sabato 26 febbraio 2011

The first mission


Ci sono due file di persone che camminano al lato destro e al lato sinistro della strada: principalmente giovani, tutti uomini. Hanno magliette di Inzaghi, di Messi, di Rooney, camminano ballonzolando, veloci ma senza fretta. Lo stadio di Khartoum si sta svuotando al ritmo di un'enorme clessidra dopo la sconfitta ai rigori della squadra di casa nelle semifinali dalle CHAN, il campionato d'Africa per nazioni. Il sole è tramontato, in lontananza si sente ancora l'eco del richiamo alla preghiera di un muezzin ritardatario. La strada è avvolta nel buio e nella polvere, si vedono solo gomiti e mani e gambe. Le teste si girano tutte all'unisono quando passa un convoglio di limousine nere con i vetri oscurati. Sono uscite dai cancelli dell'ala VIP dello stadio. La gente cerca di scoprire chi si nasconde lì dentro. Sarà Blatter? Michel Platini? Hayatu il presidente della Confederazione Africana di calcio? Oppure un notabile locale, o il rappresentante di una delle società che sponsorizza l'evento?
No dietro quel vetro ci sono io, in giacca e cravatta, lo sguardo perso nella moltitudine. A fianco a me un mio collega, anche lui assorto nei suoi pensiri oppure semplicemente esausto dalla giornata. Nessuno parla. Siamo seduti su copri-sedili di finto pelo di mucca. Con le mani sotto le ginocchia mi sembra di accarezzare un cane husky. L'autista in divisa si tiene incollato alla macchina davanti per non rompere il convoglio. Le luci intermittenti della moto di scorta illuminano di giallo le facce dei curiosi. Dietro di loro il buio e dietro il buio il Nilo.
La macchina si smarca dalla folla, prende un po' di velocità, si affianca a quella davanti quasi a volerla superare. Attorno non c'è più nessuno, solo insegne luminose di negozi vuoti. La macchina passa un semaforo rosso, poi un altro incrocio in cui il traffico è stato fermato dalla polizia. A fianco del marciapiede ci sono delle sedie. Illuminati da una luce fioca del lampione degli uomini fumano il narghilé. Non sento le loro parole, né l'odore dolce del tabacco aromatizzato alle mele. La macchina gira a sinistra, le ruote stridono sul fondo di mattonelle lisce. Si ferma di fronte alla porta vetrata di un edificio di sedici piani a forma di vela. E' il posto dove mangio, dormo e organizzo riunioni informali. Si mormora che sia di proprietà di Gheddafi. E mentre lui parla da un'Apecar con un grande ombrello bianco, io entro in un ascensore dalle pareti di vetro che sfreccia verso l'alto lasciandomi nello stomaco una leggera sensazione di vuoto.


PS: pour la petite histoire la Tunisia ha battuto l'Angola 3 a 0 in una bella finale e la squadra degli impiegati FIFA, con l'aggiunta dell'avvocato dell'Olympique Marsiglia e di un dipendente Adidas ha battuto - contro tutti i pronostici - la squadra degli impiegati dell'albergo, che - oltre a essere veloci, forti e tecnici - avevano il vantaggio di giocare in casa (e conoscere a memoria un pezzo di erba e terra male illuminato e pieno di alberi non è cosa da poco). Ma alla fine vince chi fa piu' gol, poco importa se con la tecnica "palla avanti e pedalare".

