sabato 6 novembre 2010

Fatti e statistiche

Piccolo riassunto del viaggio Guatemala-Argentina attraverso cifre e altre amenità.

Cifre:
- Giorni di viaggio: 176
- Numero di alberghi/ostelli/lodge/rifugi utilizzati: 79
- Media permanenza in un solo posto: 2,2 giorni
- Periodo più lungo in un solo posto: 7 giorni (Corn Islands in Nicaragua e Paraty in Brasile)
- Periodo più corto in un solo posto:  12 ore (Comayagua in Honduras)
- Bus presi (solo extraurbani): 109
- Aerei presi (include a/r e connessioni): 13
- Barche/navi/ferry: 21
- Notti passate in bus/aereo: 8
- Totale mezzi di trasporto utilizzati: 15 (bus, minibus, macchina, bicicletta, moto, risciò a pedali, risciò a motore, nave, canoa, kayak, barca a motore, ovovia, cremagliera, teleferica, aereo,.........)
- Notti passate in sacco a pelo: 4
- Notti in passate in amaca: 8
- Libri letti: 8
- Sudoku fatti: 65
- Valute utilizzate: 10
- Italiani incontrati: 6
- Peso dello zaino: 14 Kg
- Chilometri guidati: 0
- Furti subiti: 3 (10 dollari in un lodge in Honduras, sandali a Paraty in Brasile e occhiali a La Paz in Bolivia)
- Infrazioni commesse: 2 (ostello schifoso non pagato a Sorrento in Colombia e "bus" di ritorno ridicolmente caro non pagato al Parco Corcovado in Costa Rica)




Il posto più...
- Caldo: Granada (Nicaragua)
- Freddo: Quilotoa (Ecuador)
- Alto: 6088 Huayna Potosi (Bolivia)
- Centrale: Mitad del Mundo (Quito, Ecuador)
- Orientale: Olinda (Brasile)
- Occidentale: Galapagos (Ecuador)


Il(la) miglior(e)...
- Tramonto: Jericocoara (Brasile)
- Alba: Amazzonia (Brasile)
- Cielo stellato: salar di Uyuni (Bolivia)
- Centro storico (eccetto Cartagena): Potosi e Sucre (Bolivia)
- Paese: Mompox (Colombia)
- Città: Rio de Janeiro (Brasile)
- Parco nazionale: Corcovado (Costa Rica)
- Cibo: Chez Marine a San Josè (Costa Rica)
- Vino: Chez Paolino a Guatemala City
- Cinema: Otavalo (Ecuador) e Cali (Colombia)
- Musica: Panama City (Panama)
- Paesaggio: salar di Uyuni (Bolivia)
- Spiaggia: Corn Islands (Nicaragua)
- Mare: Utila (Honduras)
- Albergo: Tarija (Bolivia)
- Sito archeologico: Tikal (Guatemala)
- Vulcano: Cerro Chiripò (Costa Rica)
- Avventura: 5 giorni di camminata al Mirador (Guatemala)
- Aeroporto: Quito (Ecuador)
- Metropolitana: Medellin (Colombia)
- Trek: Nebaj (Guatemala)


Il(la) peggior(e)...
- Albergo: Comayagua,  (Honduras), alias "the shithole"
- Tassista: San José (Costa Rica), un vero bastardo: mi ha fatto pagare otto volte il prezzo
- Cibo: El Mirador (Guatemala), sugo con salsa di pomodoro aromatizzata al pollo e ai gamberetti
- Viaggio in bus: Samaipata-Sucre (Bolivia), peggio di così è molto difficile
- Viaggio in aereo: Manaus-Santarém-Belém-Sao Luis (Brasile), iniziato alle quattro di mattina e finito alle dieci
- Viaggio in barca: da Little Corn Island a Big Corn Island (Nicaragua), la doccia non serve


Statistics man

martedì 2 novembre 2010

Il viaggio é finito


E' finito. Non devo piú rifare lo zaino, né scoprire da dove partono i minibus per qualche destinazione, né dov'é il mercato. Non devo trovare una stanza d'albergo, non devo piú cercare una lavanderia a chilo, né cercare un posto economico dove mangiare. Non ci saranno piú mappe da consultare, viaggiatori da interrogare, serate sociali con perfetti sconosciuti. Non ci sará piu' il troppo caldo o il troppo freddo, notti insonni nei bus, il vicino di letto che russa, il tassista che ti fa la cresta, la coppia francese che va in panico perché ha paura anche dell'aria che respira. Niente piú ghiacciai da scalare, vulcani da conquistare, spiagge per dormire, animali da andare a scovare. Niente piú percussioni che suonano per strada, venditori che salgono sui bus, amigos che ti propongono di tutto. Basta crema solare, cappellino, scarpe da montagna. Finito quel senso di estraneitá nell'arrivare in un posto sconosciuto e anche quello di familiaritá dopo qualche ora che cammini per delle strade ormai tue. Niente succhi di frutta fresca bevuti nei baracchini agli angoli di una piazza, né pollo e riso, né fagioli, né zuppe calde con zampe di gallina che escono dal piatto. Nono ci saranno piú piatti sconosciuti (quasi sempre nomi diversi dati alla trippa) che si masticano con i denti che non hanno il coraggio di toccarsi. Non ci saranno piú isreliani rumorosi, coscienziosi tedeschi che sottolineano la guida come fosse un libro di testo, americani che non riescono neanche a dire gracias, francesi che devono intellettualizzare anche la carta igienica. Niente piú post sul blog, ricerche su internet per trovare un posto da dormire o per comprare un biglietto aereo.
Questa è l'Italia, il posto che chiamo casa. Come sempre, ogni volta che torno la trovo piu' triste, piu' ripiegata su se stessa, un po' incarognita, ma per il resto uguale a se stessa. L'ultimo scandalo sessuale sembra scorrere sulla pagine dei telegiornali come una lacrima nella pioggia che cade senza interruzione da quando ho messo piede a terra all'aeroporto di Venezia. Quella stessa pioggia che non è caduta quasi mai in circa sette mesi di vagabondaggio.
Mentre una nuova giornalista del TG1 spiega che è meglio essere puttanieri che gay, ripenso ad una poesia di Kavafis:

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
- devi augurarti che la strada sia lunga,
- fertile in avventure e in esperienze.
- I Lestrigoni e i Ciclopi
- o la furia di Nettuno non temere,
- non sara` questo il genere di incontri
- se il pensiero resta alto e un sentimento
- fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
- In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
- ne’ nell’irato Nettuno incapperai
- se non li porti dentro
- se l’anima non te li mette contro.

- Devi augurarti che la strada sia lunga.
- Che i mattini d’estate siano tanti
- quando nei porti - finalmente e con che gioia -
- toccherai terra tu per la prima volta:
- negli empori fenici indugia e acquista
- madreperle coralli ebano e ambre
- tutta merce fina, anche profumi
- penetranti d’ogni sorta; piu’ profumi inebrianti che puoi,
- va in molte citta` egizie
- impara una quantità di cose dai dotti.

- Sempre devi avere in mente Itaca -
- raggiungerla sia il pensiero costante.
- Soprattutto, non affrettare il viaggio;
- fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
- metta piede sull’isola, tu, ricco
- dei tesori accumulati per strada
- senza aspettarti ricchezze da Itaca.
- Itaca ti ha dato il bel viaggio,
- senza di lei mai ti saresti messo
- sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

- E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
- Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
- gia` tu avrai capito cio` che Itaca vuole significare.





Ulisse

sabato 30 ottobre 2010

Buenos Aires

Buenos Aires é una Parigi in cui si mangia italiano e si parla spagnolo. Qui siamo in Europa, l'America Latina é lontana, marginale, periferica. Questo é il centro del mondo, o meglio un ritaglio di mondo antico nel pieno del mondo nuovo.
Dopo mesi di almuerzos nei "ristoranti" piú improbabili, vedere tanta abbondanza di caffé, locali, menu, design é un piccolo shock culturale. Come un vero campagnolo incollo il naso alle vetrine, fisso la gente per strada, mi schiaffeggio per essere sicuro di quello che vedo. La Paz é un ricordo.
Gli argentini sono argentini, quasi tutti li odiano, ma a me piacciono. Mi fa tenerezza la loro retorica molto italiana (si parla per il gusto di sentirsi parlare), il loro senso di superioritá innato, l'accento, le parole che esistono solo qui (laburar invece di trabajar, fiaca invece di pereza, boliche invece di discoteca). La medaglia d'oro per la migliore espressione va alla frase "soy Gardel con una guitara electrica".
Vicino a Plaza de Mayo, la piazza centrale dove le madri dei desaparecidos hanno lottato per decenni contro l'impunitá ed il silenzio, c'é una chiesa che nel frontespizio ha quattro statue. C'é San Francesco in posizione principale e sotto di lui ci sono Dante Alighieri, Giotto e Cristoforo Colombo (!). Ma il cuore dell'italianitá é La Boca, il quartiere costruito dagli immigrati italiani all'inizio del ventesimo secolo.
E' mercoledí, ma non c'é nessuno per strada. Oggi é giorno di censo e - per un'organizzazione assurda - tutto é chiuso per legge. La gente deve stare a casa ad aspettare di essere censita (anch'io, nell'ostello, sono stato debitamente contato). Non c'é un ristorante aperto, non un negozio. Chi - come me - sta girando la cittá, dovrá aspettare le otto di sera per mangiare. La Boca é un quartiere popolare, senza molti fronzoli, e forse per questo molto vero. La Bomboniera, lo stadio del Boca Juniors, é una presenza costrante, anche quando é vuota. Per strada si respira calcio, unica attivitá di questa giornata di paro.
Quando torno verso il centro, la Casa Rosada, il Palazzo Presidenziale, é circondata da polizia. Il bandierone che sventola sul retro é a mezz'asta. E' morto Kirchner, l'ex-Presidente, marito dell'attuale Presidenta. La gente aspetta il turno per entrare nella camera ardente con dei fiori. La strada d'accesso é bloccata al traffico e varie persone stanno camminando verso la piazza. Si forma una coda. C'é un venditore di hot dogs che sta facendo affari. Appare un venditore di bandiere: una bandiera dieci pesos. Arrivano anche venditrici ambulanti di fiori: rose e garofani (Kirchner era peronista-socialista). Le strade laterali sono piene di furgoni di televisioni locali con generatori che fanno un rumore bestiale. I gornalisti si pettinano, si guardano allo specchio, si sistemano la giacca. I cameramen - come sempre - hanno l'ara annoiata di chi ha visto di tutto e non vede l'ora di poter andare a farsi una birra in santa pace.
Il giorno dopo la pìazza deborda di gente. Una fiumana umana si incammina lentamente verso la camera ardente. Ci sono striscioni "fuerza Cristina", un pupazzo gigante con la faccia della Presidenta, cartelli che dicono "Nestor, Evita e Perón juntos en el cielo". Mancano solo il bue e l'asinello. La folla rumoreggia. Partono cori da stadio, sventolano bandiere. Uno schermo gigante mostra le immagini della camera ardente: la gente entra, alcuni urlano frasi di sostegno alla Presidenta, altri fanno dei piccoli discorsi: pugni alzati o mani che mandano baci alla bara.
La sera, nel Puerto Madero, il quartiere chic che ha preso il posto dei vecchi docks del porto, Nestor Kirchner é giá dimenticato. La gente riempie i ristoranti, quintali di carne stanno cuocendo sulla brace (la carne argentina ha ritardato di almeno dieci anni al mia decisione di diventare vegetariano). Dopo cena si beve e dopo ancora si balla. L'Asia Cuba é the place to be. La musica é disco-techno, la pista ci mette un po' a riempirsi, ma quando il DJ mette i grandi classici tutti iniziano a dimenarsi, nel fumo illuminato da luci stroboscopiche. Tutte le discoteche del mondo sono uguali e in tutte c'é la stessa musica. Niente salsa, niente merengue. Questa é Londra non Cali.
Gaucho

