Sto bene. Un tepore caldo, come un fluido che mi scorre sottopelle, segue le
linee ramificate del mio corpo. Sono avvolto in una nuvola di cotone, i piedi,
le mani, le spalle, la testa. Il bianco mi abbraccia e mi dondola. E’ la mamma
che mi osserva dall’alto, che fa dondolare la culla con gesti leggeri. Mi sta sussurrando
parole dolci nell’orecchio. Mi sta accarezzando dolcemente la testa pelata. Mi
solletica i piedi. Non c’è rumore qui, tutto tace, il silenzio del benessere
assoluto. Solo una luce diffusa, omogenea, che non genera ombra, schermata. Mi
giro su un lato. Ho un’intensa voglia di addormentarmi, di entrare con tutto il
corpo nel sonno di questo bianco e di questa luce, ritrovare il grembo materno,
appallottolarmi in posizione fetale, riattaccare il cordone ombelicale,
immergermi nel liquido amniotico, dormire succhiandomi il pollice. Sento
qualcosa – forse un leggero rumore che spezza il silenzio – ma non viene da
fuori, è il rumore della mia mente che vuole dirmi qualcosa. Ma cosa? Non
voglio rumori. Voglio silenzio e pace, una mente che non parla, la cessazione
di tutto. Forse è una voce, ma non riesco a distinguere le parole. Non mi
importa. Niente mi importa, tranne il caldo abbraccio in cui mi trovo in questo
momento. Non ascolto la voce, la confino nel bagnomaria del mio inconscio, a
sciogliersi lentamente nel tepore che mi avvolge. Chiudo gli occhi, ma la luce
rimane. Li riapro e la luce è sempre lì. Aperti o chiusi, gli occhi non mi
servono più. Le palpebre sono gli unici muscoli che funzionano ancora, ma
potrebbero anche cessare di farlo. Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è
dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me.
Quando gli aveva detto che voleva
scalare la parete nord dell’Eiger in solitaria, il Gepi aveva emesso un rantolo
sordo, come se il vecchio cirrotico volesse raschiare tutto il catarro dal
fondo dei suoi bronchi e poi sputarlo a terra, più denso del catrame. Ma non
sputò come il suo solito, né gli uscì un filo di bava a sporcargli il maglione
marrone. Si limitò a piantargli lo sguardo vacuo a metà tra il naso e lo sterno
e a sibilare: Tu vuoi morire. Poi
riappoggiò la testa alla spalliera della sedia a rotelle con il gesto di una
tartaruga esausta. Per quanto ormai ridotto ad un rudere umano, incapace di camminare
e mezzo cieco, che carburava a Prosecco fin dalle otto di mattina, il Gepi
rimaneva un’istituzione per gli alpinisti della zona, una specie di oracolo di
Delfi a cui rivolgersi prima di un’impresa. Ormai da tempo aveva smesso di dare
consigli veramente utili, un po’ perché il cervello era in costante salamoia
alcolica, un po’ perché la tecnica e il materiale erano cambiati così tanto che
la montagna non era più la stessa. Quando il Gepi parlava di un sesto grado
come se fosse la bocca di Polifemo, i più giovani si sganasciavano dalle
risate. Erano quelli nati con i calli sulle mani, cresciuti a micro, meso e
macro-cicli, tecnicamente superdotati, fisicamente imbattibili, che il sesto
grado lo facevano con una mano sola, in totale sicurezza, con scarpette superaderendi
da ballerina verticale; non certo con gli scarponi di pelle, i chiodi piantati
a mano e le corde di canapa. Cagasotto
li chiamava il Gepi nei momenti di lucidità, sempre più rari e sempre più
corti.
Lui non era un cagasotto. Lui era
un alpinista come ce n’erano una volta: solido, ostinato, taciturno. Non faceva
diete speciali, non si allenava in palestra, non faceva bouldering, non usava finger
boards. A dire la verità lui non era neanche un vero alpinista. Lui era
semplicemente un montanaro, nato in montagna, cresciuto in montagna. Uno che in
valle iniziava a tossire, che in pianura soffocava. Dal Gepi c’era andato per
tradizione, come si compra il panettone a Natale, senza pensarci su. Normalmente
il vecchio alzava le spalle senza capire, oppure borbottava una frase qualsiasi
del tipo atento ai sarachi, oppure fa un fredo del’ostrega, coprete bén.
Quel Tu vuoi morire l’aveva un po’
stupito. Non rientrava nello stile del Gepi fare premonizioni drammatiche.
Probabilmente l’aveva confuso con uno dei cagasotto
o si era dimenticato che aveva già scalato la nord delle Grandes Jorasses e del
Cervino, d’inverno e in solitaria. All’epoca ne aveva parlato anche un giornale
locale con un articolo enfatico e sgrammaticato, incastonato tra l’annuncio
della sagra della lepre e un articolo sull’innaugurazione della nuova
circonvallazione. Ma il Gepi non leggeva giornali, il Gepi probabilmente non
sapeva neanche leggere.
