre. Il gruppo non si risparmia e - per più di due ore - suona senza pause melodie andine rivisitate, con gruppi folklorici che ballano sul palco con vestiti multicolori. Non è uno spettacolino kitch per turisti (gringos in giro non ce ne sono). Il teatro è pieno di paceños che battono le mani a ritmo e applaudono con più foga ogni volta che uno dei musicisti fa un cenno. Qui la musica tradizionale è la vera musica, ascoltata, ballata, suonata praticamente da tutti.  
La domernica mattina si fa il bis. Sulla strada principale di La Paz c'è gente seduta sui muretti e venditori ambulanti che fanno affari. Passa una banda seguita da un gruppo di danze popolari. Gli uomini indossano enormi maschere che rappresentano spiriti maligni, le donne larghe gonne colorate. Nè la banda nè i ballerini vanno molto a tempo, ma la perfezione non è caratteristica boliviana. I ballerini bevono birra e mangiano degli snack tra una giravolta e l'altra. Passa il primo gruppo, poi un secondo, un'altra banda ed un terzo. I vestiti includono elementi tradizionali ad altri visibilmente importati: a splendidi tessuti artigianali si mischiano cravatte, cappelli a bombetta, stivali con la zeppa in stile travestito e minigonne vertiginose. La tradizione non é un concetto statico, ma evolve con il tempo.
Illimani

domenica 17 ottobre 2010

Il lago di Dio

Dio è nato sull'isola del Sole nel lago Titicaca. Il suo nome è Viracocha e - secondo gli Inca - ha creato il mondo. Non è chiaro come sia potuto nascere da un posto che avrebbe dovuto creare dopo la sua nascita, ma è meglio non cercare il pelo nell'uovo. Sia come sia, il lago Titicaca, con la sua luce accecante, l'acqua blu scuro, i contorni di montagne innevate, la sua aria rarefatta e sempre pungente emana una sensazione di intensa spiritualità che non lascia indifferente nanche uno scettico e un ateo inveterato come me. Il posto è speciale, punto. Sia che uno cammini per le rive brulle e cosparse di piccoli campi terrazzati dove in questo momento i contadini stanno arando con i buoi e seminando a mano, oppure che lo si attraversi su una barca a motore lentissima, non si sa da che parte guardare. Le montagne che entrano nell'acqua disegnano curve su tutto l'orizzonte, il cielo ti avvolge, l'acqua rifrange i raggi del sole.
Titicaca è la distorsione spagnola di Titikarka, ovvero roccia del giaguaro, divinità adorata da popolazioni preincaiche, che vedevano in una roccia dell'isola più grande il profilo di un gatto (ci vuole un po' di immaginazione, ma più o meno...). Poi arrivarono gli inca con un dio molto più potente: il sole. Infine arrivarono gli spagnoli che si rubarono tutto l'oro dei templi e dimostrarono con i fatti qual era il dio più potente di tutti. Nonostante siano passati più di 500 anni dal "ravvedimento" dei popoli indigeni, il lago Titicaca rimane meta di pellegrinaggi. L'isola del sole è il pellegrinaggio obbligato di tutti i turisti che passano di qua, mentre la Vergine di Copacabana è la meta di pellegrinaggio per i fedeli che vengono a chiedere la grazia, accendendo una candela in una cappella semibuia e con il tetto che fa acqua, mentre la chiesa del seicento lì a fianco è totalmente snobbata.
Inti