giovedì 28 ottobre 2010

Bus e frontiere


Il viaggio è come lo show: it must go on. Alle sei di pomeriggio sono di fronte ai trasporti La Veloz, che gestisce i traxi che vanno a Bermejo, alla frontiera con l'Argentina. Mentre l'auto segue le curve della strda, il cielo diventa di fuoco e i profili scarni delle montagne si tingono di varie tonalità di blu, mentre i vitigni scorrono ai lati della strada. Si fa buio pesto su una strada senza lampioni. Ogni tanto appare all'improvviso un asino, una mucca, una capra, un cane o delle persone. L'autista impreca contro i padroni degli animali e racconta tutti i suoi aneddoti di incontri ravvicinati con mammiferi suicidi. Poi armeggia per un quarto d'ora con un sacchetto di foglie di coca, selezionando le migliori nel tratto di strada con più curve. In sottofondo c'è una musica locale che parla di mucche, cavalli e donne ed è un misto tra musica llanera colombo-venezuelana e una ranchera messicana. In altre parole una vera schifezza.
Al posto di blocco prima di Bermejo scendo per le formalità doganali. In dodici secondi netti ho il visto d'uscita sul passaporto. Ripartiamo. Quando il taxi si ferma, l'autista mi informa - con faccia innocente - che abbiamo passato da un pezzo la frontiera e che non sapeva che volevo andarci (certo, colleziono visti d'uscita per purto piacere!). Riprendo un altro taxi, con un autista ancora piú autistico del precedente, che semplicemente non ascolta quello che gli dico e tenta di indovinare a caso. Riformulo la domanda in vari modi: "frontiera argentina", "passaggio verso l'Argentina", "il posto da cui partono i bus per Buenos Aires". Il tassista sembra spiazzato da tante varianti e alla fine mi lascia di fronte ad un cartello con scritto "boleteria". Per due bolivianos compro un biglietto che mi permetterà di attraversare un fiume su una barca a motore. Dall'altro lato una baracca con un cartello "migracòn" mi dice che sono in Argentina. Dentro, tre pingui gendarmi che mi ricordano i sottuficiali della mia visita militare (non proprio la memoria più bella della mia vita) stanno guardando una televisione con volume troppo alto, bevendo mate e mangiando empanadas. Ci vuole un po' prima che il più atletico dei tre prenda il mio passaporto e inizi una lotta incruenta ma agguerrita contro il computer. Quindici minuti dopo avrò il mio visto d'entrata.
Ora devo trovare Flecha Bus che dovrebbe portarmi a Buenos Aires in 28 ore più o meno: sono le undici di sera. L'ufficio è illuminato, ma l'uomo un po' rincoglionito  che sta guardando la televisione non sa niente. Bisongna aspettare "el muchacho" che è andato a cenare, ma non si sa dove. Dopo una mezz'ora scende da una moto un ragazzotto cicciottello che mi spiega cosa mi aspetta: taxi per Oran (Camus non c'entra), bus da Oran a Guermes (partenza alle 2 arrivo alle 5) e bus da Guermes per Buenos Aires (partenza alle 8.30 arrivo alle 4 del giorno dopo). Evviva!
Il tassista che porta me e il ragazzotto ad Oran sta ascoltando - in omaggio a tutti gli stereotipi - una trasmissione radiofonica dedicata al tango. Ad Oran arriva anche la sorella del muchacho che mi spiega i suoi problemi di salute: ha una valvola cardiaca artificiale, deve prendere anticoagulanti e a causa di un incidente in moto ha una caviglia che sembra un melone. Saliamo sul bus. Alle cinque l'aiuto autista mi sveglia. La stazione di Guermes è mezzo addormentata. Ci sono una decina di persone che stanno aspettando e un ubriaco molto rumoroso che urla cose incomprensibili al tipo della bigliettertia che lo ignora. Mi siedo sull'unica panchina vicino a cui qualcuno ha vomitato di recente. Verso le sei vado in una specie di caffetteria dove ordino un sandwich di lomito (carne, mayonese, uovo fritto) e un mate. La televisione è accesa e guardo la fine della partita del campionato francese di rugby Toulouse - Stade Français, che ha la solita maglietta rosa a motivi floreali e in cui gioca il quasi compaesano Mauro Bergamasco (il fratello Mirko è assente). Per la cronaca vince il XV dello Stade per 22 a 15, nonostante quattro calci piazzati e un drop di Jonny Wilksinson.
Alle otto e mezzo riparto sul bus Tata Rápido. Il facchino che carica il mio zaino vuola una propina e si arrabbia quando non gliela do. L'Argentina sarà anche uno degli stati più sviluppati dell'America Latina, ma è anche l'unico in cui le compagnie di trasporto non pagano i facchini. Il viaggio da Guermes a Buenos Aires è un infinito paesaggio piatto di soli pascoli. Per ore e ore si vedono solo alberi, prati e mucche. Ogni tanto una città immersa nel torpore domenicale, un po' triste e decadente, con molta immondizia lasciata qua e là. La pausa pranzo si fa in un ristorante anni '70: uno stanzone immenso prieno di tavoli e sedie in similpelle. Anche il cibo - cotoletta con purè - sembra sia stato cotto alla stessa epoca. I prezzi, me ne sono già reso conto, sono almeno il doppio o il triplo di quelli boliviani. Il pomeriggio passa in un secondo, con tre film guardati a spezzoni ascoltando la mia musica, con una sensazione di deja vu. A tratti mi sento come in un video musicale: the tormented singer watching the landscape pass by.
Poi verso le nove di sera il miracolo. Dopo mesi di viaggi in bus - molti quelli notturni - avviene il fatto strano, più che altro non sperato: mi addormento. Non è il sonno semicosciente interrotto da luci e rumori, tra una frenata e l'altra. Questo è vero e proprio dormire, per ore, senza memoria alcuna. Mi sveglio alle tre di mattina, felice. Verso le quattro il bus arriva a El Retiro, la stazione di Buenos Aires che sembra un aeroporto: tirata a lucido, caffè aperti 24 ore e anche delle edicole (l'ultima l'ho vista a Rio de Janeiro tre mesi fa) con dei veri giornali patinati. Per quattro dollari prendo un mate e due mini-croissants aspettando di poter arrivare in albergo senza il rischio di farmi tagliare a pezzi dal guardiano di notte. Sono le sei di mattina. Delle uime 85 ore solo 8 le ho passate in un letto .
Sleeper

martedì 26 ottobre 2010

Tappa di trasferimento

Dopo essere diventato un bastonicno Findus a causa dell'altipiano andino, mi sto lentamente scongelando a Tarija, nel sud della Bolivia che - nonostante sia a più di 2000 metri - ha un clima da primavera inoltrata da far venire i brividi (di piacere). Via la giacca a vento, via i maglioni, via ddirittura la felpa: nudi alla meta.
Non solo qui fa caldo, ma sembra di essere in Europa, o meglio in Argentina, che è poi la stessa cosa. Belle donne per strada in vestiti succinti, vino nei bar, prosciutto nei ristoranti e vecchietti che si prendono in giro seduti ai tavolini della piazza centrale bevendo birra. La giornata soleggiata (e l'albergo decente) fanno dimenticare l'ennesima piccola odissea per arrivare qui da La Paz: il bus che parte alle cinque di sera ed arriva alle undici di mattina, la fermata infinita ad Oruro a caricare trenta casse da concerto di un metro e mezzo per un metro (come siano entrate nel bagagliaio ancora non l'ho capito), la fermata alle tre di mattina per svuotare vesciche troppo piene, quella alle quattro per fa salire la mia vicina di sedile (per fortuna molto bassa e non troppo grassa), quella alle otto per rendere il propritario di un bagno pubblico miliardario nel giro di un quarto d'ora, le salite e discese vertiginose per strade sterrate attraversando minuscoli ponti traballanti, il vecchietto sdentato con la bocca piena di foglie di coca che vuole fare conversazione, i paesaggi da film western in cui mancano solo gli indiani e la diligenza, i banchi di nebbia a 4000 metri e - non dimentichiamolo - ore ed ore ininterrotte di orrida cumbia, la musica sudamericana più insopportbile dopo il reggeton.
Nessuno

