lunedì 9 dicembre 2013

Hub d'altri tempi


I bambini nell’acqua sembrano tanti grandi pesci rossi che boccheggiano. Ci metto un po’ di tempo a capire cosa stiano facendo a fianco del traghetto che sta attraccando sull’isola, mentre turisti di ogni colore stanno affollando il ponte in attesa di scendere. Poi qualcuno tira una moneta e i bambini si tuffano sott’acqua per prenderla ed altri seguono tirando monete, mentre i bambini schiamazzano e si gettano sulle monete come affamati su un pezzo di pane.
Lascio la nave inorridito e tocco terra. L’isola è un piccolo splendore di case coloniali e di verde. Non ci sono macchine e si cammina su un acciottolato che deve essere il peggior incubo di ogni top model. Anche con le scarpe da ginnastica le caviglie sono a rischio.
Vista in una giornata di sole, tra turisti e famiglie  in gita domenicale, si fa fatica ad immaginare l'isola come il fulcro dell’orrore umano, eppure i posti più belli nascondono a volte i peggiori segreti. L’isola di Gore è stato l’epicentro della tratta degli schiavi che per due secoli ha sdradicato uomini, donne e bambini dalla loro terra africana per farli entrare in un tunnel alla cui fine c’erano delle catene e dei campi di cotone o di canna da zucchero dall'altro lato dell'oceano.
Nel piccolo e spoglio museo allestito nel forte di Gore, spicca una tabella che contiene le statistiche di mortalità degli schiavi durante il trasporto in mare. La media è tra il 10% e il 20%, con un leggero miglioramento nel tempo. La ragione non è tanto una ritrovata umanità dei capitani delle navi negriere, quanto piuttosto una perdita economica: ogni schiavo morto significava soldi in meno per cui i businessmen dell'epoca avevano fissato criteri di cibo, acqua e igiene.
L’orrore delle immagini che vengono alla mente leggendo la descrizione della tratta è aumentato dall’essenzialità del piccolo museo. In assenza di disegni, fotografie o altri supporti visivi, l’immaginazione lavora dal di dentro e ti fa entrare nel corpo di uomini trattati come bestie da bestie travestiti da uomini.
Usciti dal museo c’è il sole e la gente è sdraiata in spiaggia. E' proprio una splendida giornata di dicembre. 

mercoledì 4 dicembre 2013

Tempo e denaro

Non avrei mai immaginato che un giorno avrei aperto una partita IVA, ma sembra che quel giorno si stia avvicinando.
Ieri ho avuto una riunione con un commercialista svizzero che ha l’ufficio fuori Zurigo. Ho preso un treno che è arrivato 30 secondi prima dell’orario previsto e mi ha permesso di prendere una coincidenza di 3 minuti, per presentarmi con 10 minuti d’anticipo sull’orario previsto ed essere quindi perfettamente conforme con il dogma della locale puntualità. Sul treno ho anche letto un opuscolo informativo sull’apertura di un’impresa che dice – testuali parole – “nell’interesse della compagnia e degli azionisti, la creazione di fondi neri è tuttora permessa in Svizzera”. Viva la sincerità.
Il commercialista era un signore simpatico che parlava in inglese con una certa lentezza e si è messo a divagare su vari temi. Ho sviscerato tutti gli angoli reconditi del sistema previdenziale basato su tre pilastri (e ispirato dalla letteratura di Kafka), la procedura per scaricare l’IVA (che  è all'8% e si fa solo per redditi superiori ai 100.000 franchi), gli anticipi trimestrali delle imposte (tra il 10% e il 20%) e varie altre amenità. Ho anche scoperto che l’iscrizione nel registro del commercio è facoltativa e che all’inizio potrò emettere fatture senza alcuna partita IVA.
L’amabile conversazione è infine giunta al costo del commercialista stesso che – mi spiega – viene calcolata in base alle ore di lavoro necessarie alla dichiarazione: a livello di esperienza della persona impiegata corrisponde costo differente. La sua tariffa oraria – continua con nonchalance – è di 160 franchi, ovvero circa 130 euro. Ho guardato l’orologio. Erano passate due ore. Come per magia la riunione è finita immediatamente.

domenica 10 novembre 2013

La città libera


E’ già notte quando passo l’immigrazione, scroccando un visto all’arrivo. Sono scortato da una donna che mostrava un pezzo di carta con il mio nome e che non apre bocca. Usciamo dall’aeroporto. La seguo nel buio come un bambino. Mi porta verso un gruppo di persone che formano una fila confusa e rumorosa. Mi metto da parte e aspetto. La donna scompare. Un uomo mi chiama e mi dice di salire su un bus. Il bus è pieno di gente atterrata con me. Salgo. Aspetto. Un francese seduto a fianco a me mi dice di tenere d’occhio il trolley che rischia di scomparire. Mi sembra improbabile, ma gli credo. Ricompare la donna che mi passa un biglietto. Scompare senza parlare, né fare un cenno di saluto. L’autista mette in moto e il bus parte. La strada è sterrata e piena di buche, il buio è impenetrabile. Riesco a scorgere sagome di alberi, pezzi di case, un cane. Il bus si ferma di colpo. Scendono tutti. Una lampadina illumina un pontile che scompare nel nero del mare. La gente aspetta, qualcuno fuma sotto un cartello “vietato fumare”. Arriva un altro bus, altra gente in attesa. Scoppia un temporale, il cielo si svuota di milioni di lacrime. Un uomo con una maglietta che dice “sea coach” chiama dei numeri. Giro il biglietto che ho in mano e leggo 16. Passano dieci persone. L’uomo scompare. Arriva il turno dei numeri dall’undici al ventuno. Esco dalla tettoia ed entro in una doccia di pioggia, camminando rapido sul pontile, in fondo al quale è ancorata una barca. Il capitano è nero ed è vestito di bianco. Indossa un berretto e ha l’aria sicura. La barca arranca tra le onde, sferzata dal vento, in un rumore assordante. Un’onda anomala ha l’effetto di un terremoto. Il capitano ha l’aria meno sicura. L’acqua entra dalle paratie. Fuori c’è solo mare e buio.