mercoledì 13 ottobre 2010

Bolivia en passant

La Bolivia è una delle patrie nascoste e insospettabili degli scacchi. Non ha prodotto Grandi Maestri, nè organizza tornei internazionali. In compenso la gente gioca. A Coricoro, un paesino a tre ore da La Paz, sulla piazza principale, il sabato mattina, c'è un torneo. Ci sono i juniors che giocano seduti su delle panche e gli adulti che hanno diritto ad un tavolino di metallo e a delle sedie. Una signora con in mano un foglio e una penna annota nomi e risultati di grandi e piccini. Come ogni gruppo di scacchisti che si rispetti, anche qui c'è un'amalgama di zoppi, ciechi, sordi, asociali cronici e pazzi di ogni tipo. Noi scacchisti siamo il gruppo di "diversamente abili" più ammirato al mondo. Anche qui passanti e curiosi si fermano ad osservare con sguardi strabiliati il muoversi dei pezzi, cavalli che mangiano alfieri, regine che danno scacco, il mistero dell'arrocco, i tic incontrollati dei giocatori, nascondendo a mala pena un leggero senso d'inferiorità. Se capissero qualcosa di scacchi si renderebbero conto che più che arte si tratta di piccolo artigianato, più che intelligenza matematica c'è furbizia. Mi viene in mente il circolo scacchistico Giorgione, in cui mi sono fatto massacrare per anni dal signor Conz, talento incompreso degli scacchi che - lamentandosi della moglie e degli acciacchi dell'età - cercava di farti scacco matto con una ferocia inaudita e con tatticismi degni di Tal.
Non posso trattenermi dal rimanere a guardare la gente giocare, finché non vengo invitato a sedermi anch'io. La signora con in mano il foglio mi recluta al volo perchè Raùl è scomparso ed hanno bisogno di un giocatore. Mi mette a giocare con un signore con una grossa stampella che cade immediatamente in un piccolo tranello d'apertura (1. e4 e5; 2. Cf3 Cf6; 3. Cxe5 Cxe4 (?); De2 Cf6 (??)) e mi regala la regina dopo quattro mosse. In nome di Raùl vinco la partita. I passanti guardano ammirati il gringo vincente, mentre l'instancabile signora recluta un altro giocatore per una partita amichevole. Si chiama Roberto, è calabrese e vive qui da abbastanza tempo da non riuscire più a distinguere l'italiano dallo spagnolo. Roberto parla poco e non gioca male, ma lascia in presa un cavallo. Quando vinco mi spiega che avrei potuto vincere prima prendendo un pedone en passant. E' un classico degli scacchi - e forse della vita - vedere le mosse degli altri e non le proprie.
Fuori dalla piazza di Coricoro c'è calma. Le stradine di acciottolato si trasformano in piccoli campi da calcio in pendenza per bambini con buoni polmoni (in questi casi è sempre meglio giocare dall'alto verso il basso). Salendo verso la montagna le case si diradano. la strada diventa sentiero, gli edifici arbusti. Si attraversano dei campi rubati alla montagna in cui donne ricurve zappano la terra. Le piantine sono piccole ed hanno delle foglie piccole e molto verdi. Le piantine sono di coca e servono - almeno ufficialmente - a produrre foglie di coca da masticare, attività tradizionale di praticamente tutti i boliviani, in particolare i minatori, muratori e chiunque faccia fatica. Il motto è coca sì, cocaina no. I narcotrafficanti ringraziano.
Kasparov

