giovedì 16 ottobre 2014

L'Orco (racconto)

Sto bene. Un tepore caldo, come un fluido che mi scorre sottopelle, segue le linee ramificate del mio corpo. Sono avvolto in una nuvola di cotone, i piedi, le mani, le spalle, la testa. Il bianco mi abbraccia e mi dondola. E’ la mamma che mi osserva dall’alto, che fa dondolare la culla con gesti leggeri. Mi sta sussurrando parole dolci nell’orecchio. Mi sta accarezzando dolcemente la testa pelata. Mi solletica i piedi. Non c’è rumore qui, tutto tace, il silenzio del benessere assoluto. Solo una luce diffusa, omogenea, che non genera ombra, schermata. Mi giro su un lato. Ho un’intensa voglia di addormentarmi, di entrare con tutto il corpo nel sonno di questo bianco e di questa luce, ritrovare il grembo materno, appallottolarmi in posizione fetale, riattaccare il cordone ombelicale, immergermi nel liquido amniotico, dormire succhiandomi il pollice. Sento qualcosa – forse un leggero rumore che spezza il silenzio – ma non viene da fuori, è il rumore della mia mente che vuole dirmi qualcosa. Ma cosa? Non voglio rumori. Voglio silenzio e pace, una mente che non parla, la cessazione di tutto. Forse è una voce, ma non riesco a distinguere le parole. Non mi importa. Niente mi importa, tranne il caldo abbraccio in cui mi trovo in questo momento. Non ascolto la voce, la confino nel bagnomaria del mio inconscio, a sciogliersi lentamente nel tepore che mi avvolge. Chiudo gli occhi, ma la luce rimane. Li riapro e la luce è sempre lì. Aperti o chiusi, gli occhi non mi servono più. Le palpebre sono gli unici muscoli che funzionano ancora, ma potrebbero anche cessare di farlo. Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me.

Quando gli aveva detto che voleva scalare la parete nord dell’Eiger in solitaria, il Gepi aveva emesso un rantolo sordo, come se il vecchio cirrotico volesse raschiare tutto il catarro dal fondo dei suoi bronchi e poi sputarlo a terra, più denso del catrame. Ma non sputò come il suo solito, né gli uscì un filo di bava a sporcargli il maglione marrone. Si limitò a piantargli lo sguardo vacuo a metà tra il naso e lo sterno e a sibilare: Tu vuoi morire. Poi riappoggiò la testa alla spalliera della sedia a rotelle con il gesto di una tartaruga esausta. Per quanto ormai ridotto ad un rudere umano, incapace di camminare e mezzo cieco, che carburava a Prosecco fin dalle otto di mattina, il Gepi rimaneva un’istituzione per gli alpinisti della zona, una specie di oracolo di Delfi a cui rivolgersi prima di un’impresa. Ormai da tempo aveva smesso di dare consigli veramente utili, un po’ perché il cervello era in costante salamoia alcolica, un po’ perché la tecnica e il materiale erano cambiati così tanto che la montagna non era più la stessa. Quando il Gepi parlava di un sesto grado come se fosse la bocca di Polifemo, i più giovani si sganasciavano dalle risate. Erano quelli nati con i calli sulle mani, cresciuti a micro, meso e macro-cicli, tecnicamente superdotati, fisicamente imbattibili, che il sesto grado lo facevano con una mano sola, in totale sicurezza, con scarpette superaderendi da ballerina verticale; non certo con gli scarponi di pelle, i chiodi piantati a mano e le corde di canapa. Cagasotto li chiamava il Gepi nei momenti di lucidità, sempre più rari e sempre più corti.
Lui non era un cagasotto. Lui era un alpinista come ce n’erano una volta: solido, ostinato, taciturno. Non faceva diete speciali, non si allenava in palestra, non faceva bouldering, non usava finger boards. A dire la verità lui non era neanche un vero alpinista. Lui era semplicemente un montanaro, nato in montagna, cresciuto in montagna. Uno che in valle iniziava a tossire, che in pianura soffocava. Dal Gepi c’era andato per tradizione, come si compra il panettone a Natale, senza pensarci su. Normalmente il vecchio alzava le spalle senza capire, oppure borbottava una frase qualsiasi  del tipo atento ai sarachi,  oppure fa un fredo del’ostrega, coprete bén. Quel Tu vuoi morire l’aveva un po’ stupito. Non rientrava nello stile del Gepi fare premonizioni drammatiche. Probabilmente l’aveva confuso con uno dei cagasotto o si era dimenticato che aveva già scalato la nord delle Grandes Jorasses e del Cervino, d’inverno e in solitaria. All’epoca ne aveva parlato anche un giornale locale con un articolo enfatico e sgrammaticato, incastonato tra l’annuncio della sagra della lepre e un articolo sull’innaugurazione della nuova circonvallazione. Ma il Gepi non leggeva giornali, il Gepi probabilmente non sapeva neanche leggere.
Insomma, non ci fece caso e non ne parlò con nessuno. Il vantaggio della scalata in solitaria è che devi comunicare solo con te stesso, non hai la responsabilità di nessuno all’altro capo della corda; anzi la corda proprio non ce l’hai, se non arrotolata nel fondo dello zaino. La preparazione era stata rapida: poco peso vuol dire poco materiale, praticamente niente cibo, una borraccia d’acqua. In tutto si era portato dietro un chiodo da ghiaccio, quattro moschettoni e un rinvio. Il piano era di scalare la nord in giornata, non c’era bisogno di altro. Comprò il biglietto per Interlaken e dovette ripetere il nome tre volte al ferroviere attraverso il piccolo pertugio del vetro blindato dietro cui si proteggeva da chissà quali pericoli. Abbandonò il porto sicuro delle montagne per affrontare il mare aperto della pianura, passando per la tempesta immobile della città mostruosa, quella Milano da bere che puzzava di carogna ancora prima di morire. Se la lasciò alle spalle con un brivido, aspettando che passasse il lago alla sua destra, Como e Chiasso, il puttaniere a cielo aperto di Lugano, poi di nuovo a casa, di nuovo montagne. Ad Interlaken comprò il biglietto per Kleine Scheidegg. Non dovette ripetere il nome questa volta. Il ferroviere non lo guardò neanche in faccia. Osservava il suo zaino, i suoi vestiti, gli scarponi rigidi di chi usa i ramponi da ghiaccio. Kleine Schhadegg non poteva che essere l’unica destinazione per un signor nessuno in cerca dell’orco[1].