Insomma, non ci fece caso e non ne parlò con nessuno. Il vantaggio della
scalata in solitaria è che devi comunicare solo con te stesso, non hai la
responsabilità di nessuno all’altro capo della corda; anzi la corda proprio non
ce l’hai, se non arrotolata nel fondo dello zaino. La preparazione era stata
rapida: poco peso vuol dire poco materiale, praticamente niente cibo, una
borraccia d’acqua. In tutto si era portato dietro un chiodo da ghiaccio, quattro
moschettoni e un rinvio. Il piano era di scalare la nord in giornata, non c’era
bisogno di altro. Comprò il biglietto per Interlaken e dovette ripetere il nome
tre volte al ferroviere attraverso il piccolo pertugio del vetro blindato
dietro cui si proteggeva da chissà quali pericoli. Abbandonò il porto sicuro
delle montagne per affrontare il mare aperto della pianura, passando per la
tempesta immobile della città mostruosa, quella Milano da bere che puzzava di
carogna ancora prima di morire. Se la lasciò alle spalle con un brivido,
aspettando che passasse il lago alla sua destra, Como e Chiasso, il puttaniere
a cielo aperto di Lugano, poi di nuovo a casa, di nuovo montagne. Ad Interlaken
comprò il biglietto per Kleine Scheidegg. Non dovette ripetere il nome questa
volta. Il ferroviere non lo guardò neanche in faccia. Osservava il suo zaino, i
suoi vestiti, gli scarponi rigidi di chi usa i ramponi da ghiaccio. Kleine
Schhadegg non poteva che essere l’unica destinazione per un signor nessuno in
cerca dell’orco[1].
Ti svegli all’alba, il cielo è
viola di sonno, solo qualche stella sopravvive all’incedere del sole. Tra poco
la lampada frontale non ti servirà più. Te la potrai togliere assieme al
berretto di lana e alla giacca. Tu hai sempre freddo la mattina. Sai che ti
scalderai in pochi minuti, ma preferisci coprirti, iniziare a sudare, sentire
il calore della pelle sulla pelle. Bella giornata pensi. Non c’è una nuvola in
cielo. Le previsioni sono ottime, non ci sono rompicoglioni in giro. C’è sempre
qualche cordata rumorosa a rompere l’incanto della montagna. Gente che urla sosta!, corda!, blocca! oppure Stand!, Seil!, zu!. Oggi nessuno,
sono tutti rimasti in valle a mangiare fondue e a bere il vino troppo bianco, troppo
acido e troppo caro del Vallese. Siamo rimasti in due: tu ed io. Ti rimetti in
moto. Da giù qualcuno ti starà guardando con un binocolo, sperando in un passo
falso, di vederti cadere in diretta per la parete quasi verticale di roccia e
ghiaccio. Non ci fai caso ai topi di valle, sono un’altra specie, quasi peggio
dei topi di città. Continui a salire. Non fai fatica. Segui la tua respirazione
regolare con movimenti gravi di metronomo. Guardi dove vuoi mettere le mani,
sposti i piedi, inizi il movimento con le gambe, afferri la presa con la mano,
poi trovi subito l’equilibrio. Standardbewegung
si chiama in tedesco. Per te non è una tecnica di arrampicata, ma il modo in
cui hai sempre vissuto. In questo momento c’è un sottile strato d’aria tra te e
la roccia, ma tu ti senti di roccia, non percepisci la distinzione fisica e
biologica tra il tuo corpo e la parete. Siete due entità fatte della stessa
materia, di cui una si muove sopra all’altra.
Non sai quanto hai arrampicato
perché non hai l’altimetro. Sai solo che sei partito a poco più di 2000 metri e
che la cima è a 3970. Ma per te i numeri non sono niente, non servono a
descrivere una parete, una montagna o una vita. Neanche le parole servono a
molto; quelle giuste non sono ancora state inventate, le altre vengono usate a
sproposito. Solo i cognomi ti dicono qualcosa. Hinterstoisser ti sta parlando
in questo momento. E’ morto da quasi ottant’anni, ma lo ritrovi lì di fronte a
te, nella stessa posizione in cui ti trovi adesso. E’ stato il primo ad
attaccare la traversa che porta il suo nome e la traversa è ancora lì, ti sta
aspettando. Tu adesso sei Hinterstoisser. I tuoi piedi sono i suoi piedi, le
tue mani sono le sue mani. In cento anni non è cambiato il modo di affrontare
una traversa: mano, piede, mano, piede, senza perdere l’equilibrio, senza
cadere nel vuoto, senza paura e senza pensare. Soprattutto senza pensare. Guardi
il cielo, si è imbiancato di strisce di aerei, c’è umidità, ma il sole si vede
ancora, il tempo tiene. Saluti Hinterstoisser e continui a salire. L’Eiger ha
una sola direzione, non si torna indietro.