domenica 10 ottobre 2010

Sogni di sale

Il giro per il salar de Uyuni inizia con un'esperienza musicale surreale: la versione disco di "Voglio vederti danzare" di Battiato (secondo Wikipedia, la versione fu presentata nel 2003 al Festivalbar!). La musica è di Elois, l'autista della Land Cruiser Toyota un po' scassata di cui si aprono due porte su quattro. Sullo stesso CD c'è anche una versione de l'"Italiano" di Toto Cutugno e una serie di altre canzoni orride. Essendo l'unico CD in macchina, passerà in circolo senza interruzione per tre giorni.
La macchina lascia Uyuni, un posto in cui l'unica attrattiva è un cimitero di vecchie locomotive a vapore utilizzate il secolo scorso sull'unico binario - ancora in funzione - che collega la Bolivia al Cile passando per le Ande. Poco lontano da Uyuni inizia uno dei paesaggi più strani al mondo: un lago salato che durante la maggior parte dell'anno diventa un deserto di sale grande più che l'Abruzzo, che rispecchia di un bianco accecante la luce del sole a quasi 4000 metri sul livello del mare. La macchina corre veloce in un silenzio irreale, per piste che si distinguono a fatica. In mezzo al salar non si vede altro che bianco, in tutte le direzioni. Poi via via dei profili di montagne appaiono con degli effetti ottici che le fanno vibrare e ne tagliano i contorni in modo da farle sembrare galleggianti. In mezzo al salar c'è la isla del pescado, chiamata così perche` a forma di pesce, che appare come un minuscolo puntino nero per poi diventare un enorme scoglio in mezzo al mare di sale, piena di capelli a spazzola. Quando ci si avvicina ci si rende conto che i capelli sono dei cactus centemari giganti, alcuni dei quali arrivano ai nove-dieci metri. Da in cima l`isola lo spettacolo è unico, indescrivibile, accecante.
Lasciamo l'isola del pesce per andare a dormire in un albergo di...sale. I mattoni sono dei blocchi estratti dal salar e anche il pavimento è di sale fino. Verso le sei cala il buio sul paesino di San Josè. In una penombra spazzata da un vento gelido, dei bambini danno dei calci ad un pallone in uno dei campi da calcio piú sconosciuti e piú alti al mondo. Assieme ad altri gringos cerchiamo di fare una partita, ma i ragazzini ci guardano scettici e indicano il cielo che sta diventando scuro. Di qui a breve la temperatura scenderà sotto zero ed è meglio tornare a casa il più presto possibile.

Il secondo giorno di viaggio passiamo per dei paesaggi montagnosi e desertici, ma mai monotoni. Le montagne brulle sono intervallate da varie lagune, tutte di colori diversi: verde, rossa, blu. In molte di queste lagune ci sono dei fenicotteri rosa che camminano con le loro buffe zampe che si piegano al contrario, rovistando il fondo basso e melmoso alla ricerca di cibo.
La seconda sera si dorme a 4.400 metri, ma mentre i vari gruppetti di turisti si sistemano nelle stanze spartane per la notte, lascio tutti per salire sulla montagna vicina, camminando per due ore contro un vento feroce, con la laguna che si fa sempre piú piccola. Quando il sole cala, il freddo più pungente che abbia mai sentito si manifesta come una coperta di ghiaccio. Ma più che il freddo, quello che fa paura è il fatto che il rifugio ha dei vetri da casa al mare, un tetto di plastica e naturalmente non è riscaldato. Sfidando la sorte, esco la notte a guardare le stelle, con la via lattea che disegna contorni bianchi così densi da sembrare nuvole. Quando rientro mezzo congelato tento di dormire tra le risate sguaiate di un gruppo di francesi che dopo una bottiglia di vino sembrano dei moscoviti che rientrano a casa alle quattro di mattina ed il respiro da serial killer del mio vicino di letto.
La sveglia è per le quattro e mezza. Due ore dopo, ancora rintronati dal sonno e dallo sballottamento della pista sterrata, cammineremo in mezzo al vapore sulfureo sparato in cielo da decine di geyser. Un modo come un altro per riscaldarsi un po', anche se più ci si sta, più i vestiti diventano umidi. Ma le sorprese non sono finite. Alle sette di mattina, con una temperatura ancora ben al di sotto dello zero, appare l'ultima laguna da cui sale vapore che rifrange i raggi del sole nascente, facendo apparire e scomparire fenicotteri ed altri uccelli che si avvicinano all'acqua calda. Qui c'è una fonte termale e, dopo colazione, svestendosi alla velocità della luce, ci si può fare il bagno. La sensazione di piacere nel fare un bagno bollente in un posto gelido è senza pari. Quando si entra si ha voglia di rimanerci per l'eternità.
Il resto della giornata è logistica. Accompagnamo una coppia finlandese alla frontiera con il Cile: una casetta in mezzo al deserto, con una sbarra alzata. Faccio un salto dalla parte cilena senza che nessuno se ne accorga. Poi si riparte. Sdraiato sul sedile posteriore della Land Cruiser vedo passare in senso opposto decine di altre jeep che sfrecciano verso la frontiera sollevando nuvole di polvere. L'immagine è da film, la sensazione quella di dejà vu. Le frontiere mi mettono malinconia e gli addii, anche se con persone con cui si sono passati un paio di giorni, mi mettono tristezza. La soluzione è chiudere gli occhi e ascoltare la versione remixata di "Voglio vederti danzare" che passa per la quarantesima volta.
Dopo otto ore anche il deserto finisce e Uyuni appare come un miraggio: piccolo, brutto e polveroso, ma al miraggio non si guarda in bocca. Ad Uyuni ci si può fare una doccia semi-tiepida per un dollaro e mezzo, mangiare carne di lama per tre dollari ed aspettare un bus notturno per La Paz in cui neanche le coperte di lana grossa riescono a dare un minimo di calore.
Butch Cassidy