Ti svegli all’alba, il cielo è viola di sonno, solo qualche stella sopravvive all’incedere del sole. Tra poco la lampada frontale non ti servirà più. Te la potrai togliere assieme al berretto di lana e alla giacca. Tu hai sempre freddo la mattina. Sai che ti scalderai in pochi minuti, ma preferisci coprirti, iniziare a sudare, sentire il calore della pelle sulla pelle. Bella giornata pensi. Non c’è una nuvola in cielo. Le previsioni sono ottime, non ci sono rompicoglioni in giro. C’è sempre qualche cordata rumorosa a rompere l’incanto della montagna. Gente che urla sosta!, corda!, blocca! oppure Stand!, Seil!, zu!. Oggi nessuno, sono tutti rimasti in valle a mangiare fondue e a bere il vino troppo bianco, troppo acido e troppo caro del Vallese. Siamo rimasti in due: tu ed io. Ti rimetti in moto. Da giù qualcuno ti starà guardando con un binocolo, sperando in un passo falso, di vederti cadere in diretta per la parete quasi verticale di roccia e ghiaccio. Non ci fai caso ai topi di valle, sono un’altra specie, quasi peggio dei topi di città. Continui a salire. Non fai fatica. Segui la tua respirazione regolare con movimenti gravi di metronomo. Guardi dove vuoi mettere le mani, sposti i piedi, inizi il movimento con le gambe, afferri la presa con la mano, poi trovi subito l’equilibrio. Standardbewegung si chiama in tedesco. Per te non è una tecnica di arrampicata, ma il modo in cui hai sempre vissuto. In questo momento c’è un sottile strato d’aria tra te e la roccia, ma tu ti senti di roccia, non percepisci la distinzione fisica e biologica tra il tuo corpo e la parete. Siete due entità fatte della stessa materia, di cui una si muove sopra all’altra.
Non sai quanto hai arrampicato perché non hai l’altimetro. Sai solo che sei partito a poco più di 2000 metri e che la cima è a 3970. Ma per te i numeri non sono niente, non servono a descrivere una parete, una montagna o una vita. Neanche le parole servono a molto; quelle giuste non sono ancora state inventate, le altre vengono usate a sproposito. Solo i cognomi ti dicono qualcosa. Hinterstoisser ti sta parlando in questo momento. E’ morto da quasi ottant’anni, ma lo ritrovi lì di fronte a te, nella stessa posizione in cui ti trovi adesso. E’ stato il primo ad attaccare la traversa che porta il suo nome e la traversa è ancora lì, ti sta aspettando. Tu adesso sei Hinterstoisser. I tuoi piedi sono i suoi piedi, le tue mani sono le sue mani. In cento anni non è cambiato il modo di affrontare una traversa: mano, piede, mano, piede, senza perdere l’equilibrio, senza cadere nel vuoto, senza paura e senza pensare. Soprattutto senza pensare. Guardi il cielo, si è imbiancato di strisce di aerei, c’è umidità, ma il sole si vede ancora, il tempo tiene. Saluti Hinterstoisser e continui a salire. L’Eiger ha una sola direzione, non si torna indietro.
Perché hai freddo d’improvviso? Ti sei arrampicato con regolarità, non hai strafatto, sei in forma. Eppure hai freddo, un lungo brivido umido ti scorre longitudinalmente ai due lati della spina dorsale. Vento. Viene da nord. La parete è esposta a nord. Ti rimetti la giacca. Continui a salire. Ti chiedi se i topi lì in basso ti stiano ancora guardando con il cannocchiale o se abbiano iniziato a fare colazione con formaggio e Birchermuesli, bevendo caffé fumante, magari giocando a Jass. Tu non hai fame, non hai sete, hai solo un po’ di freddo.