Non si diventa veri veterani degli aeroporti africani se non si atterra prima o poi a Freetown, la capitale della Sierra Leone. Strategicamente costruito a più di tre ore di macchina dalla città, una volta fallito tentativo di creare una spola con gli elicotteri (tutti precipitati a causa di guasti meccanici o dei piloti russi imbevuti di vodka), non rimane che usare la barca. Quando metto piede per terra ricomincio a respirare.

La Sierra Leone è stata un avamposto portoghese, poi un porto di partenza degli schiavi verso le Americhe, poi una terra di speranza per gruppi di schiavi liberati scappati dal sud degli Stati Uniti, poi terra di colonizzazione britannica ed infine una repubblica indipendente. Più che per le sue spiagge splendide ed il mare caldo, la Sierra Leone è conosciuta per i diamanti bagnati nel sangue e le atrocità della guerra civile degli anni novanta.

Tutta la ricchezza e complessità della storia del paese è contenuta nella lingua che si parla per strada, un creolo fatto di parole inglesi, francesi e portoghesi, mischiate con le lingue locali. “Bambino” si dice “pequeni”, “grazie” si dice “obligad”, “molta gente” si dice “bocu people” e “soldi” si dice “su”. Per il resto non si capisce assolutamente niente.

Anche le case sono, a modo loro, un libro di storia. Ci sono delle case di legno costruite nello stile del sud degli Stati Uniti. Rattoppate nei secoli, hanno ora l’aspetto di un magnifico puzzle di legno. Ci sono poi i tipici edifici in cemento, uno diverso dall’altro, spesso terminati solo a metà, con i tondini di ferro che sbucano dal tetto aspettando che arrivino un po’ di soldi. E ci sono delle case costruite interamente in lamiera (tetto e muri), che – appoggiate le une alle altre – creano un paesaggio multicolore da presepe tropicale.



lunedì 4 novembre 2013

Gambia


Guardando la posizione del Gambia sulla cartina geografica, si ha la conferma che la Gran Bretagna è dotata di uno spiccato senso dell’umorismo. Non si può spiegare altrimenti la decisione di colonizzare un cuneo di territorio proprio nel mezzo del Senegal, come un dito messo proprio lì. Come per il resto dell’Africa, la divisione del territorio non segue nessuna logica etnico-culturale. Il Gambia è popolato dallo stesso melting pot che si trova in Senegal, con la differenza che la lingua nazionale è l’inglese.
Mi ci vogliono pochi minuti per scoprire che Eid-al-Fitr è dietro le porte. I marciapiedi sono pieni di pecore in attesa di essere sgozzate per celebrare il gesto supremo di Abramo. Qualsiasi sia la religione, ci rimettono sempre le pecore. Quelle che vedo sul tragitto tra l’aeroporto e l’albergo non ci saranno più di qui alla settimana prossima e molte avranno fatto un lungo tragitto – venendo dalla Mauritania o il Senegal – per morire in Gambia.
In albergo, ignari di feste religiose o anche di trovarsi in una città chiamata Banjul, trovo un tipico gruppo di vacanzieri low cost. Trattasi di anziane coppie tedesche o olandesi che passano una o due settimane al caldo, rinchiusi nei recinti dell’albergo a dormire a bordo piscina. Quando se ne andranno non avranno neanche visto il mare che si trova al di là del cancello e la spiaggia larghissima e vuota. Tutto là fuori appare pericoloso e selvaggio.
La mattina presto, animato da motivazione sportiva senza precedenti, decido di fare jogging in spiaggia, scatenando l’entusiasmo di tutti quelli che mi incrociano. Passo un gruppo che gioca a calcio, altri solitari che corrono nella direzione opposta. I pescatori sono appena rientrati dalla pesca notturna e pisolano all’ombra dei barconi di legno, aspettando che passi qualcuno a comprare pesce. L’oceano è blu e l’acqua è calda, ma nessuno fa il bagno. Sono tentato di buttarmi in acqua per togliermi il sudore che ho attaccato alla pelle come uno strato di colla, ma mi fermo con l’acqua alle ginocchia. Come i turisti che non escono dall’albergo, anch’io non oso uscire dalla terra ferma. Mi tolgo la maglietta e ritorno correndo lento ed affannato a fare colazione in mezzo ai tedeschi.

giovedì 3 ottobre 2013

La lunga via


Se c'è una cosa che l'arrampicata ti sbatte in faccia senza mezze parole è la tua paura. Lasciare un punto di riposo, con la corda che pende sotto i tuoi piedi e non sopra la tua testa è sempre una decisione difficile. Bisogna parlare con il proprio cervello e spiegargli che va tutto bene, non c'è nessun pericolo.
Ci sono poi situazioni in cui non solo il cervello ha paura, ma ha anche ragione. Se si cade ci si fa molto male, si può anche morire. In quei casi parlare con il cervello richiede molto tempo e poi finisce che la decisione la prendono le gambe che decidono di andare o tornare indietro.
Su una via lunga sopra a Glarus siamo in due ad avere paura. Ci alterniamo nel tremolio delle gambe, nelle imprecazioni e nell'eterna decisione tra la vita e la morte (più o meno metaforica). Una volta tocca a lui e una a me. Procediamo più lenti di quello che credevamo, ma ormai c'è solo una via d'uscita, andare in cima, perché tornare indietro sarebbe molto più complicato.
Dopo quattro ore arriviamo all'ultimo tiro di corda, uno dei più difficili, che tocca al mio compagno (ho convenientemente scelto i tiri più facili). E' quasi l'imbrunire, le montagne all'orizzonte si tingono di tonalità che vanno dal verde scuro per quelle più vicine al grigio chiaro per quello più lontane. Il sole riscalda il pomeriggio inoltrato e io sono seduto su un comodo strapuntino, mentre il mio compagno scompare alla vista sopra di me. Ci tiene assieme solo una corda, attraverso la quale comunichiamo muti. Lo sento tirare e quasi lo vedo salire facilmente per un pezzo semplice, poi la corda si ferma di botto e sta probabilmente mettendo un rinvio, poi la corda tira e immagino che si stia appoggiando per prendere un po' di fiato, forse sta mettendo un friend. Mentre io, rilassato, guardo il paesaggio sotto di me, lo sento imprecare in svizzero. Non capisco le parole, ma il tono è minaccioso e sta litigando violentemente con la roccia. Posso sentire il tremolìo delle sue gambe e le dita che diventano dure, gli avambracci in tensione. Appoggio il mento alla corda per auscultarla meglio. La paura sembra scorrere per i fili intrecciati che tengo in mano, così come il dibattito tra i dubbi che non vogliono andare avanti e la certezza che non si può tornare indietro. Poi si sblocca, la tensione della corda cresce, ma questa volta vuole dire che il mio compagno sta salendo, ha passato il pezzo difficile ed ha fatto un paio di metri in scioltezza prima di fermarsi. Poco dopo sento che la corda vive di vita propria e sale con tutta la velocità che posso darle. Il mio compagno deve essere arrivato in cima. Libero la corda e la lascio salire, mentre mi allaccio le scarpe e lancio un ultimo sguardo al panorama sotto di me. Le campane delle mucche si sono zittite. Ora tocca a me.