sabato 23 ottobre 2010

Quei 198 metri in più

6088 è un numero che può dire poco. Ma per chi non riesce ad evitare di competere con se stesso, 6088 metri vogliono dire un altro record personale. Potevo non accettare la sfida?
Il mio compagno di avventura per la scalata al Huayna Potosi è un pannocchione austriaco che durante tre giorni non riuscirà a dire una cosa divertente e/o interessante. Assieme alla guida arriviamo a 4.700 m al "campo base", nome un po' troppo pomposo visto che ci si arriva in macchina. Per fortuna arrivano altri escursionisti per cui la vita sociale si prospetta piú rosea del previsto. Il pomeriggio è dedicato ad acclimatarsi, fare un giro per il ghiacciaio e giocare un po': con imbrago, corda e picozza facciamo delle prove di scalata su una parete di ghiaccio verticale. Sarà che è da un po' che non arrampico, oppure a causa dell'altitudine, ma il primo tentativo va maluccio. Il mio stile "culo in fuori" è poco efficace e dopo qualche minuto ho le braccia che non si muovono più. Lascio il campo al pannocchione che - con molta fatica - riesce ad arrivare in cima. L'arrivo di altra gente (tra cui ben quattro ragazze) non mi lasciano scelta: bisogna arrivare in cima, costi quel che costi. Mi lego di nuovo e questa volta seguo il consiglio della guida: "cojones contra la pared". Tra varie cadute e scivolate riesco comunque ad arrivare in cima. Le braccia, però, non le sentirò per le prossime tre settimane.
La cena al campo base è, ci mancherebbe altro, molto basica. Attorno alla tavolata si incrociano conversazioni in inglese, francese e spagnolo. L'atmosfera nei rifugi è sempre speciale, permeata di un'attesa leggermente elettrizzante, ma allo steso tempo rilassata. Anche le più banali conversazioni di viaggio (il Perù, il salar di Uyuni, chi è stato al lago Titicaca?) diventano interessanti. Dopo cena dò un'occhiata alla partita di scacchi tra una guida e la figlia della padrona del rifugio, poi mi metto a leggere il libro che ho comprato a Copacabana: "Night" di Elie Wiesel, che parla dell'odissea dell'autore in vari campi di concentramento polacchi. Alla parete del rifugio c'è una carta geografica con le bandiere di tutti i paesi, il loro nome e la loro capitale. C'è una capitale che è cancellata, a proposito. Al posto di Tel Aviv, una mano sconosciuta ha scritto una parola di cui si distinguono solo le ultime lettere "alen". Avrei voglia di prendere una penna e cancellare "Jerusalem" per riscrivere "Tel Aviv", perchè un popolo che ha sofferto tanto dovrebbe avere più rispetto per il dolore degli altri.
La notte si dorme poco e la mattina si fanno degli zaini che sembrano dei grattacieli. Il mio, tra scarponi da ghiacciaio, vestiti, sacco a pelo, acqua e un po' di cibo deve pesare attorno ai venti chili. Lasciamo i 4700 metri per andare al secondo rifugio a 5200, questa volta a piedi. Pensavo che la salita mi avrebbe massacrato, ma invece salgo senza troppi problemi. Si fa una sola pausa, verso 4900, dove due donne vestite in abiti tradizionali, in una casetta di sassi senza tetto, in mezzo a roccie e neve, fanno pagare l'"entrata" alla montagna: un dollaro e mezzo.
Il rifugio "campo alto roca" ha la forma di una chiesetta di montagna. Qualche alpinista appena rientrato dalla cima sta mangiando qualcosa con faccia stravolta. Il rifugio è avvolto dalla nebbia e fa un freddo pungente. Non resta altro da fare che rimanere nel sacco a pelo ad aspettare la cena, mentre lo stanzone in cui si dorme si riempie rapidamente di gente. Quando sarà ora di andare a dormire non rimarrà un centimetro libero sul pavimento e la notte si riempirà di odori e rumori. Nessuno chiuderà occhio.
La sveglia è per mezzanotte. I sacchi a pelo si muovono come grossi vermi per far uscire braccia e gambe. Una ventina di zombie cercano vestiti e attrezzatura nella penombra attraversata dai fasci delle lampade frontali. Dopo venti minuti ho indosso tre paia di pantaloni, cinque strati tra maglie e giacca a vento, due paia di calzini, un imbrago, berretto, casco e guanti. La colazione si mangia in fretta, senza appetito. La mente è altrove. La mente è a 6088 metri.
Quando usciamo, la luna ci accoglie con una luce calda riflessa dalla neve. Orione dorme sonni tranquilli in mezzo al cielo australe. Si montano i cramponi, ci si lega con la corda, si seguono le tracce di chi è partito prima di noi. Si cammina lenti, con passo cadenzato, seguendo il fascio della torcia, la respirazione che segue i movimenti delle gambe. La salita è ripida ma non massacrante, ogni tanto si ha l'energia di guardare le montagne e le stelle. In lontananza si vedono le luci tremolanti di La Paz. Camminiamo per un'ora senza fermarci: due passi, un respiro. Poi la salita si fa più ripida: un passo, un respiro. Passiamo dei crepacci, dei piccoli pezzi più tecnici: picozza, puntare i cramponi, la corda si tende, fiatone. Via via riprendiamo quelli partiti prima di noi. Nessuno sta correndo, solo andando al suo ritmo.
Il pezzo più duro dell'ascesa sono gli ultimi venti minuti, dove la pendenza non perdona. Si vede la cima, è lì vicino, ma le gambe sono di piombo, l'aria non esiste. Respirare, respirare, respirare. Alle cinque e cinquanta siamo in cima. Il sole non è ancora sorto, ci stava aspettando. In pochi minuti l'aria diventa rossa, i profili delle montagne innevate si fanno più nitidi, si riesce a vedere tutto attorno per chilometri: laghi, ghiacciai, vallate. La cima si fa via via meno esclusiva. Non c'è più solo il francese arrogante che ha pagato per farsi portare  il suo zaino al secondo rifugio dalla moglie della sua guida. Arrivano gli altri, con le facce pietrificate in una smorfia di fatica e di vittoria. Mancano alla conta solo tre persone, che sono dovute rientrare a causa dell'altitudine o della fatica. Tempo per le foto, per le pacche sulle spalle, poi si scende.
Il sole è alto nel cielo, la luce riflessa dalla neve accecante. Una sensazione di intenso piacere mi pervade. Si scende scivolando e guardando il paesaggio. Dopo poco inizia a fare caldo. Ci si ferma a togliersi uno degli strati a cipolla. Il caldo si fa più intenso, il sole implacabile. Scendere non è più un piacere: caldo, fatica, l'austriaco che cammina lento e la corda che intralcia i passi. In poco tempo la discesa è un vero e proprio calvario. Non si riesce a credere che abbiamo camminato tanto nel buio della notte. I passi si fanno pesanti e la neve si fa pesante, attaccandosi al fondo degli scarponi. Il rifugio appare in fondo alla discesa, ma i minuti che ci separano da lui sembrano interminabili. Quando arriviamo alla fine del giacciaio e ci togliamo corda e cramponi ci sentiamo liberati. Cinquanta metri ci separano dal rifugio, ma sono in salita. Quando riesco a sedermi sulla prima sedia che trovo, il mio corpo si ferma, immobile. Dovrebbe finire di svestirsi, togliere gli scarponi, cambiare la maglietta, ma rimane  immobile, alla ricerca di qualche grammo residuo di energia.
Ad ogni salita corrisponde una discesa.

giovedì 21 ottobre 2010

Nella vallata della pace

Il colpo d'occhio di La Paz, arrivando in bus, è da far perdere il respiro, e non solo per i 3.600 metri che ne fanno la capitale più alta del mondo.I versanti della vallata sono letteralmente ricoperti da una moquette di costruzioni di mattoni grezzi (l'intonaco non è di moda in Bolivia), che non lasciano neanche uno spazio libero: non un albero, non un'aiuola. In confronto, le costruzioni abusive sui fianchi del Vesuvio appaiono come delle ville venete.
A prima vista La Paz sembra una specie di inferno su terra. Non é cosí. Nella realtà è molto accogliente e gentile con i nuovi arrivati. Non è bella, ma la gente per le strade che vende di tutto a tutte le ore, le migliaia di minibus che percorrono le stradine in salita sgasando e strombazzando, il sole che appare e scompare come una star di Hollywood cambiando il paesaggio (e la temperatura) in un microsecondo, i mercati strapieni di gente, tutte queste cose assieme la rendono unica.
Il cinema ¨16 di luglio¨ è un immensa sala da duemila posti, con le pareti ed il soffitto ricoperti da centinaia di cartoni porta-uova. Alla sessione delle nove e mezza, a vedere il film argentino "Aparecidos" che mischia horror psicologico alla dittatura degli anni 80 (sorpendentemente riuscito) non c'è nessuno. La gente, il sabato sera, cammina per le strade. Tra mezzanotte e l'una inizia ad entrare nei locali: c'è il Mongo's, quello fighetto che riesce a mala pena nell'intento, il Traffic con la musica house dove c'è solo qualche gringo che fuma sigarette non-stop, il Mama Diablo che fa musica latina dal vivo dove il buttafuori non fa entrare un ubriaco troppo vivace ed il Target Urbano, il locale alternativo dove un gruppo rock scopiazza i Cranberries in versione locale. Ma la stragrande maggioranza delle persone, il sabato sera, si dedica alla Paceña, la birra nazionale. Le strade di La Paz si trasformano in orinatoi pubblici e in dormitori a cielo aperto per chi non riesce ad arrivare a casa in tempo. Se ci si sveglia presto la mattina, li si ritrova ancora lì, addormentati per terra, con posture da cadaveri colpiti da un fulmine. Come resistano al freddo della notte resta un mistero.
Il biglietto per vedere il gruppo andino che si definisce "fuerza tellurica de los andes" costa un dollaro e mezzo. Quello più caro ne costa tre. Il gruppo non si risparmia e - per più di due ore - suona senza pause melodie andine rivisitate, con gruppi folklorici che ballano sul palco con vestiti multicolori. Non è uno spettacolino kitch per turisti (gringos in giro non ce ne sono). Il teatro è pieno di paceños che battono le mani a ritmo e applaudono con più foga ogni volta che uno dei musicisti fa un cenno. Qui la musica tradizionale è la vera musica, ascoltata, ballata, suonata praticamente da tutti.  
La domernica mattina si fa il bis. Sulla strada principale di La Paz c'è gente seduta sui muretti e venditori ambulanti che fanno affari. Passa una banda seguita da un gruppo di danze popolari. Gli uomini indossano enormi maschere che rappresentano spiriti maligni, le donne larghe gonne colorate. Nè la banda nè i ballerini vanno molto a tempo, ma la perfezione non è caratteristica boliviana. I ballerini bevono birra e mangiano degli snack tra una giravolta e l'altra. Passa il primo gruppo, poi un secondo, un'altra banda ed un terzo. I vestiti includono elementi tradizionali ad altri visibilmente importati: a splendidi tessuti artigianali si mischiano cravatte, cappelli a bombetta, stivali con la zeppa in stile travestito e minigonne vertiginose. La tradizione non é un concetto statico, ma evolve con il tempo.
Illimani

domenica 17 ottobre 2010

Il lago di Dio

Dio è nato sull'isola del Sole nel lago Titicaca. Il suo nome è Viracocha e - secondo gli Inca - ha creato il mondo. Non è chiaro come sia potuto nascere da un posto che avrebbe dovuto creare dopo la sua nascita, ma è meglio non cercare il pelo nell'uovo. Sia come sia, il lago Titicaca, con la sua luce accecante, l'acqua blu scuro, i contorni di montagne innevate, la sua aria rarefatta e sempre pungente emana una sensazione di intensa spiritualità che non lascia indifferente nanche uno scettico e un ateo inveterato come me. Il posto è speciale, punto. Sia che uno cammini per le rive brulle e cosparse di piccoli campi terrazzati dove in questo momento i contadini stanno arando con i buoi e seminando a mano, oppure che lo si attraversi su una barca a motore lentissima, non si sa da che parte guardare. Le montagne che entrano nell'acqua disegnano curve su tutto l'orizzonte, il cielo ti avvolge, l'acqua rifrange i raggi del sole.
Titicaca è la distorsione spagnola di Titikarka, ovvero roccia del giaguaro, divinità adorata da popolazioni preincaiche, che vedevano in una roccia dell'isola più grande il profilo di un gatto (ci vuole un po' di immaginazione, ma più o meno...). Poi arrivarono gli inca con un dio molto più potente: il sole. Infine arrivarono gli spagnoli che si rubarono tutto l'oro dei templi e dimostrarono con i fatti qual era il dio più potente di tutti. Nonostante siano passati più di 500 anni dal "ravvedimento" dei popoli indigeni, il lago Titicaca rimane meta di pellegrinaggi. L'isola del sole è il pellegrinaggio obbligato di tutti i turisti che passano di qua, mentre la Vergine di Copacabana è la meta di pellegrinaggio per i fedeli che vengono a chiedere la grazia, accendendo una candela in una cappella semibuia e con il tetto che fa acqua, mentre la chiesa del seicento lì a fianco è totalmente snobbata.
Inti