Non si vede più il sole. Una nuvola grigia l’ha coperto. Il vento ora soffia con forza. A volte stenti a trovare l’equilibrio, l’aria ti risucchia verso il vuoto, le mani si stringono troppo forte su una roccia troppo fredda. Sai che non bisogna stringere le prese. Chi stringe troppo perde energia, chi perde energia si stanca, chi si stanca non va più avanti. Vorresti rilasciare la presa, ma le tue dita sono intorpidite dal freddo e l’insensibilità ti impedisce di sapere quando la presa è troppo stretta o troppo molla. Troppo molla vuol dire precipizio. Il tuo respiro si fa affannoso, perdi regolarità. Sei costretto a fermarti e riprendere fiato. Ma il problema non è il freddo, né l’affanno. Il problema è che hai iniziato a pensare. Non sono pensieri compiuti, logici, lineari. Pensi a parole sconclusionate a frasi storte: torta di mele, meglio soli che al mare, non tirare la corda che costa cara, freddo cane, vorrei un cane. Pensi soprattutto al vecio e al suo Tu vuoi morire, così stonato, così brutale. La tua mente ripete Tu vuoi morire dieci, venti, trenta volte. Non puoi fermarla, o forse non vuoi. La lasci correre e ad ogni passo lei ti ripete lo stesso mantra: Tu vuoi morire, tu vuoi morire, tu vuoi morire. Vorresti mettere della cera nelle orecchie, per non sentire più, ma la voce – lo sai bene – non viene da fuori. Le sirene ti parlano da dentro la tua pelle, da dentro la tua carne. Sei tu stesso la sirena che ti vuole morto.
Fa ancora più freddo. Il vento spazza la montagna con la furia di una scopa di saggina e tu in lì in mezzo non sei altro che un granello di sabbia umana aggrappato alla roccia. Tremolii. Prima i polpacci, poi le cosce, ora anche le braccia e le mani. Il freddo ti scuote dal di dentro, ti oscura la vista più che le nuvole portate dal vento. Ora sei più cieco di Polifemo, più solo di Ulisse. Non riesci a vedere veramente più nulla, tranne un mare bianco senza onde. Sai solo che devi andare in su, ma non sai più dove sei. Non avrai preso la crepa sbagliata, quella che finisce in un pezzo di granito strapiombante che non riuscirai ad affrontare da solo? Non lo sai. Avere dei dubbi è peggio che pensare, è peggio che avere paura. Fai l’unica cosa che puoi fare: andare avanti.
Inizia a nevicare. Prima dei piccoli fiocchi timidi che il vento ti sputa in faccia quasi per dispetto, poi dei grossi fiocchi che si attaccano alla giacca, ai pantaloni, ai capelli e ti coprono come una seconda pelle gelata e ostile. In breve sei bianco come Babbo Natale, ma senza le renne e senza regali. Adesso non hai altra scelta. Non puoi fare altro che fermarti. Trovi un piccolo spiazzo in cui accucciarti. E’ sufficientemente comodo per starci in due: tu e te stesso. Sai anche come si chiama quello spiazzo. Ci sono arrivati Karl Mehringer and Max Sedlmeye nel 1935 e non sono più ripartiti. Ti sei rifugiato nel bivacco della morte sperando di sopravvivere. Sai che la tua vita dipende da uno di quei topi di valle, dal loro cellulare e da un pilota coraggioso che accetti di avvicinare il suo elicottero alla parete nel mezzo della bufera. Oppure un miracolo che spazzi via le nuvole e riporti il sereno. Miracolo appunto. Fai l’unica cosa che puoi fare: rabbrividisci di un freddo bastardo che non ti dà tregua ed ogni tremito è più forte di quello precedente, ogni minuto che passa più gelido di quello precedente. Inizi a pensare seriamente che è finita e forse – questa volta – hai anche ragione.

Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me. Sto bene, fa caldo adesso. E’ tutto bianco. Questo bianco è la felicità. Il rumore è sempre lì. E’ la voce della mia coscienza? Oppure sono le pale di un elicottero che taglia l’aria con ferocia per venire a salvarmi? Apro gli occhi. Li richiudo. E’ tutto bianco. Forse stanno venendo a prendermi. Forse rimarrò su questo spuntone di roccia per sempre. Comunque vada, va tutto bene.





[1] Eiger vuol dire orco in Tedesco.

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