domenica 29 settembre 2013

Sulle piste


C'è un immenso lago circondato da montagne innevate. Gli alberghi si chiamano Chamonix, Der Tiroler, Le Chalet Suisse, Cervino. Si serve fondue e ovunque ci sono negozi di cioccolato e si vendono coltelli prodotti localmente. Ci sono decine di negozi di materiale da montagna con prezzi astronomici. Questa è St. Moritz o Zermatt? No, benvenuti a Bariloche, dove i ricchi del continente si ritrovano per una sciata nel comprensorio più grande dell'emisfero sud (cartello stradale dixit). Le targhe delle macchine dicono Brasile, Cile e chiaramente Argentina.
Bariloche è anche il fulcro dei festegiamenti per i maturandi. Le strade rigurgitano di adolescenti vestiti tutti uguali, con giacche a vento fornite dall'agenzia che ha organizzato il tutto compreso. Te li ritrovi anche sulle piste da sci, in gruppi da cento, camminare infreddoliti e farsi la foto con il panorama alle spalle seguendo le indicazioni di una guida col megafono. A valle si sciolgono e inondano le discoteche fino a mattina. Conforta scoprire che l'idiozia adolescenziale non sia un monopolio italiano.
Fa un po' strano sciare mentre in Italia c'è chi sta facendo il bagno al mare. Le piste non sono male (non fosse per il rischio di contribuire all'ipertrofico orgoglio argentino direi che sono anche belle). Peccato che gli impianti di risalita vadano al rallentatore e che si faccia in tempo a morire assiderati prima di arrivare in cima. In compenso la conversazione è molto più facile e divertente che in Svizzera, dove la gente fa finta di essere sorda pur di non parlarti. Anche non volendo si è coinvolti in grandi discussioni sullo sci, sull'Italia, sull'Argentina o su qualsiasi altro argomento che passi a tiro.

giovedì 26 settembre 2013

La Pampa

Tra mare e montagna non c'è scelta: montagna. Parto da Buenos Aires a fine pomeriggio. Come in un lungo travaglio, il bus ci mette ore ad uscire dall'utero urbano, fermandosi ad imbarcare i passeggeri delle periferie. Quando è pieno, il ragazzo factotum fa partire il primo di molti film che seguiranno. Saranno tutti americani, pieni di sparatorie, bombe e gli immancabili terroristi.
Mentre il ragazzo serve la cena su dei pratici vassoi, il sole si addormenta sulla pampa, la pianura più piatta e monotona al mondo. Poco dopo lo seguo, entrando in un sonno interrotto solo dalle fermate nel mezzo del nulla. Quando, dopo dodici ore di viaggio apro le tende, il paesaggio non è cambiato di una virgola. Invece di annoiarmi, l'alternarsi di campi e mucche mi ipnotizza con la sua ripetitività e non sento il tempo passare sulla mia pelle anestetizzata.
Arriva l'ora della colazione e poi del pranzo. Infine il paesaggio accenna un mutamento. Appare qualche albero, il bus ansima per le ampie curve di una salita. Con Bruce Willis che uccide un cattivo (oppure è lui stesso il cattivo) appare un immenso lago circondato da cime innevate. Buenos Aires - Bariloche in 23 ore scarse.

giovedì 19 settembre 2013

Da Buenos Aires a Berazategui


Quando tre anni fa, alla fine del mio periplo per l'America Latina ero arrivato a Buenos Aires, l'avevo trovata spettacolare. Bere vino e caffè, mangiare bistecche e pizza dopo mesi di sopitas, carnitas, frijoles e arrozito era stat un'esperienza mistica e catartica, un ritorno a casa.
Sarà che tre anni di Svizzera mi hanno abituato alla perfezione, oppure che l'inverno mette a nudo le debolezze di qualsiasi città, ora Buenos Aires mi appare meno ricca e sfavillante. Gli edifici e le strade sono gli stessi, ma i negozi e le persone appaiono diversi, tutto sembra un po' più veccho e grigio.
A differenza di allora, quando - distrutto da un viaggio estenuante aspettavo il mio volo di ritorno in un misto di rassegnazione e solitudine - adesso condivido il mio jet lag con una strana creatura mitologica, metá hostess e metá artista, che mi fa conoscere piccoli gioielli metropolitani come l'Ateneo (un teatro trasformato in libreria) o Clasica y Moderna (un ristorante letterario).
Essere esenti dall'obbligo turistico di vedere tutto quello che viene menzionato nella guida è una liberazione senza pari, come anche esplorare il sobborgo di Berazategui una domenica mattina, con i negozi chiusi e in compagnia del camion dell'immondizia. Sono sicuramente l'unico turista di Berazategui e - assieme all'animale mitologico di cui sopra - mi muovo tra le casette disposte a scacchiera come se fossi in un sito archeologico greco  o romano. Posso immaginare l'anno 1908, la costruzione della fabbrica di vetro Rigolleau, la ferrovia con la stazione ancora incompiuta. Arrivano immigranti italiani, spagnoli, tedeschi e polacchi, tutti con la pancia piena solo di speranza. Berazategui si è sviluppata attorno alla sua fabbrica: la piazza, il municipio e la chiesa si sono aggiunti dopo, come fossero dei dettagli.
Nel cortile di una delle tante casette assisto ad un rituale argentino a cui possono accedere solo gli adepti di una popolare religione locale denominta asado. Sulla griglia si intersecano come in un puzzle colorato varie parti del corpo di una mucca che è stata sacrificata per il piacere di noi umani. Là dove chiunque vede solo carne, l'argentino riesce a declinare nomi di ghiandole salivari, tratti dell'intestino tenue, salsicce di sangue e vari organi generalmente poco interessanti per il palato. Il peggio è che è tutto tremendamente buono e che per quanto il cervello si opponga, la pancia lo convince a rimandare il vegetarianesimo a data da destinarsi.