mercoledì 13 ottobre 2010

Bolivia en passant

La Bolivia è una delle patrie nascoste e insospettabili degli scacchi. Non ha prodotto Grandi Maestri, nè organizza tornei internazionali. In compenso la gente gioca. A Coricoro, un paesino a tre ore da La Paz, sulla piazza principale, il sabato mattina, c'è un torneo. Ci sono i juniors che giocano seduti su delle panche e gli adulti che hanno diritto ad un tavolino di metallo e a delle sedie. Una signora con in mano un foglio e una penna annota nomi e risultati di grandi e piccini. Come ogni gruppo di scacchisti che si rispetti, anche qui c'è un'amalgama di zoppi, ciechi, sordi, asociali cronici e pazzi di ogni tipo. Noi scacchisti siamo il gruppo di "diversamente abili" più ammirato al mondo. Anche qui passanti e curiosi si fermano ad osservare con sguardi strabiliati il muoversi dei pezzi, cavalli che mangiano alfieri, regine che danno scacco, il mistero dell'arrocco, i tic incontrollati dei giocatori, nascondendo a mala pena un leggero senso d'inferiorità. Se capissero qualcosa di scacchi si renderebbero conto che più che arte si tratta di piccolo artigianato, più che intelligenza matematica c'è furbizia. Mi viene in mente il circolo scacchistico Giorgione, in cui mi sono fatto massacrare per anni dal signor Conz, talento incompreso degli scacchi che - lamentandosi della moglie e degli acciacchi dell'età - cercava di farti scacco matto con una ferocia inaudita e con tatticismi degni di Tal.
Non posso trattenermi dal rimanere a guardare la gente giocare, finché non vengo invitato a sedermi anch'io. La signora con in mano il foglio mi recluta al volo perchè Raùl è scomparso ed hanno bisogno di un giocatore. Mi mette a giocare con un signore con una grossa stampella che cade immediatamente in un piccolo tranello d'apertura (1. e4 e5; 2. Cf3 Cf6; 3. Cxe5 Cxe4 (?); De2 Cf6 (??)) e mi regala la regina dopo quattro mosse. In nome di Raùl vinco la partita. I passanti guardano ammirati il gringo vincente, mentre l'instancabile signora recluta un altro giocatore per una partita amichevole. Si chiama Roberto, è calabrese e vive qui da abbastanza tempo da non riuscire più a distinguere l'italiano dallo spagnolo. Roberto parla poco e non gioca male, ma lascia in presa un cavallo. Quando vinco mi spiega che avrei potuto vincere prima prendendo un pedone en passant. E' un classico degli scacchi - e forse della vita - vedere le mosse degli altri e non le proprie.
Fuori dalla piazza di Coricoro c'è calma. Le stradine di acciottolato si trasformano in piccoli campi da calcio in pendenza per bambini con buoni polmoni (in questi casi è sempre meglio giocare dall'alto verso il basso). Salendo verso la montagna le case si diradano. la strada diventa sentiero, gli edifici arbusti. Si attraversano dei campi rubati alla montagna in cui donne ricurve zappano la terra. Le piantine sono piccole ed hanno delle foglie piccole e molto verdi. Le piantine sono di coca e servono - almeno ufficialmente - a produrre foglie di coca da masticare, attività tradizionale di praticamente tutti i boliviani, in particolare i minatori, muratori e chiunque faccia fatica. Il motto è coca sì, cocaina no. I narcotrafficanti ringraziano.
Kasparov

domenica 10 ottobre 2010

Sogni di sale

Il giro per il salar de Uyuni inizia con un'esperienza musicale surreale: la versione disco di "Voglio vederti danzare" di Battiato (secondo Wikipedia, la versione fu presentata nel 2003 al Festivalbar!). La musica è di Elois, l'autista della Land Cruiser Toyota un po' scassata di cui si aprono due porte su quattro. Sullo stesso CD c'è anche una versione de l'"Italiano" di Toto Cutugno e una serie di altre canzoni orride. Essendo l'unico CD in macchina, passerà in circolo senza interruzione per tre giorni.
La macchina lascia Uyuni, un posto in cui l'unica attrattiva è un cimitero di vecchie locomotive a vapore utilizzate il secolo scorso sull'unico binario - ancora in funzione - che collega la Bolivia al Cile passando per le Ande. Poco lontano da Uyuni inizia uno dei paesaggi più strani al mondo: un lago salato che durante la maggior parte dell'anno diventa un deserto di sale grande più che l'Abruzzo, che rispecchia di un bianco accecante la luce del sole a quasi 4000 metri sul livello del mare. La macchina corre veloce in un silenzio irreale, per piste che si distinguono a fatica. In mezzo al salar non si vede altro che bianco, in tutte le direzioni. Poi via via dei profili di montagne appaiono con degli effetti ottici che le fanno vibrare e ne tagliano i contorni in modo da farle sembrare galleggianti. In mezzo al salar c'è la isla del pescado, chiamata così perche` a forma di pesce, che appare come un minuscolo puntino nero per poi diventare un enorme scoglio in mezzo al mare di sale, piena di capelli a spazzola. Quando ci si avvicina ci si rende conto che i capelli sono dei cactus centemari giganti, alcuni dei quali arrivano ai nove-dieci metri. Da in cima l`isola lo spettacolo è unico, indescrivibile, accecante.
Lasciamo l'isola del pesce per andare a dormire in un albergo di...sale. I mattoni sono dei blocchi estratti dal salar e anche il pavimento è di sale fino. Verso le sei cala il buio sul paesino di San Josè. In una penombra spazzata da un vento gelido, dei bambini danno dei calci ad un pallone in uno dei campi da calcio piú sconosciuti e piú alti al mondo. Assieme ad altri gringos cerchiamo di fare una partita, ma i ragazzini ci guardano scettici e indicano il cielo che sta diventando scuro. Di qui a breve la temperatura scenderà sotto zero ed è meglio tornare a casa il più presto possibile.

Il secondo giorno di viaggio passiamo per dei paesaggi montagnosi e desertici, ma mai monotoni. Le montagne brulle sono intervallate da varie lagune, tutte di colori diversi: verde, rossa, blu. In molte di queste lagune ci sono dei fenicotteri rosa che camminano con le loro buffe zampe che si piegano al contrario, rovistando il fondo basso e melmoso alla ricerca di cibo.
La seconda sera si dorme a 4.400 metri, ma mentre i vari gruppetti di turisti si sistemano nelle stanze spartane per la notte, lascio tutti per salire sulla montagna vicina, camminando per due ore contro un vento feroce, con la laguna che si fa sempre piú piccola. Quando il sole cala, il freddo più pungente che abbia mai sentito si manifesta come una coperta di ghiaccio. Ma più che il freddo, quello che fa paura è il fatto che il rifugio ha dei vetri da casa al mare, un tetto di plastica e naturalmente non è riscaldato. Sfidando la sorte, esco la notte a guardare le stelle, con la via lattea che disegna contorni bianchi così densi da sembrare nuvole. Quando rientro mezzo congelato tento di dormire tra le risate sguaiate di un gruppo di francesi che dopo una bottiglia di vino sembrano dei moscoviti che rientrano a casa alle quattro di mattina ed il respiro da serial killer del mio vicino di letto.
La sveglia è per le quattro e mezza. Due ore dopo, ancora rintronati dal sonno e dallo sballottamento della pista sterrata, cammineremo in mezzo al vapore sulfureo sparato in cielo da decine di geyser. Un modo come un altro per riscaldarsi un po', anche se più ci si sta, più i vestiti diventano umidi. Ma le sorprese non sono finite. Alle sette di mattina, con una temperatura ancora ben al di sotto dello zero, appare l'ultima laguna da cui sale vapore che rifrange i raggi del sole nascente, facendo apparire e scomparire fenicotteri ed altri uccelli che si avvicinano all'acqua calda. Qui c'è una fonte termale e, dopo colazione, svestendosi alla velocità della luce, ci si può fare il bagno. La sensazione di piacere nel fare un bagno bollente in un posto gelido è senza pari. Quando si entra si ha voglia di rimanerci per l'eternità.
Il resto della giornata è logistica. Accompagnamo una coppia finlandese alla frontiera con il Cile: una casetta in mezzo al deserto, con una sbarra alzata. Faccio un salto dalla parte cilena senza che nessuno se ne accorga. Poi si riparte. Sdraiato sul sedile posteriore della Land Cruiser vedo passare in senso opposto decine di altre jeep che sfrecciano verso la frontiera sollevando nuvole di polvere. L'immagine è da film, la sensazione quella di dejà vu. Le frontiere mi mettono malinconia e gli addii, anche se con persone con cui si sono passati un paio di giorni, mi mettono tristezza. La soluzione è chiudere gli occhi e ascoltare la versione remixata di "Voglio vederti danzare" che passa per la quarantesima volta.
Dopo otto ore anche il deserto finisce e Uyuni appare come un miraggio: piccolo, brutto e polveroso, ma al miraggio non si guarda in bocca. Ad Uyuni ci si può fare una doccia semi-tiepida per un dollaro e mezzo, mangiare carne di lama per tre dollari ed aspettare un bus notturno per La Paz in cui neanche le coperte di lana grossa riescono a dare un minimo di calore.
Butch Cassidy

martedì 5 ottobre 2010


Per vedere l'inferno non è necessario morire. Per andare all'inferno basta passare per Potosì, la città più alta del mondo. Nei fianchi del Cerro Rico, come tante incurabili ferite, si aprono dei buchi che entrano nella terra. Non c'è illuminazione, l'aria è piena di polvere, si cammina accucciati, a volte bisogna inginocchiarsi sulle piccole rotaie di metallo che servono a far passare dei vagoni carichi di materiale. I minatori li spingono a forza di braccia: due persone per quelli da una tonnellata, quattro per quelli da due. La discesa in una delle centinaia di miniere di argento non è per claustrofobici. Il cunicolo è stretto, sorretto da tronchi di legno che devono essere lì da decenni, si sbatte la testa ovunque (per fortuna che abbiamo il casco). Non ci sono scalini e a volte si scivola, in pochi minuti si è completamente coperti di polvere bianca. Nell'inferno di Potosì ci sono vari gironi, che si chiamano livelli. Il primo è quello in cui si respira meglio, poi via via che si scende, l'ossigeno inizia a mancare. I lavoratori del quarto livello devono immettere aria prima di iniziare a picconare la roccia per creare dei buchi abbastanza grandi da inserire la dinamite. Qui i crolli sono più frequenti e se la galleria si richiude dietro di te non c'è scampo: non ci sono vie d'uscita, nè rifugi equipaggiati come in Cile. Qui si muore e basta. Chi non muore per un crollo, muore di morte più lenta. Non si usano maschere speciali, solo un fazzoletto legato attorno al collo. Dopo qualche anno di miniera nessuno ha ancora polmoni che funzionano. Se si raggiunge l'invalidità al 50% si ha diritto ad una pensione, sennò si continua finchè dura, per racimolare due o trecento dollari al mese. La speranza di vita di un minatore di Potosì è attorno ai 45 anni.
Quando raggiungiamo il terzo livello, ansimando come mantici, troviamo un uomo che dovrà avere una quarantina d'anni ma ne dimostra trecento. Sta colpendo la roccia con scalpello e martello. E` l'unico che sta lavorando di sabatao mattina e vuole finire prima delle quattro di pomeriggio per andare alla festa della città. Gli ci vorranno quattro o cinque ore perchè il buco raggiunga i cinquanta centimetri necessari per la dinamite. Quaggiù fa caldo, l'uomo è in un bagno di sudore. La guancia destra è rigonfia delle foglie di coca che mastica per sentire meno la fatica. Due colpi un respiro, due colpi un respiro. Il lavoro va avanti con lentezza esesperante, ogni martellata porta via pochi millimetri di roccia.
La miniera in cui mi trovo è dedicata alla Vergine della Candelaria, mentre tutte le altre hanno nomi di santi. Ma nell'inferno la Vergine e i Santi non servono, qui ci si affida alla concorrenza: il diavolo. Il suo nome è El Tio e i minatori gli hanno dedicato una statua vicino all'entrata: è una figura antropomorfa seduta come un pascià, con delle corna in testa, il membro eretto, una sigaretta in bocca e completamente circondatao da lattine di birra, foglie di coca e bottiglie di plastica che dicono "alcohol potable". I minatori, quando escono dall'inferno, bevono alcool di canna da zucchero al 96% (!) e lasciano delle bottiglie vicino ad El Tio come fossero delle offerte devozionali.
Ma Potosi ha anche un'altra faccia, quella costruita nei secoli grazie all'estrazione dell'argento: chiese stupende e case coloniali che il passare del tempo e l'inevitabile decadenza riescono a rendere ancora più speciali. In questi gironi c'è una grande festa e decine e decine di gruppi vestiti in modo tradizionale sfilano per le strade ballando musica suonata da bande di paese. La gente si muove in un vortice di mille colori: vestiti rossi, verdi, gialli, blu, dai cappelli più strani. Si balla e si cammina, qualcuno mangia delle minestre preparate da anziane ricurve, sedute sul marciapiedi con una grossa coperta legata sulla schiena. E' il week end, bisogna approfittarne, lunedì sarà un altro giorno di fatica inimmaginabile.
Silver