Perché hai freddo d’improvviso? Ti
sei arrampicato con regolarità, non hai strafatto, sei in forma. Eppure hai
freddo, un lungo brivido umido ti scorre longitudinalmente ai due lati della
spina dorsale. Vento. Viene da nord. La parete è esposta a nord. Ti rimetti la
giacca. Continui a salire. Ti chiedi se i topi lì in basso ti stiano ancora
guardando con il cannocchiale o se abbiano iniziato a fare colazione con
formaggio e Birchermuesli, bevendo caffé fumante, magari giocando a Jass. Tu non hai fame, non hai sete, hai
solo un po’ di freddo.
Non si vede più il sole. Una nuvola
grigia l’ha coperto. Il vento ora soffia con forza. A volte stenti a trovare
l’equilibrio, l’aria ti risucchia verso il vuoto, le mani si stringono troppo
forte su una roccia troppo fredda. Sai che non bisogna stringere le prese. Chi
stringe troppo perde energia, chi perde energia si stanca, chi si stanca non va
più avanti. Vorresti rilasciare la presa, ma le tue dita sono intorpidite dal
freddo e l’insensibilità ti impedisce di sapere quando la presa è troppo
stretta o troppo molla. Troppo molla vuol dire precipizio. Il tuo respiro si fa
affannoso, perdi regolarità. Sei costretto a fermarti e riprendere fiato. Ma il
problema non è il freddo, né l’affanno. Il problema è che hai iniziato a
pensare. Non sono pensieri compiuti, logici, lineari. Pensi a parole
sconclusionate a frasi storte: torta di
mele, meglio soli che al mare, non tirare la corda che costa cara, freddo cane, vorrei un cane. Pensi soprattutto al vecio e al suo Tu vuoi morire,
così stonato, così brutale. La tua mente ripete Tu vuoi morire dieci, venti, trenta volte. Non puoi fermarla, o
forse non vuoi. La lasci correre e ad ogni passo lei ti ripete lo stesso
mantra: Tu vuoi morire, tu vuoi morire,
tu vuoi morire. Vorresti mettere della cera nelle orecchie, per non sentire
più, ma la voce – lo sai bene – non viene da fuori. Le sirene ti parlano da
dentro la tua pelle, da dentro la tua carne. Sei tu stesso la sirena che ti
vuole morto.
Fa ancora più freddo. Il vento
spazza la montagna con la furia di una scopa di saggina e tu in lì in mezzo non
sei altro che un granello di sabbia umana aggrappato alla roccia. Tremolii.
Prima i polpacci, poi le cosce, ora anche le braccia e le mani. Il freddo ti
scuote dal di dentro, ti oscura la vista più che le nuvole portate dal vento.
Ora sei più cieco di Polifemo, più solo di Ulisse. Non riesci a vedere
veramente più nulla, tranne un mare bianco senza onde. Sai solo che devi andare
in su, ma non sai più dove sei. Non avrai preso la crepa sbagliata, quella che
finisce in un pezzo di granito strapiombante che non riuscirai ad affrontare da
solo? Non lo sai. Avere dei dubbi è peggio che pensare, è peggio che avere
paura. Fai l’unica cosa che puoi fare: andare avanti.
Inizia a nevicare. Prima dei piccoli
fiocchi timidi che il vento ti sputa in faccia quasi per dispetto, poi dei
grossi fiocchi che si attaccano alla giacca, ai pantaloni, ai capelli e ti
coprono come una seconda pelle gelata e ostile. In breve sei bianco come Babbo
Natale, ma senza le renne e senza regali. Adesso non hai altra scelta. Non puoi
fare altro che fermarti. Trovi un piccolo spiazzo in cui accucciarti. E’
sufficientemente comodo per starci in due: tu e te stesso. Sai anche come si
chiama quello spiazzo. Ci sono arrivati Karl Mehringer and Max Sedlmeye nel
1935 e non sono più ripartiti. Ti sei rifugiato nel bivacco della morte sperando di sopravvivere. Sai che la tua vita
dipende da uno di quei topi di valle, dal loro cellulare e da un pilota
coraggioso che accetti di avvicinare il suo elicottero alla parete nel mezzo
della bufera. Oppure un miracolo che spazzi via le nuvole e riporti il sereno.
Miracolo appunto. Fai l’unica cosa che puoi fare: rabbrividisci di un freddo
bastardo che non ti dà tregua ed ogni tremito è più forte di quello precedente,
ogni minuto che passa più gelido di quello precedente. Inizi a pensare
seriamente che è finita e forse – questa volta – hai anche ragione.
Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è
fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me. Sto bene, fa caldo adesso. E’
tutto bianco. Questo bianco è la felicità. Il rumore è sempre lì. E’ la voce
della mia coscienza? Oppure sono le pale di un elicottero che taglia l’aria con
ferocia per venire a salvarmi? Apro gli occhi. Li richiudo. E’ tutto bianco. Forse
stanno venendo a prendermi. Forse rimarrò su questo spuntone di roccia per
sempre. Comunque vada, va tutto bene.