giovedì 29 agosto 2013

The house of mystery



Quando ho comprato il biglietto per il Concerto di Leonard Cohen non mi aspettavo certo di trovarmi tra i fan di una Boy Band, ma la realtà supera le aspettative: sembra di essere nel reparto geriatrico dell'ospedale di Zurigo. Il concerto è previsto per le otto di sera (per evitare di far tardi) e il palazzetto è pieno. Più di seimila posti a partire da cento euro. Non c'è da stupirsi se tutte le principali tournée europee passano sistematicamente da qui.
Il mio posto è nel settore F, fila 24, numero 15, il palco è un miraggio lontano. Alla mia sinistra ho una coppia di anglofoni, composta da donna che non sorride e da uomo tuttologo che analizza con minuziosa dovizia le installazioni relative a suoni e luce. Alla mia destra ho un'arzilla settantenne coinvolta in un'appassionata conversazione nel più stretto degli svizzeri-tedeschi con una donna più giovane, probabilmente la figlia. Non tace un attimo e sembra chiaro che sta carburando a vino rosso da un po'.
Il concerto inizia alle otto e un quarto, deroga eccezionale all'assoluta puntualità elvetica. Alle prime note di Dance Me to the End of Love, quando Cohen attacca con "dance me to your beauty with a burning violin", l'esagitata alla mia destra si dimena come se fosse ad un concerto dei One Direction, occupando tutta la visione del palco e degli schermi, sia mia che dell'azzimata coppia anglofona. Mettendo subito i puntini sulle i, la decisa donna senza sorriso intima all'esagitata di starsene buona che non vede niente. Mi trovo tra la classica incudine e il classico martello.
Da lontano sembra che Lonard Cohen sia un ragazzino: si muove a destra e a sinistra, si inginocchia, accenna qualche passo di ballo. La sua voce scava fossati di emozioni ed il pubblico si scongela, abbandona la secolare tradizione svizzera improntata alla più assoluta tendenza all'autoflagellazione per mostrare un insperato entusiasmo. La vicina di destra è la capofila. In preda ad un ipercinetismo patologico, si toglie e si mette gli occhiali in maniera compulsiva, passandosi i capelli dietro le orecchie e ripetendo il tutto almeno dieci volte ogni canzone.
Alla pausa, le due donne alla mia destra vanno a fare benzina di vino bianco, mentre la coppia triste alla sinistra passa tutto il tempo a parlarne male e a dirsi a vicenda che dovevano starsene a casa. Il secondo tempo inizia come il primo. Cohen inizia con "I remember you well in the Chelsea hotel", causando profondi brividi alla mia schiena, una crisi di logorrea alla donna alla mia destra e una stizzata reazione dell'anglofono alla mia sinistra. Il gesto non è proprio da gentleman, ma sortisce l'effetto dovuto e la donna se ne sta zitta mentre Cohen continua a descrivere la sua avventura di una sera con Janis Joplin ("you told me again you preferred handsome men, but for me you would make an exception"). Ad un certo punto la signora alla mia destra si appoggia allo schienale, con lo sguardo perso nel vuoto, immobile. Temo che, causa vino ed eccitazione, abbia tirato un colpo, sto quasi per avvertire la figlia che non se n'é accorta. Ma poi si riprende e ricomincia a mettersi e togliersi gli occhiali, indice che tutto è tornato nella norma.
Dopo quasi due ore e mezza arriva Take this Valtz, la canzone ispirata a una poesia di Garcia Lorca. Una scena da film di Boñuel si produce con la naturalezza di un colpo di vento: decine di persone, come colombe dal desio chiamate, lasciano il loro posto e camminano come zombies verso il palco. Alcuni accennano un passo di valzer, altri stanno semplicemente lì, come in trance. Approfitto del miracolo per sbarazzarmi degli anglofoni e della pazza e mi avvicino anch'io, fino a pochi metri dal palco. Sembra di entrare nella musica e nelle parole "ah you loved me as a loser, but now you're worried that I might just win".

domenica 25 agosto 2013

Nigeria


La Nigeria, lo stato più popoloso d’Africa ed il primo produttore di petrolio del continente, è stata colonizzata con l’accetta: a nord del fiume Niger i francesi, a sud gli inglesi e pazienza se il confine divideva popolazioni appartenenti allo stesso gruppo etnico, l'importante era spartirsi il territorio senza troppe tensioni. Per gli africani i fiumi sono dei mezzi di comunicazione e di aggregazione. Per gli Europei sono delle frontiere naturali, perfetti per piantare bandiere e far firmare trattati a capi tribali analfabeti.
Il risultato attuale è uno stato di più di 170 milioni di abitanti, appartenenti a 250 gruppi etnici, in cui si parlano 500 tra lingue e dialetti. In tutta questa enorme complessità, c’è chi semplifica il tutto con una serie di bipolarità: il nord e il sud, i cristiani e i musulmani, i ricchi e i poveri, i terroristi di Boko Haram e l’esercito.
Io mi fermo alla dicotomia tra città. C’è Lagos, la città-mostro di 8 milioni di abitanti ufficiali (quelli reali nessuno lo sa),  in cui miseria, criminalità e inquinamento si mischiano senza soluzione de continuità a lusso, vita notturna e dinamismo senza pause. La città incontrollabile che cresce a dismisura senza alcuna pianificazione, ma in cui si registrano incredibilmente i più alti tassi di felicità al mondo (http://www.jdsurvey.net/jds/jdsurveyMaps.jsp?Idioma=I&SeccionTexto=0404&NOID=103).