domenica 3 ottobre 2010

La città del maresciallo

Se Saint Exupery si fosse spostato per l'America Latina via terra, invece che "Vol de Nuit" avrebbe scritto "Bus de Nuit". Invece di descrivere immensi paesaggi illuminati dalle stelle avrebbe descritto l'odore di sudore di un bus stracarico, la gente spettinata ed insonnolita, il caldo e poi il freddo, il vecchietto fatto alzare dal suo posto perchè qualcun altro aveva pagato di più, la donna seduta in mezzo al corridoio con il bambino tra le braccia. Un bambino che non fa rumore, non un pianto, non un lamento. I bambini del sudamerica, come quelli africani, non piangono mai. Rimangono attaccati alla schiena della madre, avvolti in una coperta multicolore come piccole mummie.
Sucre è la città in cui l'ennesimo viaggio allucinante finisce, verso le sette di mattina. Anche con gli occhi semisocchiusi dal sonno appare in un bianco splendore, quasi angelico. E' una delle città coloniali più belle che ho visto fin'ora, non solo per gli edifici e le strade, ma anche e soprattutto per la gente nelle strade, i mercati - quelli grandi e quelli piccoli - e una temperatura da eterna primavera nonostante i 2700 metri di altitudine.
Sucre è la capital constitucional della Bolivia, anche se non la sede del governo. Quando la nuova costituzione ha sancito La Paz come capitale (per me poco più che un'ovvietà) qui c'è stata una vera e propria rivolta, guerriglia urbana, gomme bruciate, lacrimogeni e morti. Sembra strano, vedendo la gente camminare numerosa a tutte le ore con calma olimpica, immaginarsi questa città messa a ferro e fuoco.
A Sucre c'è la Casa della Libertà. Tranquilli, tranquilli, non agitatevi, Berlusconi non c'entra. La libertà è quella acquisita dagli spagnoli, la casa è il principale museo delle reliquie rivoluzionarie (pochine a dire il vero). Essere nazionalisti in Bolivia è difficile, un po' come esserlo in Italia: non abbiamo molte cose di cui gloriarci. La Bolivia ha fatto tre guerre, perdendo regolarmente pezzi di territorio ogni volta (a beneficio di Cile, Brasile e Paraguay). Per contenere i ritratti dei presidenti ci vogliono ben due sale, perchè ce ne sono stati centinaia. Si inizia con il ritratto di Simon Bolivar, con delle basette da far invidia a John Lennon per finire con Evo Morales, con dei capelli a forma di casco di banana e i tratti da indio dell'altipiano. In mezzo facce di semisconosciuti, con sottotitoli tipo: "gobierno de facto", "gobierno ad interim", "gobierno constitucional", "gobierno de unidad nacional". Nel museo c'è una sala dedicata al mariscal Sucre, eroe dell'indipendenza , che fu costretto a sposarsi per procura perchè Bolivar lo mandò per sei anni a liberare praticamente tutta l'America del Sud. Un anno dopo aver potuto vedere sua moglie fu assassinato nel sud della Colombia mentre tornava a casa, con l'intenzione di rinunciare alla vita pubblica.
A sucre ho passato tre giorni a curarmi il raffreddore, a vedere le impronte dei dinosauri, a girare per la città,  a vedere un film troppo intellettuale all'Alliance Francaise assieme a due altri spettatori, a leggere "The cathcher in the rye" di Salinger e a guardare la televisione. Siiiiiiiiii, l'infinito piacere di fare zapping satellitare tra documentari di Discovery Channel sugli squali, partite di baseball su ESPN e le telenotizie sempre sensazionali della CNN. Nonostante tutta questa abbondanza iniziano già a mancarmi gli spot elettorali e i programmi religiosi della TV brasiliana.
Libertad y teledependencia

venerdì 1 ottobre 2010

Il riposo del guerriero

Samaipata ricorda un po' il paese perfetto del film "Big Fish" di Tim Burton, dove la gente butta via le scarpe per non avere la tentazione di andarsene. IL suo nome in quechua significa "riposo tra le montagne" ed è effettivamente il posto ideale per riprendermi un po' del molto sonno perduto.
Facendo un giro per il parco Amboro sembra di essere in un altro film: Avatar. In mezzo ad una foresta piena di muschi e licheni di ogni forma e colore, tra alberi che sembrano morenti, ci sono delle enormi felci, con dei veri e propri tronchi alti 3 o 4 metri. In cima le foglie sbocciano come delle code di dinosauri. Il giro è molto bello anche se la guida è il fratello gemello di Lapalisse (le felci sono piante molto vecchie) e ha delle idee molto minoritarie in campo botanico (le piante hanno bisogno di molte proteine). I due compagni di avventura sono un francese che vive di rendita da tre anni e che sta viagguando per l'America Latina ed un anziano americano asmatico che è venuto dall'Argentina per rinnovare il visto (e che finisce il giro per miracolo).
Il sabato sera a Samaipata è tutto un programma, che inizia con l'obbligatoria presenza nella piazza centrale. Devo ancora scoprire per quale arcano motivo in tutte le prigioni del mondo i detenuti camminano per il cortile in senso antiorario durante la famosa ora d'aria. A Samaipata non ci sono detenuti, ma tutti girano in senso antiorario lo stesso: ragazzini, mamme con i bambini, turisti solitari. Chi ha una macchina, come le due ragazze che ho conosciuto qui, girano con il finestrino abbassato, anche loro in senso antiorario. Per la prima volta da molto tempo sono seduto nel sedile posteriore di un jeeppone che non sia scassato. Mi sento come in un video di Snoop Dog (mancano i catenoni d'oro attorno al collo). Questo dabato sera, come nella canzone di Dalla, c'è una grossa novità. Si inaugura la seconda discoteca del paese (la prima si chiama "Che Wilson", non so se sia in onore di Che Guevara o di Chez Maxime)  e fa molta tenerezza. The new place to be, invece, si chiama Melody Park (forse ispirato al Melody sulla circonvallazione di Castelfranco Veneto) ed è uno stanzone rettangolare dove uomini annioati bevono birra e ragazzine isteriche ballano la cumbia in due file perfettamente parallele. Quando la serata entra nel vivo si formano delle coppie, viene introdotto il merengue (e anche una fugace salsa) e si rompono le righe. Il Melody Park è anche Karaoke ed i più fortunati assistono alla gara tra ben 15 concorrenti. Vince un raccomandato, come sempre.
La domenica sera, sulla piazza principale c'è solo silenzio. I turisti del week end sono partiti e restano solo gli abitanti, più qualche straniero di passaggio. La macchina che ha sparato ininterrottamente per due giorni musica a tutto volume (la canzone più gettonata è stata il remix di "Tu vo' fa' l'Americano") è partita, portandosi dietro i quattro ragazzi che avranno bevuto duecento litri di birra senza muoversi da una delle panchine. Anche i banchetti fricchettoni sono spariti: niente collanine, amuleti, incensi o orecchini con le piume. C'è solo un grosso spicchio di luna ad illuminare il cielo.
Tranquility

giovedì 30 settembre 2010

Tensione superficiale

La città è inmbandierata, la televisione trasmette discorsi ufficiali, c'è gente per le strade: la banda, le majorettes, militari in uniforme, studenti, famiglie vestite a festa. I politici in giacca e cravatta, con i ventri enormi fasciati da bandiere bianche e verdi ostentando sorrisi e aria bonaria. Tutte le persone sul palco ufficiale, con i loro orologi, occhiali, orecchini e collane sembrano uscite direttamente da un quadro dai colori pastello di Botero. I discorsi sono da repertorio: la grandezza del popolo cruzeño, la fede, il futuro. I giornali locali sono usciti con un inserto speciale dedicato ai cittadini illustri del passato e del presente. Da citare il rallysta degli anni cinquanta arrivato tredicesimo al rally Londra-Messico e il giocatore di squash attualmente terzo nel ranking mondiale.
E' il bicentenario della "liberazione" di Santa Cruz, la città più grande della Bolivia. In ogni stato latinoamericano c'è una città che si arroga il titolo di città liberata prima delle altre (l'indipendenza della Bolivia è di 15 anni dopo), di solito una città che si sente diversa. Santa Cruz è la Milano o la Barcellona della Bolivia (ad occhio non si direbbe, ma è tutto relativo). E' la città che si sente ricca, economicamente dinamica, in una regione di esportazione di prodotti agricoli, minerari e idrocarburi. I cambas, gli abitanti del posto, odiano i kolla, gli abitanti dell'altopiano. Nelle poche ore che passo in città ben cinque persone mi dicono che i kolla sono dei taccagni pidocchiosi che non sanno cosa sia il gusto della vita (tanto razzismo l'ho sentito raramente). La tensione si vede dai dettagli: l'assenza del presidente Evo Morales (in visita ufficiale all'Assemblea Generale dell'ONU dove ha "rimpiazzato" Chavez) e il rifiuto del vicepresidente di fare il suo discorso, ufficialmente per un cambio imprevisto nel protocollo. Interessi economici divergenti e identità culturale, ci sono tutti i presupposti per un conflitto. Per il momento non violento, ma l'ossessione con cui si pronuncia la parola "autonomia" parla chiaro, qui non si faranno sconti.
cambakolla

