sabato 28 marzo 2015

Gambia, il ritorno


Per la quarta volta nel giro di due anni, dopo un sorvolo spettacolare del Sahara occidentale, sono atterrato a Banjul, Gambia. E' uno dei pochi aeroporti africani a non mettermi in un'agitazione da fine del mondo. La coda è generalemente corta e la procedura di visto molto veloce, anche se questa volta rallentata dalla presa di temperatura e dalla distribuzione di disinfettante per le mani (misure precauzionali anti-Ebola), nonché da una nuova procedura per le impronte digitali. Il poliziotto all'immigrazione ha guardato il mio passaporto e ha iniziato parlare itaiano. Non erano le solite quattro parole che si usano con i turisti, ma un italiano quasi perfetto. Ho scoperto che aveva studiato a Milano, anche se non c'è stato tempo per continuare la conversazione.
Dall'ultima volta che ci sono venuto sono cambiate un paio di cose. L'epidemia di Ebola, che pure non ha toccato il Gambia, ha causato un'emorragia di turisti, per i quali l'Africa è un tutt'uno, imperscrutabile, incomprensibile e omogeneo. L'hotel era mezzo vuoto e la compagnia aerea locale (Gambia Bird, operata da una società tedesca) è scomparsa.
Al contrario delle volte precedenti, sono riuscito a vedere un pezzo di paese, viaggiando verso est (l'unica direzione possibile). Fuori dalla capitale, degli enormi baobab si susseguivano a dei piccoli villaggi di contadini, ai pascoli e a dei campi da calcio in terra con le porte fatte di canne di bambù. Ogni dieci chilometri c'era un posto di blocco (a dire la verità piuttosto soft), eredità dell'ultimo tentativo di colpo di stato che la stampa italiana si è dimenticata di riportare.



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