domenica 10 novembre 2013

La città libera


E’ già notte quando passo l’immigrazione, scroccando un visto all’arrivo. Sono scortato da una donna che mostrava un pezzo di carta con il mio nome e che non apre bocca. Usciamo dall’aeroporto. La seguo nel buio come un bambino. Mi porta verso un gruppo di persone che formano una fila confusa e rumorosa. Mi metto da parte e aspetto. La donna scompare. Un uomo mi chiama e mi dice di salire su un bus. Il bus è pieno di gente atterrata con me. Salgo. Aspetto. Un francese seduto a fianco a me mi dice di tenere d’occhio il trolley che rischia di scomparire. Mi sembra improbabile, ma gli credo. Ricompare la donna che mi passa un biglietto. Scompare senza parlare, né fare un cenno di saluto. L’autista mette in moto e il bus parte. La strada è sterrata e piena di buche, il buio è impenetrabile. Riesco a scorgere sagome di alberi, pezzi di case, un cane. Il bus si ferma di colpo. Scendono tutti. Una lampadina illumina un pontile che scompare nel nero del mare. La gente aspetta, qualcuno fuma sotto un cartello “vietato fumare”. Arriva un altro bus, altra gente in attesa. Scoppia un temporale, il cielo si svuota di milioni di lacrime. Un uomo con una maglietta che dice “sea coach” chiama dei numeri. Giro il biglietto che ho in mano e leggo 16. Passano dieci persone. L’uomo scompare. Arriva il turno dei numeri dall’undici al ventuno. Esco dalla tettoia ed entro in una doccia di pioggia, camminando rapido sul pontile, in fondo al quale è ancorata una barca. Il capitano è nero ed è vestito di bianco. Indossa un berretto e ha l’aria sicura. La barca arranca tra le onde, sferzata dal vento, in un rumore assordante. Un’onda anomala ha l’effetto di un terremoto. Il capitano ha l’aria meno sicura. L’acqua entra dalle paratie. Fuori c’è solo mare e buio.

Non si diventa veri veterani degli aeroporti africani se non si atterra prima o poi a Freetown, la capitale della Sierra Leone. Strategicamente costruito a più di tre ore di macchina dalla città, una volta fallito tentativo di creare una spola con gli elicotteri (tutti precipitati a causa di guasti meccanici o dei piloti russi imbevuti di vodka), non rimane che usare la barca. Quando metto piede per terra ricomincio a respirare.

La Sierra Leone è stata un avamposto portoghese, poi un porto di partenza degli schiavi verso le Americhe, poi una terra di speranza per gruppi di schiavi liberati scappati dal sud degli Stati Uniti, poi terra di colonizzazione britannica ed infine una repubblica indipendente. Più che per le sue spiagge splendide ed il mare caldo, la Sierra Leone è conosciuta per i diamanti bagnati nel sangue e le atrocità della guerra civile degli anni novanta.

Tutta la ricchezza e complessità della storia del paese è contenuta nella lingua che si parla per strada, un creolo fatto di parole inglesi, francesi e portoghesi, mischiate con le lingue locali. “Bambino” si dice “pequeni”, “grazie” si dice “obligad”, “molta gente” si dice “bocu people” e “soldi” si dice “su”. Per il resto non si capisce assolutamente niente.

Anche le case sono, a modo loro, un libro di storia. Ci sono delle case di legno costruite nello stile del sud degli Stati Uniti. Rattoppate nei secoli, hanno ora l’aspetto di un magnifico puzzle di legno. Ci sono poi i tipici edifici in cemento, uno diverso dall’altro, spesso terminati solo a metà, con i tondini di ferro che sbucano dal tetto aspettando che arrivino un po’ di soldi. E ci sono delle case costruite interamente in lamiera (tetto e muri), che – appoggiate le une alle altre – creano un paesaggio multicolore da presepe tropicale.



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