sabato 19 febbraio 2011

La casa




La tua casa è la lingua che parli. Era l'anno 2000, o forse addirittura il 1999. L'11 settembre era ancora una data come tutte le altre, tranne - s'intende - per i cileni. Prodi era Presidente del Consiglio e Berlusconi sembrava sul punto di scomparire per sempre dalla scena pubblica. Si scoprì in seguito che più che una meteora era una stella cometa, destinata a tornare ciclicamente, dando l'impressione di essere sempre là.
La tua casa è la lingua che parli. Fu a Strasburgo, in un cinema del centro, una domenica mattina (a Strasburgo ci sono cinema che danno i film a tutte le ore). La sala era mezzo vuota, nonostante la presenza del regista, un italo-americano che aveva fatto un film con Asia Argento. Il film era mediocre, ma la frase del regista mi rimase in testa.
La tua casa è la lingua che parli. Dovrei chiederlo al barbiere di Martastrasse. Casa sua è Zurigo oppure Napoli, la città in cui probabilmente non ha mai vissuto ma di cui ha l'accento. Avrei dovuto chiederlo alle due prostitute dell'est (secondo 20 Minuten, il giornale distribuito gratuitamente nei tram di Zurigo, sono 1.200 le nuove prostitute arrivate a Zurigo nel 2010) che facevano colazione nel bar dietro l'angolo. Il cameriere deve aver pensato che scherzassi quando gli ho chiesto un cappuccino e una brioche. La macchina del caffé doveva essere di puro decoro, l'ultima volta che é stata usata per fare un espresso deve essere stato a fine anni ottanta. E poi la brioche! Dove andremo a finire se la gente, alle dieci di mattina, chiede cappuccino e brioche invece della solita birra?
Se l'italiano è la mia casa, allora trovare casa è piuttosto semplice. E poi posso permettermi il lusso di avere delle seconde e terze case: quelle per le vacanze e il lavoro. Non so che lingua parli casa mia. Forse quella dei pochi oggetti che la abitano, raccolti un po' per caso qui e là, trasportati in tram, tra l'ammirazione e i sorrisi quasi imbarazzati dei zurighesi: chi si scosta per farmi appoggiare il mobile che trasporto, chi mi apre la porta, chi si chiede perché giro con una cassettiera tra la fermata del 33 e quella del 2.
Casa tua è dove c'è il tuo nome al campanello, dove viene gente a cena (quando viene), dove c'è la tua musica, dove non hai paura, dove dormi, dove il frigo è pieno, dove c'è vino, dove puoi passare un sabato sera da solo senza sentirti obbligato ad uscire.

martedì 15 febbraio 2011

Hard & Poor

Come il nostro Presidente del Consiglio, sono anch’io circondato da mignotte. A fianco a casa mia c’é il bar Play Boy, di fronte il club Pattaya, al lato l’Erotik Factory (che per dimensione magari non sembra proprio una fabbrica ma di sicuro un grande labratorio artigianale). Più in là c’é il Sexy Shop Discount, l’equivalente della Lidl nel campo di vibratori anali e pornografía assortita.
Il meno che si possa dire è che Zurigo non è una città moralista. Il principio è che ognuno fa quello che vuole, basta che lo faccia in silenzio, con ordine, che paghi le tasse e che metta la carta fuori dalla porta il giorno della raccolta, legata da una cordicella per evitare che si scomponga quando viene caricata sul camion (attenzione a non confondere la giornata della carta con quella del cartone!). Gli orari dela raccolta sono precisati in un comodo calendario che si può attaccare al frigo e – per chi dovesse avere deficit di concentrazione e memoria – la sera prima arriva um messaggio sul cellulare.
Langstrasse é il cuore dela zona hard. Ogni cento metri c’è un club a luci rosse. Se ci si va il sabato mattina, invece di voyeurs inquietanti che si aggirano con lunghi impermeabili grigi e l’aria circospetta come vuole la classica iconografia, si incontra un’umanità variopinta che gira per le bancarelle di oggetti usati del mercatino di Helvetiaplatz. C’è qualche appassionato d’antiquariato, un improvvisato cultore del vintage, il ragazzo in cerca di una bicicleta usata (o meglio rubata di recente). E poi c’è una maggiornaza di persone – single, in coppia, con tutta la familia – in cerca di oggetti di uso comune che costino poco. Sono gli abitanti poveri di una delle città più ricche della Svizzera, a sua volta uno dei paesi più ricchi al mondo. E’ ad Helvetiaplatz che si possono trovare sci e scarponi usati, piatti e bicchieri, ferri da stiro, strumenti musicali, giocattoli, lampade, pentole, sedie, martelli e cacciaviti. I vestiti sono stinti, le scarpe rovinate, si parla qualsiasi lingua tranne il tedesco.
“Sette Franchi? Ma se prima mi ha detto cinque?” è un uomo sulla sessantina che parla ad una donna sulla settantina, con un forte accento napoletano. “Si deve pur sopravvivere”, gli risponde lei con filosofia, aggiungendo che nel prezzo è incluso l’avvolgimento in carta da giornale e il sacchetto di plastica: un vero affare!