martedì 5 ottobre 2010


Per vedere l'inferno non è necessario morire. Per andare all'inferno basta passare per Potosì, la città più alta del mondo. Nei fianchi del Cerro Rico, come tante incurabili ferite, si aprono dei buchi che entrano nella terra. Non c'è illuminazione, l'aria è piena di polvere, si cammina accucciati, a volte bisogna inginocchiarsi sulle piccole rotaie di metallo che servono a far passare dei vagoni carichi di materiale. I minatori li spingono a forza di braccia: due persone per quelli da una tonnellata, quattro per quelli da due. La discesa in una delle centinaia di miniere di argento non è per claustrofobici. Il cunicolo è stretto, sorretto da tronchi di legno che devono essere lì da decenni, si sbatte la testa ovunque (per fortuna che abbiamo il casco). Non ci sono scalini e a volte si scivola, in pochi minuti si è completamente coperti di polvere bianca. Nell'inferno di Potosì ci sono vari gironi, che si chiamano livelli. Il primo è quello in cui si respira meglio, poi via via che si scende, l'ossigeno inizia a mancare. I lavoratori del quarto livello devono immettere aria prima di iniziare a picconare la roccia per creare dei buchi abbastanza grandi da inserire la dinamite. Qui i crolli sono più frequenti e se la galleria si richiude dietro di te non c'è scampo: non ci sono vie d'uscita, nè rifugi equipaggiati come in Cile. Qui si muore e basta. Chi non muore per un crollo, muore di morte più lenta. Non si usano maschere speciali, solo un fazzoletto legato attorno al collo. Dopo qualche anno di miniera nessuno ha ancora polmoni che funzionano. Se si raggiunge l'invalidità al 50% si ha diritto ad una pensione, sennò si continua finchè dura, per racimolare due o trecento dollari al mese. La speranza di vita di un minatore di Potosì è attorno ai 45 anni.
Quando raggiungiamo il terzo livello, ansimando come mantici, troviamo un uomo che dovrà avere una quarantina d'anni ma ne dimostra trecento. Sta colpendo la roccia con scalpello e martello. E` l'unico che sta lavorando di sabatao mattina e vuole finire prima delle quattro di pomeriggio per andare alla festa della città. Gli ci vorranno quattro o cinque ore perchè il buco raggiunga i cinquanta centimetri necessari per la dinamite. Quaggiù fa caldo, l'uomo è in un bagno di sudore. La guancia destra è rigonfia delle foglie di coca che mastica per sentire meno la fatica. Due colpi un respiro, due colpi un respiro. Il lavoro va avanti con lentezza esesperante, ogni martellata porta via pochi millimetri di roccia.
La miniera in cui mi trovo è dedicata alla Vergine della Candelaria, mentre tutte le altre hanno nomi di santi. Ma nell'inferno la Vergine e i Santi non servono, qui ci si affida alla concorrenza: il diavolo. Il suo nome è El Tio e i minatori gli hanno dedicato una statua vicino all'entrata: è una figura antropomorfa seduta come un pascià, con delle corna in testa, il membro eretto, una sigaretta in bocca e completamente circondatao da lattine di birra, foglie di coca e bottiglie di plastica che dicono "alcohol potable". I minatori, quando escono dall'inferno, bevono alcool di canna da zucchero al 96% (!) e lasciano delle bottiglie vicino ad El Tio come fossero delle offerte devozionali.
Ma Potosi ha anche un'altra faccia, quella costruita nei secoli grazie all'estrazione dell'argento: chiese stupende e case coloniali che il passare del tempo e l'inevitabile decadenza riescono a rendere ancora più speciali. In questi gironi c'è una grande festa e decine e decine di gruppi vestiti in modo tradizionale sfilano per le strade ballando musica suonata da bande di paese. La gente si muove in un vortice di mille colori: vestiti rossi, verdi, gialli, blu, dai cappelli più strani. Si balla e si cammina, qualcuno mangia delle minestre preparate da anziane ricurve, sedute sul marciapiedi con una grossa coperta legata sulla schiena. E' il week end, bisogna approfittarne, lunedì sarà un altro giorno di fatica inimmaginabile.
Silver