E c’è Abuja, la nuova capitale costruita dal nulla come Brasilia, senza anima, il cantiere eterno finanziato dal petrolio fatto di grandi arterie stradali, edifici nuovi che ospitano ministeri e uffici pubblici, hotel e centri commerciali. La città ordinata e pulita, in cui le case e gli abitanti passano in secondo piano rispetto alle leggi della viabilità e all’immagine di modernità. 

domenica 14 luglio 2013

Tschingelhorn

A volte mi chiedo chi me lo fa fare. Succede spesso quando mi sveglio alle quattro di mattina in un rifugio affollato e insaporito di tutti gli odori delle notte (e dei calzini del giorno prima). Oppure mentre sto salendo a fatica, sul ghiaccio o sulla roccia, e solo la necessità di andare avanti riesce a scacciare la paura.
A volte mi giuro e spergiuro che basta, il prossimo week end al lago a far arrostire würstel. E la decisione sembra presa e con molti punti esclamativi. E poi ci sono le vesciche ai piedi, il mal di spalla, lo zaino, le scottature, le labbra secche, la sete, il caldo, il freddo, la scomodità dell'imbrago, il senso di costrizione della corda, il muoversi impacciati dei ramponi, senza parlare di questa picozza che serve per mezz'ora e te la devi portare dietro per due giorni.
E tutto questo per qualche minuto di panorama mozzafiato, a 3.500 metri al di sopra del mondo normale, con le dame bianche delle alpi svizzere che ti guardano da lontano, sobrie ed altere.
Poi c'è da scendere duemila metri, con le gambe che si muovono a fatica, ma con una soddisfazione in corpo che ti fa già dimenticare di aver detto basta.








venerdì 28 giugno 2013

La vergine bianca

Iniziare un'escursione sul ghiacciaio della Jungfrau non è proprio un'esperienza bucolica. Sul treno a cremagliera che sale lentissimo nel ventre gelido della montagna si palpa con mano il cambiamento radicale del turismo internazionale. Quando quasi vent'anni fa salivo con la mia famiglia, i turisti erano svizzeri, tedeschi o - massimo dell'esotismo - italiani. Oggi sono solo cinesi e indiani, mezzo assopiti dall'alzataccia, in sandali e maglietta, con macchine fotografiche telescopiche, famiglie intere che sembrano sbarcate sulla luna o nel film di Bollywood da cui hanno scoperto l'esistenza della Jungfrau. Gli annunci automatici del treno sono multilingue, tra cui cinese, giapponese e hindi. Quando si arriva in cima si ha l'impressione di essere in una grande stazione asiatica, con fast food che servono spaghetti di riso e curry. L'ambiente è un misto tra uno zoo e un Luna Park, certo non si ha l'impressione di essere in cima ad uno dei ghiacciai più grandi dell'Europa continentale. Per fortuna basta mettersi dei ramponi ed allontanarsi di qualche metro e la montagna prende il sopravvento. Poi basta lasciar parlare la Jungfrau:












domenica 23 giugno 2013

Metropoli su due ruote


Una delle figure immancabili in ogni organizzazione o istituzione africana è il responsabile del protocollo. Si tratta in genere dell’uomo tuttofare, che conosce poliziotti e doganieri e che olia gli ingranaggi dell’aeroporto per riuscire a fare entrare e uscire velocemente le persone sotto la sua tutela.
Il mio responsabile del protocollo mi viene a prendere in albergo di Kinshasa quattro ore prima del mio volo. Il check in è già fatto e l’aeroporto è a venti chilometri. Non capisco tanta fretta, ma obbedisco.
La ragione mi sarà chiara di lì a poco, quando la nostra macchina sarà inghiottina dalla madre di tutti gli ingorghi. Sull’enorme viale in stile sovietico che porta all’aeroporto si è ammassata una quantità incredibile di macchine, camion, bus e mezzi di ogni tipo. Ci sono dei restringimenti per lavori in corso e si è probabilmente svolta la tipica dinamica delle strade di Kinshasa: macchina che si blocca in mezzo alla strada, altre macchine che passano a destra e sinistra, ulteriori rallentamenti, macchine che invadono la corsia opposta bloccando il traffico nell’altro senso, fino a che tutti si bloccano senza potersi muovere di un millimetro.
Mentre il tramonto lascia spazio ad un buio intenso e centinaia di persone camminano in mezzo alle macchine bloccate, scrivo e-mail ascoltando la storia della vita del responsabile del protocollo. Ha sei figli, di cui tre prima del matrimonio (tu sais, je les ai faits durant me études). Mi dice che se venisse in Italia cercherebbe moglie, perché la sua è morta. Con sei figli a carico non è molto contento e aggiunge: senza donna e senza figli va bene, ma senza donna e con i figli è un disastro. La vita, come gli ingorghi, vanno presi con filosofia.
L’attesa si fa senza speranza e le lancette girano. Per evitare di perdere l’aereo decidiamo di cercare una moto per andare all’aeroporto. Lui con il mio trolley ed io con la borsa del computer, iniziamo a zigzagare in mezzo alle macchine ferme, in una nuvola di gas di scarico e polvere. Chiaramente il muzungu che cammina invece di stare seduto in macchina attira grande attenzione e ilarità. Un ragazzo mi si mette alle calcagna e mi fa un lungo discorso in lingala, altri si limitano a sorridere.
Quando troviamo una moto, saliamo in tre: il guidatore davanti, io in mezzo e il responsabile del protocollo dietro con il trolley sottobraccio. Il pilota è esperto di zigzag in mezzo alle macchine e ai pedoni. Deve avere degli occhiali naturali perché riesce a vedere al buio, in mezzo alla polvere e guidando a velocità supersonica. In certe occasioni meglio non pensare a niente e lasciarsi trasportare nel buio tropicale.

