giovedì 3 ottobre 2013
La lunga via
Se c'è una cosa che l'arrampicata ti sbatte in faccia senza mezze parole è la tua paura. Lasciare un punto di riposo, con la corda che pende sotto i tuoi piedi e non sopra la tua testa è sempre una decisione difficile. Bisogna parlare con il proprio cervello e spiegargli che va tutto bene, non c'è nessun pericolo.
Ci sono poi situazioni in cui non solo il cervello ha paura, ma ha anche ragione. Se si cade ci si fa molto male, si può anche morire. In quei casi parlare con il cervello richiede molto tempo e poi finisce che la decisione la prendono le gambe che decidono di andare o tornare indietro.
Su una via lunga sopra a Glarus siamo in due ad avere paura. Ci alterniamo nel tremolio delle gambe, nelle imprecazioni e nell'eterna decisione tra la vita e la morte (più o meno metaforica). Una volta tocca a lui e una a me. Procediamo più lenti di quello che credevamo, ma ormai c'è solo una via d'uscita, andare in cima, perché tornare indietro sarebbe molto più complicato.
Dopo quattro ore arriviamo all'ultimo tiro di corda, uno dei più difficili, che tocca al mio compagno (ho convenientemente scelto i tiri più facili). E' quasi l'imbrunire, le montagne all'orizzonte si tingono di tonalità che vanno dal verde scuro per quelle più vicine al grigio chiaro per quello più lontane. Il sole riscalda il pomeriggio inoltrato e io sono seduto su un comodo strapuntino, mentre il mio compagno scompare alla vista sopra di me. Ci tiene assieme solo una corda, attraverso la quale comunichiamo muti. Lo sento tirare e quasi lo vedo salire facilmente per un pezzo semplice, poi la corda si ferma di botto e sta probabilmente mettendo un rinvio, poi la corda tira e immagino che si stia appoggiando per prendere un po' di fiato, forse sta mettendo un friend. Mentre io, rilassato, guardo il paesaggio sotto di me, lo sento imprecare in svizzero. Non capisco le parole, ma il tono è minaccioso e sta litigando violentemente con la roccia. Posso sentire il tremolìo delle sue gambe e le dita che diventano dure, gli avambracci in tensione. Appoggio il mento alla corda per auscultarla meglio. La paura sembra scorrere per i fili intrecciati che tengo in mano, così come il dibattito tra i dubbi che non vogliono andare avanti e la certezza che non si può tornare indietro. Poi si sblocca, la tensione della corda cresce, ma questa volta vuole dire che il mio compagno sta salendo, ha passato il pezzo difficile ed ha fatto un paio di metri in scioltezza prima di fermarsi. Poco dopo sento che la corda vive di vita propria e sale con tutta la velocità che posso darle. Il mio compagno deve essere arrivato in cima. Libero la corda e la lascio salire, mentre mi allaccio le scarpe e lancio un ultimo sguardo al panorama sotto di me. Le campane delle mucche si sono zittite. Ora tocca a me.
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