domenica 3 ottobre 2010

La città del maresciallo

Se Saint Exupery si fosse spostato per l'America Latina via terra, invece che "Vol de Nuit" avrebbe scritto "Bus de Nuit". Invece di descrivere immensi paesaggi illuminati dalle stelle avrebbe descritto l'odore di sudore di un bus stracarico, la gente spettinata ed insonnolita, il caldo e poi il freddo, il vecchietto fatto alzare dal suo posto perchè qualcun altro aveva pagato di più, la donna seduta in mezzo al corridoio con il bambino tra le braccia. Un bambino che non fa rumore, non un pianto, non un lamento. I bambini del sudamerica, come quelli africani, non piangono mai. Rimangono attaccati alla schiena della madre, avvolti in una coperta multicolore come piccole mummie.
Sucre è la città in cui l'ennesimo viaggio allucinante finisce, verso le sette di mattina. Anche con gli occhi semisocchiusi dal sonno appare in un bianco splendore, quasi angelico. E' una delle città coloniali più belle che ho visto fin'ora, non solo per gli edifici e le strade, ma anche e soprattutto per la gente nelle strade, i mercati - quelli grandi e quelli piccoli - e una temperatura da eterna primavera nonostante i 2700 metri di altitudine.
Sucre è la capital constitucional della Bolivia, anche se non la sede del governo. Quando la nuova costituzione ha sancito La Paz come capitale (per me poco più che un'ovvietà) qui c'è stata una vera e propria rivolta, guerriglia urbana, gomme bruciate, lacrimogeni e morti. Sembra strano, vedendo la gente camminare numerosa a tutte le ore con calma olimpica, immaginarsi questa città messa a ferro e fuoco.
A Sucre c'è la Casa della Libertà. Tranquilli, tranquilli, non agitatevi, Berlusconi non c'entra. La libertà è quella acquisita dagli spagnoli, la casa è il principale museo delle reliquie rivoluzionarie (pochine a dire il vero). Essere nazionalisti in Bolivia è difficile, un po' come esserlo in Italia: non abbiamo molte cose di cui gloriarci. La Bolivia ha fatto tre guerre, perdendo regolarmente pezzi di territorio ogni volta (a beneficio di Cile, Brasile e Paraguay). Per contenere i ritratti dei presidenti ci vogliono ben due sale, perchè ce ne sono stati centinaia. Si inizia con il ritratto di Simon Bolivar, con delle basette da far invidia a John Lennon per finire con Evo Morales, con dei capelli a forma di casco di banana e i tratti da indio dell'altipiano. In mezzo facce di semisconosciuti, con sottotitoli tipo: "gobierno de facto", "gobierno ad interim", "gobierno constitucional", "gobierno de unidad nacional". Nel museo c'è una sala dedicata al mariscal Sucre, eroe dell'indipendenza , che fu costretto a sposarsi per procura perchè Bolivar lo mandò per sei anni a liberare praticamente tutta l'America del Sud. Un anno dopo aver potuto vedere sua moglie fu assassinato nel sud della Colombia mentre tornava a casa, con l'intenzione di rinunciare alla vita pubblica.
A sucre ho passato tre giorni a curarmi il raffreddore, a vedere le impronte dei dinosauri, a girare per la città,  a vedere un film troppo intellettuale all'Alliance Francaise assieme a due altri spettatori, a leggere "The cathcher in the rye" di Salinger e a guardare la televisione. Siiiiiiiiii, l'infinito piacere di fare zapping satellitare tra documentari di Discovery Channel sugli squali, partite di baseball su ESPN e le telenotizie sempre sensazionali della CNN. Nonostante tutta questa abbondanza iniziano già a mancarmi gli spot elettorali e i programmi religiosi della TV brasiliana.
Libertad y teledependencia