martedì 18 giugno 2013

Heart of Darkness


Dopo aver letto un libro sulla colonizzazione africana che parlava della corsa tra l’avventuriero americano Stanley al servizio del re del Belgio e Brazza, l’italiano al servizio della Francia, mi trovo infine sulle rive del fiume Congo, nel Cuore di Tenebra.
Mi aspettavo che Brazzaville fosse una città disorganizzata e caotica, ed invece trovo strade asfaltate e una certa aria da città di provincia. Il casino, mi dicono, si trova dall’altra parte; ed indicano il fiume da cui fa capolino Kinshasa, già Leopoldville, una delle metropoli più grandi d’Africa.
Non essendoci ponte tra le due città per discordie politiche e battaglie commerciali, il passaggio si fa in barca. Visto che si tratta di due stati diversi, la procedura è piuttosto kafkiana e quindi costosa. Se si vuole passare in tempo ragionevole, conviene contattare un intermediario che si occupa delle procedure amministrative, comprare i biglietti e intrattenere rapporti d’amicizia interessata con il responsabile dell’immigrazione, oltre che ammassare una discreta quantità di documenti puramente decorativi. Il prezzo del servizio è un forfait che si basa principalmente sul potenziale economico del soggetto e soprattutto sul colore della sua pelle. Oggi si fa festa.
Aspettando seduto sotto un albero, osservo uno spaccato dell’economia informale africana. Il numero di persone che aspettano attira venditori di ogni tipo, vari lustrascarpe, oltre ai bambini che rovistano nell’immondizia alla ricerca di bottiglie di plastica. Quello che ha più successo di tutti è un ragazzo con una macchina fotografica digitale e una piccola stampante portatile. La foto costa 1000 franchi CFA (un euro e mezzo) e la si ha in un paio di minuti. Non c’è nessuno che riesce a resistere alla tentazione e il ragazzo fa grandi affari. Forse a causa di tanta abbondanza, non dà grande peso alla qualità, per cui il mio ginocchio appare in varie fotografie, oltre che lampioni, panchine, pezzi di edifici e macchine.
Quando chiamano il mio nome (il boarding è nominale), mi precipito nella barca lottando con il resto dei passeggeri (il concetto di coda non è proprio britannico). Poco dopo la lancia sfreccia sul largo fiume scuro, che più di un secolo addietro era percorso dai lenti battelli a vapore delle potenze coloniali e dei mercanti di olio di palma e caucciù. Manca solo il capitano Kurtz.

lunedì 10 giugno 2013

La Madrid gregaria


Il vero monumento di Madrid non è il Prado, né il Palazzo Reale, ne la Puerta del Sol. Il vero monumento di Madrid - la ragione per cui ci si va e ci si vuole ritornare - è la sua gente. Gli abitanti di Madrid non sembrano avere una casa, vivono per strada, mangiano in piedi, camminano a tutte le ore, non si nascondono mai. Se ci fosse un opposto fisico di Zurigo - la città in cui tutti hanno paura di tutti - sarebbe sicuramente Madrid, il posto in cui ti si rivolge la parola nel modo più spontaneo e naturale.
La domenica mattina faccio un giro per il Retiro, l'immenso mercato in cui si vende di tutto. Più che per comprare, vale la pena venire a mangiare tapas, bere una caña e guardare la massa umana muoversi tra i banchi a passo di lumaca. 
Poco lontano, in una piccola piazza, c'è una donna esagitata che fa ballare un'umanità varia e piuttosto sedentaria (almeno a giudicare dai grossi culi). La musica è di Tarkan e le mosse sono vagamente arabizzanti. La piccola folla muove le anche, le braccia e le spalle, obbedendo agli ordini come un esercito obbediente (e un po' scoordinato).

Lascio i ballerini della domenica e poco lontano mi imbatto in una manifestazione di estrema sinistra. Varie centinaia di persone sono raggruppate a cerchio. Alcune hanno delle bandiere, c'è un megafono, tutti scandiscono slogan generici: disobbedienza, anticapitalismo, rivoluzione. E' senza dubbio la manifestazione più statica che abbia mai visto. Tutti stanno in piedi e seguono il ritmo dello slogan pronunciato dal megafono. Più che per protesta sembra che siano tutti lì per vedersi ed incontrarsi. Me li immagino rompere i ranghi di lì a poco per andare a mangiare dei calamari fritti con una birra fredda, belli soddisfatti. 

sabato 18 maggio 2013

Djibouti


Djibouti è un microstoato con pochi abitanti, poca acqua e nessuna ricchezza naturale. La sua principale risorsa è trovarsi all'imbocco del Mar Rosso, il passaggio obbligato di tutto il commercio marittimo tra Europa e Asia, la posizione più strategica del terzo millennio.
Tra la guerra in Yemen e quella in Somalia, in una regione popolata da pirati e islamisti, tutte le grandi potenze si danno di gomito per mettere un piede a Djibouti. E Djibouti li ospita tutti (a pagamento s'intende). La Francia ha una base storica, l'unico punto d'appoggio in Africa Orientale. I francesi hanno costruito un intero quartire per ospitare i militari e le loro mogli. Gli americani sono sbarcati da qualche anno e hanno come al solito costruito i loro fortini medioevali supertecnologici, supersicuri e da cui non escono mai, nemmeno per andare a fare la spesa (meglio MacDonald's del pesce fresco). Anche i giapponesi sono qui, e i tedeschi e persino gli italiani, che tra tutti i militari sono i più rumorosi e i più sovrappeso.
Djibouti è praticamente una città-stato che ruota attorno al suo porto, da cu transita petrolio e centinaia di migliaia di container ogni anno. Visti da una delle colline che sovrastano la baia, sembrano tanti mattoni di lego impilati gli uni sugli altri. Come si riesca a prendere un container che sta sotto dieci altri resta un mistero.
A causa delle tensioni con l'Eritrea, da cui in passato arrivavano tutte le merci, Djibouti ora è la porta di entrata e di uscita dell'Etiopia, il gigante da 90 milioni di abitanti. La strada che collega Addis Abeba a Djibouti è una lunga e interminabile coda di TIR che ansano per le salite, tagliano le montagne e il deserto di sassi: una migrazione di gigantesche formiche multicolori.
Nel senso inverso scendono i camion vuoti. A parte il caffé, sono poche le merci che l'Etiopia esporta. Ce n'é una però che fa la gioia degli abitanti di Djibouti, il kat, una pianta che contiene anfetamine naturali e che si mastica per ore bevendo caffé, fumando narghilé e parlando tra amici e conoscenti. E' una droga a tutti gli effetti, ma talemnte diffusa in questa regione che serebbe impensabile proibirla (quando gli arrivi sono in ritardo si rischia l'ammutinamento generale).
E' forse grazie al kat che il melting pot culturale di Djibouti - tribù nomadi pastorali e agricole, immigrati somali, yemeniti ed etiopi oltre che il viavai di marinai e militari di ogni colore e bandiera - non esplode. Djibouti è uno stato musulmano in cui la birra scorre a fiumi, alleato delle grandi potenze ma intoccato dal terrorismo qaedista, fatto di tradizione e vita notturna. Punto di incontro degli opposti, ognuno ne trae beneficio, per cui nessuno cerca la destabilizzazione, almeno per il momento.