martedì 28 settembre 2010

I flagelli divini

Ci sono momenti in cui la maledizione del viaggiatore si abbatte come una punizione biblica, senza apparente motivo. Lasciando São Jose sembrava che tutto fosse a posto: il volo in orario, la pousada di Cuiabà che faceva il pickup dall´aeroporto gratis, la persona al telefono gentile e che parlava un po´ d´italiano, la possibilitá di fare un tour al Pantanal il giorno dopo. Ma le acque del Mar Rosso rimangono aperte solo un attimo, per poi richiudersi improvvisamente: la pousada é un posto con un certo fascino ma totalmente lurida (tralascio la descrizione del bagno per i deboli di stomaco), il padrone ha una risata finta e semi-isterica, il prezzo del tour é astronomico, la cittá é avvolta dal fumo delle campagne che bruciano e - dulcis in fundo - nessuna delle mie due carte di credito sembra avere buoni rapporti con i bancomat della cittá. Con quello che costa il tour, rimarrei senza soldi e devo ancora arrivare in Bolivia, dove spero che almeno una delle due carte verrá resuscitata. In una decisione lampo il Pantanal viene depennato e nel giro di cinque minuti mi ritrovo di nuovo zaino in spalla, nel caldo soffocante di Cuiabá, cittá che ha l´unico interesse di trovarsi nel centro geografico dell´America del Sud, il che non la rende né piú bella né piú piacevole. Alla rodoviaria prendo un bus per Caceres, nella speranza che arrivi in tempo per permettermi di effettuare le formalitá doganali prima di un viaggio allucinante che dovrebbe portarmi in Bolivia. L'aria condizionata è più di forma che di sostanza e si comincia a sudare. All'una il bus si ferma i un posto da Mezzogiorno di Fuoco, dove il fuoco è vero e l'aria è avvolta da una nebbia di fumo e cenere. Caceres appare come un miraggio nel deserto. Per compiere le formalità doganali prendo un moto-taxi con i miei due zaini (la gente guarda con curiosità). La stazione della polizia federale è letteralmente invasa da un gruppo di boliviani vestiti in abiti folklorici. Tento di saltare la coda spiegando che l'ultimo bus per la frontiera parte di lì a poco, ma il poliziotto è inflessibile. Quando si allontana un attimo, il suo collega mi fa cenno di passare e in due minuti il passaporto è pronto. Prima di riprendre il moto-taxi ho il tempo di fare una foto con il gruppo folklorico.
Tento di cambiare dei reais per dei bolivianos. Chiedo a delle persone, ognua delle quali ha una soluzione: la posta, la banca, la signora che ha un negozio d'abbigliamento, la casa di cambio inesistente. Finisco per cambiare i reais in dollari nella speranza che servano dall'altro lato della frontiera. Tornando alla stazione dei bus mi imbatto in una sfilata in cui vari gruppi latinoamericani si esibiscono in balli popolari. Ci sono anche i boliviani che ho incontrato alla stazione di polizia, seguiti da un gruppo di slovacchi (gli unici europei) vestiti con cuffiette e giacche di lana che ballano una danza centroeuropea sotto il sole tropicale.
Il bus per la frontiera è un cassone dell'immondizia con quattro ruote. In compenso la strada è vuota e il paesaggio scorre fuori dal finestrino come se si fosse su un treno: alberi, alberi, alberi, mucche, mucche, alberi, una casa, mucche di nuovo, alberi, un pilone della luce, alberi, mucche, mucche. Il sole inizia a scomparire tra le nuvole, l'aria si fa ocra, poi la notte cala, illuminata solo dai fari del bus che viaggia a tutta velocità.
Quando si ferma salgono a bordo due militari brasiliani dall'aria molto marziale, con tanto di giubbotto anti-proiettile (tanto per sudare un po' di più). Fanno scendere tre ragazzi boliviani e si soffermano - come prevedibile - sul mio passaporto che ha visti di mezza America Latina e mezzo mondo arabo. Mi fanno un paio di domande più per curiosità personale che per sospetto e passano oltre. Il bus riparte per fermarsi poco più avanti. Tutti scendono per salire su un taxi che copre gli ultimi chilometri guidando come un pazzo per una strada sterrata completamente buia.
Arrivo a San Mattias, Bolivia, in uno stato quasi onirico. Vengo sbarcato davanti al Las Vegas Hotel che deve essere l'unico in città, ha un'insegna con un uomo vestito da Cow Boy e sembra in tutto e per tutto un albergo a ore. L'uomo alla reception è semi-analfabeta e va in panico quando deve scrivere la nazionalità italiana invece che brasiliana. Il tempo di farmi una doccia e via a cercare di mangiare qualcosa per le strade semibuie del paese (a San Mattias non si investe molto in illuminazione pubblica e assolutamente nulla in asfalto).
Il viaggio da San Mattias a Santa Cruz, il giorno dopo, dura quattordici ore, di cui più della metà su strada sterrata. Entrando in uno stato di oblio totale, interrotto solo dalle tre fermate per mangiare ed andare in bagno, sopravvivo la prova senza troppo dolore. L'aria che entra dal finestrino dà un po' di refrigerio, la felpa dietro al collo aiuta a dormire un po'. Sono le undici di sera quando arrivo a Santa Cruz, stravolto da tre giorni ininterrotti di viaggio.
Backpain

domenica 26 settembre 2010

Saudade



Sono piú di cinque mesi che sto viaggiando da solo. Sono quasi dieci anni che vivo in giro per ilmondo, prevalentemente da solo: niente ancore, poche radici. Il senso di libertá che questa vita ti dá é ineguagliabile, assolutamente unico: rispondere solo a se stessi, meno vincoli, pochi obblighi. E´una libertá che ha i suoi costi, uno dei quali si chiama solitudine, in portoghese saudade. Non c´é solo la solitudine bucolica della montagna piú alta o dell´isola in mezzo al mare. C´é anche e soprattutto la solitudine pesante, quella non sollecitata, la solitudine troppo ruomorosa di Bohumil Hrabal. Ci sono momenti in cui il prezzo sembra troppo alto e si darebbe qualsiasi cosa perché il sedile a fianco non sia riempito solo dal proprio zaino (o peggio dall´ubriaco di turno) o perché il proprietario della pousada non ti chieda con aria perplessa você viaja sozinho?
Questa sera, nel buio di São Jose, in un´oscuritá interrotta solo da qualche candela, mi sono sentito chiamare ¨eroe¨. Era un po´ che non succedeva. Di solito mi si chiama cosí per il lavoro che faccio (che di eroico ha poco o niente), ma questa volta semplicemente per attraversare l´America Latina con mezzi pubblici, da solo.
Era una conversaizone rubata con la finta scusa di chiedere informazioni, ma con la speranza che la semplice domanda si trasformasse in dialogo. Non importa che le stesse cose vengano dette e ripetute, né che la persona se ne vada dopo mezz´ora. In questo buio africano, dopo ventidue ore di viaggio e tre di scomodo sonno, la sola cosa che puó attutire il senso di vuoto che ho dentro sono delle parole, qualsiasi cosa vogliano dire. Sentirle riscalda come un termosifone in inverno.

L´indomani é un altro giorno, questo é certo, ma non é detto che sia migliore. Oggi sembra di no, almeno a giudicare dal fatto che mi ritrovo in una strada sterrata, completamente avvolto da polvere ogni volta che passa - senza rallentare - una macchina. Il sole é bollente e in lontananza si vede il fumo dei fuochi spontanei che si accendono a causa della siccitá estrema. Sono alla ricerca di un posto che si chiama ¨vale da lua¨ (valle della luna) ma che non riesco a trovare. Due mesi fa avrei girato le campagne con il mio zaino e il cappello da esploratore, ma oggi no. Oggi dico basta. Abbattuto dalle distanze e dalla difficoltá di vivere zaino in spalla getto ufficialmente la spugna.
Quando il viaggio fai-da-te fallisce, non c´é altro modo che contattare Alpitour. A São Jose Alpitour si chiama Jose (strana coincidenza), che con una macchina che ha visto giorni migliori e per un prezzo piú vicino ai suoi interessi che ai miei, accetta di farmi fare un giro per i dintorni (ma non nel parco Vereadores, perché chiuso causa incendi). Alpitour mi porta alla valle della luna, dove un torrente ha scavato la roccia creando contorti ghirigori. Il posto é bello e si puó fare il bagno nel torrente. La seconda tappa é una cascata nel mezzo di montagne aride. Per arrivarci passiamo per una strada con fuoco a destra e fuoco a sinistra, con qualche pompiere intento nel titanico tentativo di arginare il diluvio di fiamme. La cascata forma una piscina naturale, l´acqua é gelida. In giro c´é poca gente. Nei lunedí di bassa stagione solo gente come me viene qui.
La terza tappa, fuori programma, é un meccanico di Alto Paraiso, che salda come puó la marmitta che si era staccata prendendo una buca. Sulla strada del ritorno, per tentare di vedere qualcosa nel mezzo della polvere, Alpitour attiva i tergicristalli, ma la leva gli resta in mano, con tempismo perfettamente fantozziano.
Vinicius

mercoledì 22 settembre 2010

Brasilia: il presente della cittá del futuro


Bisogna essere dei megalomani incalliti per pensare di creare una cittá dal nulla. Bisogna essere dei visionari senza paura se quella cittá é la capitale del quarto stato piú grande al mondo. Nel 1958, quando fu lanciato il concorso per la sua costruzione, Brasilia era l´incrocio tra due strade sterrate. Attorno il nulla. Pochi anni dopo, su disegno di Lucio Costa, una cittá enorme si sviluppava aprendo le ali a forma di aeroplano. Costa deve aver studiato Marinetti da giovane, perché i simboli del futurismo sono ovunque. Non solo la pianta della cittá e´ un aereo, ma il trasporto e la viabilitá (la velocitá) sono al centro di tutto. L´incrocio tra le due linee principali - la fusoliera e le ali - invece di essere una grande piazza é...la stazione degli autobus. Non é colpa di Costa, ma nessuno - piccolo particolare - ha pensato di creare un posto in cui lasciare i bagagli.  Per di piú, nessuno tra le persone a cui ho chiesto - le piú stronze di tutto il Brasile - ha accettato di tenermi lo zaino per qualche ora. Risultato, la visita lampo degli edifici costruiti da Oscar Niemeier é stata fatta zaino in spalla, percorrendo l´asse principale sotto il sole. Biblioteca nazionale, museo nazionale, basilica, ministero degli esteri, parlamento, Niemeir ha costruito tutto quello che era costruibile. Alcune edifici sembrano usciti da Futurama (oppure, piú probabile, Futurama li ha copiati), altri sono piú sobri e bilanciati, con qualche riferimento classico.
Tutto sommato, per quel poco che sono riuscito a vedere, Brasilia é stata comunque pensata bene e sembra una cittá vivibile, piena di verde. Costa si é comunque dimenticato di un piccolo particolare, un essere chiamato uomo, che sembra piú uno spettatore della cittá che colui che ci vive.
Brion

lunedì 20 settembre 2010

Ouro Preto, oro nero


Ouro Preto sembra Nyon, la cittadina sul lago Léman tra Losanna e Ginevra, con strade di porfido ordinate e pulite su cui camminano come mandrie gruppi di scolaresche e comitive di gitanti del week end. Ouro Preto vuol dire oro nero, ma tra le colline della regione non c´é una goccia di petrolio. L´oro é quello giallo, di cui nel diciottesimo secolo si estraeva la metá della produzione mondiale. La parola nero deriva - almeno credo - dal fatto che chi lavorava nelle miniere erano gli schiavi.
Dove c´é oro c´é potere e dove c´é potere ci sono belle chiese (deve essere il senso di colpa). Una dopo l´altra, alternandosi a palazzi coloniali, nel saliscendi delle colline, le chiese sono dei piccoli gioielli barocchi. Ouro Preto é bella, ricca e borghese. Il festival del jazz é il piú elitario del Brasile. Il biglietto per una giornata costa 115 euro, circa la metá di un salario minimo mensuale. Anche gente venuta apposta per vedere il festival desiste quando vede i prezzi e si accontanta dello spettacolino gratuito di consolazione: jazz classico alla Duke Ellington, pochi applausi e niente bis.
zzz....zzz


