domenica 9 settembre 2012

Seychelles via Doha e ritorno


L’hostess della Qatar Airways si inginocchia mentre mi chiede cosa voglio mangiare per pranzo. Ha il visto sorridente e gli occhi a mandorla, come tutte le sue colleghe (tranne una) che si affaccendano a servire piatti come se si trattasse di un ristorante più che di un aereo. Tutta questa cura nel servizio necessita di un numero spropositato di hostess e – visto che il bagno si trova dietro la cucina – mi tocca scavalcarne una mezza dozzina per fare pipì. Per fortuna sono tutte minuscole, perché se fossimo su un volo KLM - le cui hostess hanno notoriamente delle proporzioni gigantesche - bisognerebbe chiamare i pompieri per passare.
A Doha passo un paio d’ore in attesa del mio aereo per le Seychelles. La lounge è dotata di zona bambini, zona rilassazione e anche zona video-giochi. Più che una lounge si tratta di un ristorante in cui varie decine di formichine con il cappello della Qatar Airways si occupano di te con un eterno sorriso stampato in faccia. Il segreto della Qatar è che non è una compagnia che deve fare profitto, ma una vetrina per il paese, come del resto quasi tutti quello che viene fatto qui: da Aljazeera alla Qatar Foundation.
Alle Seychelles, la destinazione finale del mio viaggio di lavoro (almeno in parte) mi portano in un hotel che ha più stelle che la costellazione di Orione. La mia stanza, una junior suite (dunque la più piccola a disposizione) è grande più o meno come il mio appartamento di Zurigo. Per muoversi da una parte all’altra dell’albergo ci sono delle macchinine elettriche come quelle per il golf che funzionano come navette. Qui muoversi a piedi sembra anticostituzionale. Il personale dell’albergo ha a disposizione biciclette, motorini elettrici o macchinine elettriche a seconda della posizione nella scala gerarchica. Anche qui sembra che tutti si sveglino con il sorriso in faccia. Manca solo il barman baffuto e uno si crederebbe in un episodio di Love Boat.
Per ragioni professionali faccio un’ispezione nella parte più lussuosa dell’albergo. La ragazza che mi accompagna è guatemalteca e ha passato gli ultimi anni tra Seychelles, Mauritius e Dubai. Il suo lavoro attuale è fare il maggiordomo privato per i clienti delle ville che strapiombano sul mare. Mi fa vedere la più esclusiva che è dotata di ben due piscine private (che non si sa mai che uno vuole cambiare un po’ aria tra una nuotata e l’altra), palestra privata, sauna e varie altre amenità. Il modico prezzo va dai 9.000 ai 15.000 dollari a notte. Come mi spiega la maggiordomo senza una vena di ironia nella voce, si ha in cambio un’enorme privacy (ci mancherebbe altro). Per quanto apprezzi lo sforzo di produrre tanto sfarzo, il risultato finale è di una banalità disarmante. E poi? Ti viene da chiederti: e poi?
Dopo qualche giorno passato più a fare riunioni che a nuotare, ripasso per Doha sulla via del ritorno dove passo tredici ore tra lavoro e dormiveglia. Faccio un giro per il centro che è un’accozzaglia di grattacieli di medie dimensioni inframmezzati da strade e dal nulla, in attesa che quest’ultimo sia riempito da altro cemento in breve tempo. Metà degli edifici sono degli enormi alberghi a cinque stelle, praticamente semivuoti. Verso mezzogiorno, con una temperatura vicino ai quaranta gradi, la città sembra deserta. Si vedono solo strade ed edifici. Non c’è la traccia di un albero e ancora meno di un passante, tanto che non si capisce perché abbiano costruito i marciapiedi visto che tutti vanno in giro in macchina. Dove vadano è un altro mistero, visto che i posti più “turistici” – il porto, la spiaggia, il lungomare – sono tutti irremediabilmente deserti. Solo le shopping mall debordano di gente, per lo più uomini vestiti in tuniche bianche con delle tovaglie sulla testa e donne in completi totalmente neri, con o senza l’opzione tapparella sulla faccia. Vista la moda dilagante non si capisce chi compri gli abiti multicolori e succinti che si vendono nei negozi. Più che un’economia di mercato sembra piuttosto un mercato dell’economia.
Quando atterro a Zurigo e prendo il trenino che porta all'uscita mi accorgo che il mio vicino è completamente tatutato, letteralmente dalla testa ai piedi. Nonostante le mie scarse conoscenze dei video di Lady Gaga lo riconosco grazie ad un articolo che ho letto in 20 Minuten, il giornale distribuito gratuitamente nel tram (e mia fonte porincipale di vocabolario tedesco). Trattasi di Rick Genest, alias Zombie Boy. Vorrei chiedergli se gli piace Camus ma sembra troppo concentrato sul suo iPod nano.




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