giovedì 16 maggio 2013

Notizie in volo


Uno dei vantaggi di vivere in Svizzera e passare molto tempo in viaggio è la difficoltà di seguire l’attualità italiana, con accesso sporadico ai giornali e zero televisione. Mentre mi imbarcavo sul mio volo Kenya Aiways da Nairobi a Djibouti, pregustavo già l’assenza di notizie nostrane: lontano dagli occhi lontano dal cuore.
Con immensa gioia ho aperto il Daily Nation per scoprire che gli allevatori keniani stanno comprando dei materassi per le mucche, per evitare malanni e aumentare la produzione del latte. Molto interessante anche il consiglio della FAO che prescrive di mangiare gli insetti – ricchi di proteine e poveri di grassi – come cura contro la malnutrizione (le mucche, dal loro nuovo letto, ringraziano). Mi stavo già avvicinando alla pagina dello sport per leggere l’ennesimo articolo sulla grande rinuncia di Alex Ferguson (almeno uno che decide di andare in pensione) quando sono stato colpito mentre avevo la guardia abbassata. Un articolo sulla requisitoria della Bocassini si era infiltrato senza permesso, obbligandomi alla rilettura di tutti i particolari già conosciuti sull’affare Ruby Rubacuori. Finendolo, mi sentivo quasi al sicuro, navigando in piena confidenza verso i risultati della squadra di rugby del Kenya, quando sono stato colpito da un montante sinistro, questa volta senza via di scampo: la foto del volto garrulo di Briatore che annunciava la prossima apertura di un Billionnaire a Malindi. L’articolo parlava di piani immobiliari a cinque stelle e di ben quattro persone che hanno comprato un immobile senza aver mai messo piedi in loco. Tutto sulla fiducia assicura Briatore.
Di sicuro uno di cui ci si può fidare.

venerdì 26 aprile 2013

Lusaka

 
 
Andare dal Malawi allo Zambia è come prender un ascensore temporale: si procede di trent'anni nello spazio di un volo di poche ore. Mi aspettavo una città africana e invece mi trovo praticamente in un posto a metà tra l'Africa, l'Europa e gli Stati Uniti. Il paesaggio urbano trasuda modernità, marketing e comunicazione di massa. Non ho il tempo di uscire dalla città ma immagino che l'Africa inizi là dove finisce l'ultima casa, ma l'illusione è efficace.
La mattina, facendo colazione, leggo nel giornale che una donna si è suicidata perché ha scoperto su facebook che il suo fidanzato si era sposato con un'altra donna. Sul pericolo di facebook per la salute umana non ho mai avuto dubbi, sulla fragilità umana neanche.
Di Lusaka ho visto uno stadio in costruzione, l'aeroporto e il mio albergo. C'è però da dire che mentre cenavo a lume di candela ad un tavolo tutto maschile, ho assistito ad una scena profondamente surreale ed intensa. Il gruppo che suona per i clienti, che fino a quel momento si era esibito in una performance soporifera di musica per supermercati, intona "Bella Ciao" in italiano. Guardo l'orologio e mi rendo conto che è il 25 aprile: buona resistenza a tutti.

Blantyre



L'aeroporto di Blantyre, la capitale commerciale del Malawi, vince il premio miniatura. In uno spazio poco più grande del mio appartamento c'è il controllo passaporto, la sicurezza e il nastro dei bagagli, che sembra quasi un giocattolo e più che fare girare le valige le fa cadere per terra con gran clamore.
Fuori dall'aeroporto non c'è quasi nessuno. A differenza che nelle altre grandi città africane, non c'è rumore e non c'è ressa. Ci sono un paio di tassisti abusivi che non insitono quando rifiuto il passaggio. Per il resto calma piatta. Il resto della città è uguale: Blantyre capitale dell'understatement.
La strada sale per delle colline piene di vegetazione e la macchina sorpassa varie biciclette stracariche di carbone, spinte a mano da uomini di cui si vede solo la schiena ricurva e tesa a causa dello sforzo. Si tratta di piccoli commercianti che vanno a comprare il carbone all'ingrosso e lo rivendono ai lati della strada. Secondo la legge la vendita di carbone è illegale, perchè cause deforestazione. Ma le leggi per essere applicabili devono anche essere realizzabili: senza carbone non si cucina e non c'è altra alternativa. La legge è stata seppellita nel cimitero delle leggi dimenticate.
Blantyre è una città misteriosa, perché sembra non esistere. Si può guidare per mezz'ora per le sue strade ma non si vede gente, né case. Dove si nascondano i suoi abitanti è un mistero. Ci sono molti alberi e poco traffico, senza dubbio è una delle più belle città dell'Africa subsahariana.
Quando riparto, dopo un paio di giorni, ripasso per l'aeroporto più piccolo del mondo. Il check in si fa con carta e penna e il gate delle partenze è una porta a vetri. Mentre cammino verso la scala dell'aereo, guardo il cielo blu macchiato da grandi nuvoloni bianchi: uno splendido cielo africano.