PS: mi scuso per la noia di questo post, ma il venerdí sera passato con un ingegnere svizzero (tre birre e tremila sbadigli) non aiuta. Per palliare almeno in parte, ecco due notizie tratte da O Globo, il giornale di Rio de Janeiro:

- La squadra del Flamengo, la piú seguita del Brasile, é stata benedetta ieri dal parroco della chiesa di San Giuda. Sembra che la benedizione dia risultati insperati, di cui la squadra ha un gran bisogno visto che naviga vicino alla zona retrocessione.
- All´undienza del processo in cui é accusato di omicidio e occultamento di cadavere il portiere del Flamengo, il pubblico ministero ha iniziato l´interrogatorio di Zico (dirigente del Flamengo ed ex-giocatore dell´Udinese) chiedendogli un autografo.

venerdì 17 settembre 2010

Salvador de Bahia: la cittá ipnotica




¨Tu hai la faccia da israeliano¨ mi dice con estremo senso della fisionomia un tipo che cammina ballonzolando tentando di convincermi ad andare in un albergo che conosce lui (il migliore chiaramente). Poi si corregge: spagnolo. Fuochino. Italiano. Bingo! Siamo ormai  in confidenza e mi dice che ho la faccia di chi fuma spinelli. Ha chiaramente un innato senso del complimento.  Poi diventiamo amici per la pelle e mi confida che fuma crack, ma solo ogni tanto. Apre la bocca e mi fa vedere un piccolo involto con il crack e sorride. Lo tiene in bocca cosí che se viene fermato dalla polizia lo puó ingoiare e non farsi beccare. 
Salavdor de Bahia, la cittá piú vibrante, rumorosa, povera e pericolosa del Brasile. Qui la polizia ti dice di non continuare a camminare per strada perché non é sicuro. Gli stessi turisti brasiliani camminano in gruppo come se fossero in territorio nemico, per non parlare di alcuni stranieri che la sera si barricano in albergo come se in giro ci fossero dei lupi mannari.
Sabato sera 
Pelourinho, il luogo dove venivano frustati gli schiavi, ora centro storico. In un locale rettangolare in cui non c´é nientre tranne una finestra da cui escono bottiglie di birra, un gruppo di samba sta suonando. La gente balla e beve, beve e balla. Qualcuno mi pizzica i fianchi, qualcuno vuole fare conoscenza. E´ S., vestito rosso e wonderbra. Voglio ballare? Parlare? Le offro una birra? Due? Devo andare al bagno? Mi puó baciare? Meglio un´altra birra. Nel frattempo un tipo mingherlino in ciabatte riempie il suo bicchiere da tutte le bottiglie  e lattine di birra del tavolo. Sta bevendo a scrocco da ore e sta ballando con una donna che deve pesare il triplo di lui. Mentre S. ritenta con la fortuna, il mio vicino inizia a parlarmi in italiano. Lui é stato a Brescia e ne sembra uscito un po´scioccato. Mi chiede, con domanda retorica giustificata solo dalle dieci birre che si é bevuto: ¨perché in Italia ci sono i soldi e la gente é triste e qui non ci sono e la gente é felice?¨. Non rispondo, ma tentando qualche passo di samba (due passi a destra e due a sinistra, girando il piede all´infuori, questa sembra sia la tecnica) rimugino sulla questione. Forse alla fin fin in Italia non ci sono poi tanti soldi oppure in Brasile c´é allegria ma non felicitá, o il contrario. Vengo distratto da un uomo scalzo, con la barba lunga, che sta raccattando tutte le lattine vuote. E´ in competizione con una donna bassa, magra e anche lei scalza. Visto quello che la gente beve c´é comunque spazio per due nel settore del riciclaggio dell´alluminio. S. torna alla carica, le piacciono i miei occhi, mentre il mio vicino continua con la sua esperienza italiana (é stato anche a Vicenza ma penso preferisca Alactraz al Triveneto). Mi presenta le sue due colleghe, mentre S. fa il broncio perché mi considera ¨suo¨. Le ¨colleghe¨ ballano e si fanno rimorchiare. Io dopo un po´saluto tutti e me ne vado a letto tra l´incredulitá del mio vicino, di S. e di un paio di altre ragazze in lista d´attesa. 
Boneca
In Brasiile c´é una facoltá di teatro. La metá degli studenti sono gay. A Salvador in questo momento c´é un festival di teatro e anche la gay parade. Due piccioni con una fava. Il gruppo che sta camminando veso la gay parade é composto di teatranti. Il mio fascino esotico é talmente prorompente che quando la parola ¨eterosessuale¨ esce dalle mie labbra un vero e proprio grido di dolore si eleva verso il cielo. La cosa non sembra comunque farli desistere dal tentare con il proselitismo (non si sa mai, magari cambio idea). 
In praça Campo Grande si sta riunendo la folla: camion con altoparlanti, venditori di birra, fotografi di giornali online. C´é anche una coppia israeliana che sta nello stesso ostello del gruppo degli studenti di teatro. Iniziamo a parlare e scopro che lui é un avvocato che difende palestinesi arrestati da Israele. Abbiamo un paio di conoscenze in comune tra le associazioni di diritti umani e mi aggiorna sugli ultimi avvenimenti, tra cui la nascita di un bambino. Mentre parliamo passa un ragazzo a petto nudo con due ali argentate sulla schiena. Il resto é musica a volume allucinante, un mare di gente e pioggia torrenziale.


La chiesa
Ci sono piú di duecento chiese a Salvador. Quelle nel Pelourinho, il centro storico, sono stupende e attirano qualche turista svogliato. Le altre sono vissute. Ce n´é una che riesce in entrambe le cose. Su una piccola collina che sovrasta il mare, Nosso Senhor de Bomfim é una chiesa barocca alla periferia della cittá. Alla messa del martedí mattina, alle undici e un quarto, i banchi sono pieni. L´omelia é appena finita e un musicista sta cantando al microfono una canzone religiosa suonando su un ritnmo di bossa nova. Prima della fine, il prete fa gli annunci sulle prossime messe e sulle confesisoni, chiede quanti vogliono confessarsi e quattro o cinque mani si alzano dalla navata. Poi il chitarrista intona ¨tanti auguri a te¨ per qualcuno che ha appena compiuto gli anni, per poi riprendere di nuovo la bossa nova. La messa é finita e una parte della gente si avvia verso l´uscita, mentre altri si avvicinano al prete che sta benedicendo i fedeli con l´acqua santa. Una donna in fila dietro agli altri ha le mani alzate e balla al ritmo della musica.
Nella stanza al lato dell´altare sono appesi al soffitto dei piedi, delle mani, delle teste, dei cuori, fegati, reni e quelli che mi sembrano dei seni. Tutti gli organi sono di plastica. Alle pareti centinaia di foto ricordano la grazia ricevuta. Ci sono quelle di studenti universitari raggianti che hanno conscluso gli studi grazie all´aiuto divino (meglio del CEPU!), a fianco a foto di macchine (non é chiaro se si ringrazia per l´acquisto o si chiede un´assicurazione addizionale contro i sinistri). Le piú numerose sono foto di gambe ingessate, nasi rotti, piaghe, ferite, bruciature, persone in letti d´ospedale. E poi centinaia di foto tessera, incollate una affianco all´altra: giovani, vecchi, adulti, come in un´enorme collezione di facebook.
  

La domenica
I figli di Gandhy non sono una comune indo-buddista, né un´organizzazione di idealisti pratici. Os Filhos de Gandhy é il bloque de samba piú conosciuto di Salvador de Bahia, una vera e propria istituzione che mischia percussioni, danza e condomblé, la religione sincretica animista d´origine africana. La domenica pomeriggio, verso le quattro, i tamburi iniziano a suonare in un seminterrato del centro di Salvador. Il ritmo é lento e ripetitivo. Dei cantanti si alternano al microfono, la gente balla (gli uomini in mezzo, girando a cerchio, le donne ai lati). C´é gente di tutte le etá, magliette degli ACDC, sandali di cuoio, scarpe da ginnastica, treccine, capelli rasta, pance pronunciate, minigonne. La musica va avanti per tutto il pomeriggio. Ogni tanto si fa piú forte e intensa, suonano due trombettisti, poi ritorna a ritmi piú bassi. I percussionisti sudano, i cantanti sudano, la gente balla e suda. Impossibile rimanere con i piedi fermi. Sembra di essere in Angola, in Mali, in Senegal. Ci sono solo pelli scure tutto attorno ed il paradosso é che in questo angolo d´Africa trapiantato in America Latina,  l´unico che in Africa ci ha effettivamente vissuto - il piú bianco, scoordinato e impacciato di tutti - sono probabilmente io.


Mendicanti
Nel centro di Salvador é impossibile camminare cinquecento metri senza essere fermati da un venditore ambulante, un mendicante, o un ¨amigo amigo que precisa você?¨. La domenica sera, quando la polizia si dirada per le strade, i mendicanti si moltiplicano. Una prostituta specializzata in italiani mi abborda mentre sto comprando uno spiedino di carne. Mi segue per un po´. Perché non voglio parlare con lei? Boh forse saró timido, chi lo sa? Viene rimpiazzata da un ragazzino con i capelli elettrizzati e lo sguardo spiritato (a occhio e croce direi strafatto di crack). Non demorde. Obrigado não preciso de nada. Niente, continua. Cambio strada, mi segue. Vattene! Glielo dico in varie lingue anche se i gesti sono sufficientemente espliciti.
Meninos de Rua sono i bambini di strada. Per una vita ho letto articoli, guardato documentari, seguito il problema. Ora, invece di una vittima di un sistema disfunzionale i cui diritti sono violati e abusati, vedo solo un gran rompiballe di cui disfarmi al piú presto. Oltre che la noia di trattare male qualcuno mi ritrovo a sentirmi in colpa. Torno in albergo con un senso di sconfitta addosso. Usciró il lunedí, quando la polizia torna in strada per proteggere gente come me. 
Martedí
Il martedí, tanto per cambiare, nel Pelourinho si balla. Ci sono un paio di concerti a distanza di trecento metri l´uno dall´altro: musica tropicale e musica pop brasiliana, con qualche accento di samba. Uomini brasiliani a caccia di donne straniere e donne straniere in speranza e attesa di essere cacciate. Alle nove, in una strada laterale, iniziano a riunirsi delle persone. Arrivano i tamburi: grandi, piccoli, medi. Saranno una ventina i percussionisti. Quando muovono le braccia un tuono si abbatte su Salvador: dieci, cento, mille battiti al secondo. I percussionisti iniziano a camminare e dietro di loro iniziano a ballare dei ragazzi: pelle nera e fisico da divinitá greche. Poi si aggiunge una spagnola, un paio di svedesi, un´argentina. Le pelli sono bianche, i capelli biondi, ballano anche bene. Attorno una piccola folla segue il gruppo, chi con in mano una macchina fotografica e chi con le mani sulle orecchie (fanno un casino mostruoso). Si scende la strada, si passa per la piazza, si risale la strada principale che di giorno é stracolma di turisti: tum, tin, tan, ta ta ta, tric, tu tum, tac tic tac, trututum, sembra che il cielo ti stia cadendo addosso. 
Poi il silenzio. I percussionisti, cosí come sono venuti, scompaiono. Si disperdono in mille rivoli, voltando per le stradine laterali, quelle con i buchi, gli edifici cadenti, le baracche, i bar con i tavoli di plastica, la porta aperta e note si samba. Tornano a casa.
Jorge Amado 