venerdì 1 ottobre 2010

Il riposo del guerriero

Samaipata ricorda un po' il paese perfetto del film "Big Fish" di Tim Burton, dove la gente butta via le scarpe per non avere la tentazione di andarsene. IL suo nome in quechua significa "riposo tra le montagne" ed è effettivamente il posto ideale per riprendermi un po' del molto sonno perduto.
Facendo un giro per il parco Amboro sembra di essere in un altro film: Avatar. In mezzo ad una foresta piena di muschi e licheni di ogni forma e colore, tra alberi che sembrano morenti, ci sono delle enormi felci, con dei veri e propri tronchi alti 3 o 4 metri. In cima le foglie sbocciano come delle code di dinosauri. Il giro è molto bello anche se la guida è il fratello gemello di Lapalisse (le felci sono piante molto vecchie) e ha delle idee molto minoritarie in campo botanico (le piante hanno bisogno di molte proteine). I due compagni di avventura sono un francese che vive di rendita da tre anni e che sta viagguando per l'America Latina ed un anziano americano asmatico che è venuto dall'Argentina per rinnovare il visto (e che finisce il giro per miracolo).
Il sabato sera a Samaipata è tutto un programma, che inizia con l'obbligatoria presenza nella piazza centrale. Devo ancora scoprire per quale arcano motivo in tutte le prigioni del mondo i detenuti camminano per il cortile in senso antiorario durante la famosa ora d'aria. A Samaipata non ci sono detenuti, ma tutti girano in senso antiorario lo stesso: ragazzini, mamme con i bambini, turisti solitari. Chi ha una macchina, come le due ragazze che ho conosciuto qui, girano con il finestrino abbassato, anche loro in senso antiorario. Per la prima volta da molto tempo sono seduto nel sedile posteriore di un jeeppone che non sia scassato. Mi sento come in un video di Snoop Dog (mancano i catenoni d'oro attorno al collo). Questo dabato sera, come nella canzone di Dalla, c'è una grossa novità. Si inaugura la seconda discoteca del paese (la prima si chiama "Che Wilson", non so se sia in onore di Che Guevara o di Chez Maxime)  e fa molta tenerezza. The new place to be, invece, si chiama Melody Park (forse ispirato al Melody sulla circonvallazione di Castelfranco Veneto) ed è uno stanzone rettangolare dove uomini annioati bevono birra e ragazzine isteriche ballano la cumbia in due file perfettamente parallele. Quando la serata entra nel vivo si formano delle coppie, viene introdotto il merengue (e anche una fugace salsa) e si rompono le righe. Il Melody Park è anche Karaoke ed i più fortunati assistono alla gara tra ben 15 concorrenti. Vince un raccomandato, come sempre.
La domenica sera, sulla piazza principale c'è solo silenzio. I turisti del week end sono partiti e restano solo gli abitanti, più qualche straniero di passaggio. La macchina che ha sparato ininterrottamente per due giorni musica a tutto volume (la canzone più gettonata è stata il remix di "Tu vo' fa' l'Americano") è partita, portandosi dietro i quattro ragazzi che avranno bevuto duecento litri di birra senza muoversi da una delle panchine. Anche i banchetti fricchettoni sono spariti: niente collanine, amuleti, incensi o orecchini con le piume. C'è solo un grosso spicchio di luna ad illuminare il cielo.
Tranquility