martedì 2 aprile 2013

Queste le prime righe del romanzo "Radice di due"

Mi svegliai in un bagno di sudore e sperma. Erano scomparse le cosce della Marini, le sue labbra gonfie, le tette, il culo, tutto. Rimaneva un letto sfatto e una stanza buia. Una sveglia mi richiamava alla realtà – o a ciò che consideriamo tale – implacabile come una ghigliottina. Un odore acre e familiare saliva dalle mutande verso il naso. La delusione scendeva dal mio cervello verso i miei genitali depressi. Per una logica ovvietà la doccia prevalse sulla colazione e mi ritrovai ad invertire il mio rito mattutino: prima il sapone e poi il caffè. 
Pioveva, era mercoledì e fuori dalla finestra c’era Castelfranco Veneto, più insipida del solito. La strada era bagnata, la pioggia aveva formato delle pozzanghere irregolari e profonde da cui schizzi di acqua sporca si alzavano al passaggio di vecchie utilitarie guidate da uomini con la faccia nera e berretti calcati fino alle sopracciglia. Da un po’ di tempo il triveneto produttivo non era più quello della mia infanzia, ovvero: soppressa, lavoro, Mercedes ed evasione fiscale; tranne per l’evasione fiscale s’intende. 

sabato 23 marzo 2013

Il mio libro



Per chi fosse interessato è uscito il mio primo romanzo "Radice di due":


Michele Rotondi è professore di matematica e fisica al Liceo Scientifico Giorgione di Castelfranco Veneto. Non ha una vita sociale, né affettiva. Sullo sfondo di un Triveneto post-produttivo, incattivito e xenofobo, il suo rifugio è costituito dagli scacchi, dalla matematica e da una certa propensione per il sogno ad occhi aperti. E’ un perdente a tutti gli effetti, la cui sconfitta quotidiana si materializza in ricorrenti fantasie erotiche per una collega. Ma un evento improvviso, a tinte gialle, sconvolgerà la vita di Michele Rotondi fino a farlo entrare in una spirale discendente in cui ogni sua certezza verrà sgretolata, anche la più solida: la sua presunta estrema razionalità. 

http://radicedi2.blogspot.ch/

lunedì 14 gennaio 2013

Berner Oberland



Sto diventando svizzero. Alle 7.39 di un un sabato mattina mi ritrovo alla fermata del tram con gli scarponi ai piedi, lo zaino in spalla e gli sci in mano. Sto protestando in silenzio per la colpevole assenza del tram numero 3, in ritardo di ben quattro minuti rispetto all’orario ufficiale: inammissibile.Sempre con gli sci al seguito prendo un treno per Berna, poi una coincidenza di cinque minuti per Interlaken, un’altra coincidenza di cinque minuti per Lautenbrunnen, un bus per Isenfluh e infine una mini funivia operata dai passeggeri. In due ore e mezzo sono passato dalla città più grande della Svizzera al posto più sperduto utilizzando solo mezzi pubblici.La giornata è splendida, perfetta per un week end di sci alpinismo. La salita è morbida, il bosco accogliente, in giro non c’è nessuno. Di fronte a noi c’è la Jungfrau, che in tedesco vuol dire vergine, ma essendo il ghiacciaio più visitato del mondo è più una prostituta che altro.La salita si fa più ripida, la neve fresca si trasforma in neve dura e ghiacciata su una parete esposta a nord, salire diventa difficile, c’è chi si toglie gli sci e sale a piedi. Quando arriviamo in cima il sole sta lentamente scendendo dietro le alpi occidentali. Togliamo in fretta le pelli di foca e scendiamo verso la Hütte più in basso. Purtroppo i miei scarponi si rifiutano di passare dalla modalità “camminata” alla modalità “sci”, ovvero con la caviglia bloccata. Il risultato è che mentre gli altri fanno una serie di curve perfette io faccio una serie di cadute rovinose in perfetto stile Fantozzi. Tento di spiegare la cosa ai miei compagni, ma i problemi con gli sci e gli scarponi sono una scusa tipica del principiante e il dubbio sulle mie capacità reali persiste, soprattutto visto che sono l'unico straniero del gruppo.Dalla Hütte, una casetta in legno con tutto il necessario alla sopravvivenza, si vede uno splendido panorama su Wengen e sulla pista della discesa libera maschile che si organizzerà tra una settimana. Nel buio dell’imbrunire si vedono i gatti delle nevi salire lentamente per il pedio che da lontano sembra quasi verticale. La Hütte è molto bucolica, anche troppo. Per andare in bagno bisogna usare una latrina accessibile per un sentiero di cinquanta metri coperto dalla neve. La latrina dovrebbe essere intitolata a Darwin: solo i migliori sopravvivono.La notte passa in un silenzio irreale, nessuno del gruppo si reincarna in un caterpillar. La mattina è grigia e nevischiosa. Tocca rimettersi gli sci nonostante le gambe intorpidite. Prima una discesa e poi una salita che massacra ulteriormente i muscoli. Poco a poco il cielo schiarisce ed appare il sole: prima pallido e timido, poi un'esplosione di luce che rimbalza sulla neve. Si continua a salire. La cima è a 2.700 metri e di strada da fare ce n'é tanta, ma la pendenza è accettabile e salire è un vero piacere. Arriviamo in cima che è mezzogiorno. Lo sguardo vaga a 360 gradi, non si sa dove guardare: montagne e neve e laghi e minuscole città in lontananza.E poi arriva la ragione di tutta sta fatica: la discesa. Ci aspettano poco meno di duemila metri di dislivello di neve freschissima, praticamente un orgasmo. Questa volta gli scarponi mi assecondano e dove andare lo decido io, con grande piacere, a parte un sasso traditore che provoca lo sganciamento di uno sci e poi dell'altro per farmi atterrare a pelle di leopardo. Ma si tratta di un incidente classico, l'onore questa volta è salvo. L'ultimo pezzo è in pendenza dolce e incrociamo decine di persone in slitta che scendono con bambini piccoli e cani. E' un giorno di festa per tutti sembra.