mercoledì 15 settembre 2010

Olinda

Ad Olinda, la cittá gemella di Recife, sembra di essere al Cairo. Non ci sono piramidi gigantesche, né il Nilo, né caffé in cui uomini con i baffi bevono caffé fumando narghilé. In compenso qui si posso trovare le finte ¨guide turistiche¨ piú insistenti del Brasile. Non demordono neanche quando spieghi che non hai voglia di sentire spiegazioni e che vuoi solo fare un giro senza qualcuno che ti parli nelle orecchie. Niente da fare.
Ad Olinda c´é la chiesa piú vecchia e probabilmente piú bella del paese. E´ in un convento francescano che si trova in cima ad una collina con vista sull´Atlantico. All´interno c´é un chiostro che fa venire voglia di diventare monaco: silenzioso, raccolto, completamente rivestito di azuleios che raccontano la storia di San Francesco. C´é San Francesco con gli animali, mentre predica, mentre va scalzo. C´é anche un San Francesco inedito con Gesú e Maria. Nel convento vivono ancora dei frati, da quello che deduco dalla tabella appesa al muro con le colonne ¨a casa¨, ¨nella parrocchia¨, ¨in viaggio¨, ¨a Recife¨. Ci sono tre nomi e tutti e tre sono ¨a casa¨, il che vuol dire probabilmente al secondo piano del chiostro.
Fuori dalla chiesa il silenzio sparisce. Siamo agli scgoccili della campagna elettorale e, benché i giochi  per le presidenziali siano chiusi da settimane (la Dilma ha 30 punti di vantaggio su tutti e Lula, se si ripresentasse, sarebbe eletto papa) restano aperte le possibilitá per le altre poltrone e poltroncine statali e federali. Per cui girano macchine con gli altoparlanti, girano moto con gli altoparlanti, girano pure biciclette con gli altoparlanti. E poi bandiere, volantini e poster di gente con la faccia da politico, da imbonitore, da cantante trash o da mago (sembra di essere in Italia). Ma il meglio in assoluto sono dei pupazzoni giganti in stile carnevale (quello di Olinda é uno dei piú celebri del Brasile) con le faccione sorridenti dei candidati. A Viareggio servono per sbeffeggiare i politici mentre qui per attirare voti.
Arlecchino

domenica 12 settembre 2010

Sono distrutto


Per viaggiare in Brasile bisogna avere un fisico bestiale (che io non ho). Alle dieci e mezza di sera un camion su cui sno montate sedie di plexiglas parte da Jericocoara per Jijoca, guidando in stile Parigi-Dakar sulla pista di sabbia. Quando prende un´avvallamento si viene catapultati verso l´alto e si galleggia come se si fosse in assenza di gravitá. Come dice Kassovitz nell´Odio, il problema non é tanto la caduta, il problema é l´atterraggio. Consiglio il viaggio per chi ha problemi di cervicale: li risolverá alla radice eliminando direttamente la colonna vertebrale.
A mezzanotte si scende dal camion per salire su un bus recentemente utilizzato per il trasporto di pinguini. Sarebbe bello poter dormire, ma un´anima sadica ha disseminato di rallentatori l´intero tratto Jijoca-Fortaleza, per cui invece che su un bus sembra di essere sulle montagne russe. Alle quattro e mezza di mattina sbarco a Fortaleza con occhi vitrei e istinti omicidi non tanto repressi, che si acquiscono quando vedo la calca per entrare nell´ufficio della compagnia Guanabara, l´unica - sembra - che viaggia a Recife. Degli impiegati stanno tentano in tutti i modi di aprire la porta che non ne vuole sapere di cedere. Quando infine vincono la strenua resistenza meccanica un´ondata umana si riversa all´interno assaltando l´impíegato che distribuisce i bigiettini con i numeri. Dopo aver resistito alla calca e aver piantato un gomito nel costato di un mio avversario diretto alla sopravvivenza, riesco ad ottenere il numero 33, gli anni di Cristo. Come molte cose in Brasile, il sistema ha una falsa apparenza di efficienza, ma é intrinsecamente deficiente. I criteri di prioritizzazione del computer creano una chiara (almeno per me) discriminazione contro coloro che comprano biglietti (la maggioranza), a favore di queli che hanno richiesto ¨outros servicios¨ e ¨acceso prioritario¨ (non é chiaro di che si tratti in entrambi i casi). La cosa genera non poche tensioni e verso le cinque e mezza volano parole grosse (o almeno cosí credo visto che mi sfugge la metá degli insulti profferiti da un signore molto poco British). Dopo un´ora d´attesa riesco a comprare un biglietto per il prezzo assolutamente vergognoso di 60 euro, ovvero esattamente il valore di tre notti nella pousada di Jericocoara.
Quando il bus parte mi immergo in uno stato di semicoscienza, scossa dalle vibrazioni del motore (per qualche strana ragione sono sempre seduto nell´ultima fila, a fianco del bagno) e dalle frequenti fermate. Non riesco a capire se si tratti di stazioni intermedie, code per lavori i corso o dell´autista con problemi di prostata. Il tempo scorre in modo irregolare: a volte vola, a volta sembra bloccato. A mezzogiorno c´é la pausa pranzo, in un locale che una griglia piú grande di una piscina su cui arrostiscono chili di carne. Dopo l´abbuffata si riparte. Cado in una trance di tre ore, da cui mi risveglio con un compagno di viaggio seduto a fianco a me (non ho idea quando si sia materializzato). La luce del sole si fa via via piú tenue, finché la strada é avvolta da un buio impenetrabile: non un raggio di luna, non un lampione, solo il raro fascio proiettato da una macchina in senso contrario. Le lancette dell´orologio girano. Recife non dovrebbe essere lontana, e invece lo é. Alle sette e mezza, alla pausa per la cena, scopro che siamo solo a João Pessoa, a piú di due ore. Siamo in ritardo di quasi tre.
Alle dieci di sera il bus fa l´ultima frenata nella stazione spettrale di Recife. In giro non c´é nessuno. L´idea di attraversare una cittá da un milione e mezzo di abitanti di notte non mi attira per niente. Paura infondata visto che il treno urbano per andare in centro é piuttosto frequentato e soprattutto pattugliato da agenti di sicurezza come se fosse l´ambasciata americana a Kabul. Alla stazione prima della mia scendono tutti e mi ritrovo completamente solo nel mio vagone. Aspettando il bus per Olinda, vedo passare tutti gli spazzini della cittá che rientrano a casa in bicicletta come in un un film di Charlie Chaplin. Sono le undici di sera e avrei voglia di fare come loro. Il posto piú vicino ad una casa si chiama Pousada Olinda che sembra avvicinarsi poco a poco. Il tragitto in bus mi sembra piú lungo del previsto e chiedo al venditore di biglietti (che viaggia sul bus) quando arriveremo a Olinda. Lui cade dalle nuvole e mi dice che si é dimenticato di avvisarmi. Devo scendere e prendere un bus nel senso inverso (é fortunato che il mio coltellino svizzero é poco pratico per uccidere membri del sindacato trasporti). Per un colpo di fortuna il bus nel senso opposto passa in quel momento e l´autista gli fa cenno di fermarsi. Salgo, scendo alla fermata giusta, trovo la pousada, mi tolgo lo zaino dalla schiena. E´mezzanotte, ho viaggiato per 25 ore e mezza di filato.
Boa noite

giovedì 9 settembre 2010

Jericocoara (o la spiaggia piú bella del Brasile)

A Jericocoara - che significa coccodrillo sulla spiaggia - sembra di essere alle Galapagos. Invece dei leoni marini e delle iguane si puó osservare il rituale dell´accoppiamento (o quantomeno il tentativo) dell´homo sapiens sapiens, il primate con meno senso del ridicolo.
Jericocoara é considerata, e a ragione, una delle spiaggie piú belle del paese, isolata in mezzo a dune di sabbia bianca che la rendono remota, misteriosa e di difficile accesso. La sera, a camminare in infradito per le vie coperte di sabbia, un´umanitá abbronzata e epicurea si scola decine di caipirinhe tra la chitarra di un cantante contrattato da un bar e i bassi esagerati di un locale il cui proprietario non sembra capire che la musica tecno non é la preferita dal popolo della notte. Sullo sfondo l´oceano atlantico che si alza e si abbassa con il ritmo delle maree, sovrastato da una coperta di stelle e da una piccola luna quasi invisibile a forma di falce.
La gente parla e si guarda. Ci sono tre categorie di persone. I turisti brasiliani sono i piú numerosi e i piú rumorosi. Si muovono in gruppo o al massimo in coppia. La solitudine non é ammessa. Ci sono poi i turisti stranieri, italiani e francesi in testa, oltre a qualche surfista iperproteico il cui fascino é interamente racchiuso nei tre chili di gel che ha in testa. E´gente che rimane in Brasile per due o tre settimane, mangia pesce e non sa cosa sia uno zaino. I backpackers sono rari (ne ho contati tre, compreso me) e anche guardati con un po´ di diffidenza (chi viaggia per troppo tempo deve essere strano, magari anche comunista). Infine ci sono gli stranieri locali, quelli che che hanno lasciato armi e bagagli e hanno aperto una pousada o un ristorante. C´é una spagnola (pardon catalana) trapiantata da cinque anni che si dá alla capoeira, un italiano che é qui da otto, un´inglesona maestra di kitesurf arrivata da qualche mese. Formano una piccola comunitá che non é né di qua né di lá: e poi verso sera li vedi, tutti a caccia una donna e via, e attraversano la notte a piedi per scacciare la malinconia.
A Jericocoara c´é un appuntamento fisso. Verso le cinque di sera, uno sciame di persone si incammina sulla duna che sovrasta il paese come in una scena biblica. Non ci sono vitelli dorati, né mitomani che tentano di far sgorgare l´acqua dal deserto. E´ il pô de sol, il tramonto. Chi fosse in cerca di un po´di romanticismo é pregato di tornare durante la bassa stagione. In questo periodo guardare il tramonto significa soprattutto farsi fotografare in posa, possibilmente cone le mani aperte (lei) oppure saltando sulla sabbia (lui). Sfidando un vento micidiale che spara in faccia raffiche di granelli di sabbia come fossero proiettili, centinaia di persone guardano verso ovest il cerchio farsi rosso e scomparire. Poi riprende la transumanza (i piú coraggiosi buttandosi giú dalla duna, i piú saggi camminando per la parte meno ripida) verso la spiaggia dove inizia la roda di capoeira tra percussioni, canti e battiti di mano. In mezzo ad un cerchio di gente i ballerini-lottatori saltano, fanno acrobazie e atterrano in un fazzoletto di terra. Volano granelli di sabbia, ma miracolosamente nessuno del pubblico viene colpito in piena faccia da una pedata. Non é chiaro se sia fortuna o estrema abilitá (probabilmente entrambe).
Evolutionist