giovedì 18 dicembre 2014

Buona la prima


Il treno, la mattina, è stranamente mezzo vuoto. La linea per Milano non è molto frequentata dai pendolari. In mezzo alle poche persone vestite di nero, fa sempre un po' specie vedere un gruppo a tinte forti: rosse, verdi, gialle. Non siamo dei clown, solo una decina di scialpinisti del lunedì.
Il treno attraversa longitudinalmente la profonda valle che taglia il Cantone di Uri . Il cielo è grigio, non c'è traccia di neve. A Göschenen, il paese conosciuto da chiunque (e sono molti) sia rimasto bloccato per ore aspettando di passare il traforo del San Gottardo, fa quasi caldo. Di solito, in dicembre, scendendo dal treno e cambiando binario, bisogna correre per non congelarsi. Oggi non mi chiudo neanche la giacca.
Solo ad Andermatt appaiono le prime tracce di neve, in molti punti macchiata dal nero della terra sottostante. Un altro pezzo di treno ed eccoci a Oberalpass, la cui stazione sciistica sta ancora aspettando ad aprire i battenti e ricorda vagamente un villaggio abbandonato del Far West. Noi non abbiamo bisogno di skilift, e le pendici che portano al Pazolastock sonno sufficientemente imbiancate.
La salita è regolare e piuttosto facile. Il sole decide di accompagnarci ogni tanto, facendo a nascondino da dietro alle nuvole. Il vento, che ci ha ignorati per tutto il percorso, inizia a farsi sentire molto forte in vetta, costringendoci a ripararci dietro a una malga per togliere le pelli e prepararci per scendere. La discesa, come sempre, è splendida.


sabato 29 novembre 2014

Il nucleo della questione


Ci sono molte ragioni per cui mi piace la Svizzera. Ci sono chiaramente le montagne, i ghiacciai e le pareti di roccia da scalare. Ci sono gli efficientissimi treni che ti permettono di arrivare ovunque. Ci sono gli stipendi alti e le tasse basse. Ci sono l'assenza della politica partitica e un'informazione da fare invidia alla BBC. Ma la vera ragione per cui adoro la Svizzera è che ogni tanto ricevi un pacchetto dalla farmacia militare di Berna. Viene preceduto, un paio settimane prima, da un volantino che spiega di cosa si tratta: ioduro di potassio.
La Svizzera ha quattro centrali nucleari che producono circa il 25% della propria elettricità. Il resto è prodotto da una ventina di centrali idroelettriche. Non solo la Svizzera è totalmente autonoma nella produzione della propria energia, ma il costo è ridicolo, l'unica cosa che costi veramente poco.
Lo ioduro di potassio è una sostanza che protegge la tiroide dalla iodio radioattivo in caso di contaminazione per un incidente nucleare. Il volantino spiegava, con l'ausilio di una cartina, i rischi di contaminazione potenziale, creando delle aree colorate attorno alle centrali. Essendo la Svizzera un paese piuttosto piccolo, le aree colorate coprivano una buona parte del territorio.
Quando ho aperto il pacchetto, ho pensato a cosa succederebbe in Italia se il governo facesse qualcosa di simile e a quali isterie collettive cavalcate dai populisti istituzionali si dovrebbe assistere.
Le quattro centrali nucleari verranno chiuse alla fine del loro ciclo produttivo nei prossimi vent'anni. Nel frattempo, l'azienda elettrica sta facendo delle campagne per ridurre il consumo di elettricità e degli investimenti per utilizzare energie rinnovabili.
Ero un bambino quando ci fu il referendum sul nucleare in Italia. Ritengo che l'energia nucleare non rappresenti il futuro, per i rischi che rappresenta e per i costi che implica. Tuttavia quel referendum è una fotografia perfetta del processo decisionale italico, in cui la razionalità e la pianificazione non hanno alcun ruolo, ma tutto si basa sulla paura e sull'istinto.

giovedì 16 ottobre 2014

L'Orco (racconto)

Sto bene. Un tepore caldo, come un fluido che mi scorre sottopelle, segue le linee ramificate del mio corpo. Sono avvolto in una nuvola di cotone, i piedi, le mani, le spalle, la testa. Il bianco mi abbraccia e mi dondola. E’ la mamma che mi osserva dall’alto, che fa dondolare la culla con gesti leggeri. Mi sta sussurrando parole dolci nell’orecchio. Mi sta accarezzando dolcemente la testa pelata. Mi solletica i piedi. Non c’è rumore qui, tutto tace, il silenzio del benessere assoluto. Solo una luce diffusa, omogenea, che non genera ombra, schermata. Mi giro su un lato. Ho un’intensa voglia di addormentarmi, di entrare con tutto il corpo nel sonno di questo bianco e di questa luce, ritrovare il grembo materno, appallottolarmi in posizione fetale, riattaccare il cordone ombelicale, immergermi nel liquido amniotico, dormire succhiandomi il pollice. Sento qualcosa – forse un leggero rumore che spezza il silenzio – ma non viene da fuori, è il rumore della mia mente che vuole dirmi qualcosa. Ma cosa? Non voglio rumori. Voglio silenzio e pace, una mente che non parla, la cessazione di tutto. Forse è una voce, ma non riesco a distinguere le parole. Non mi importa. Niente mi importa, tranne il caldo abbraccio in cui mi trovo in questo momento. Non ascolto la voce, la confino nel bagnomaria del mio inconscio, a sciogliersi lentamente nel tepore che mi avvolge. Chiudo gli occhi, ma la luce rimane. Li riapro e la luce è sempre lì. Aperti o chiusi, gli occhi non mi servono più. Le palpebre sono gli unici muscoli che funzionano ancora, ma potrebbero anche cessare di farlo. Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me.

Quando gli aveva detto che voleva scalare la parete nord dell’Eiger in solitaria, il Gepi aveva emesso un rantolo sordo, come se il vecchio cirrotico volesse raschiare tutto il catarro dal fondo dei suoi bronchi e poi sputarlo a terra, più denso del catrame. Ma non sputò come il suo solito, né gli uscì un filo di bava a sporcargli il maglione marrone. Si limitò a piantargli lo sguardo vacuo a metà tra il naso e lo sterno e a sibilare: Tu vuoi morire. Poi riappoggiò la testa alla spalliera della sedia a rotelle con il gesto di una tartaruga esausta. Per quanto ormai ridotto ad un rudere umano, incapace di camminare e mezzo cieco, che carburava a Prosecco fin dalle otto di mattina, il Gepi rimaneva un’istituzione per gli alpinisti della zona, una specie di oracolo di Delfi a cui rivolgersi prima di un’impresa. Ormai da tempo aveva smesso di dare consigli veramente utili, un po’ perché il cervello era in costante salamoia alcolica, un po’ perché la tecnica e il materiale erano cambiati così tanto che la montagna non era più la stessa. Quando il Gepi parlava di un sesto grado come se fosse la bocca di Polifemo, i più giovani si sganasciavano dalle risate. Erano quelli nati con i calli sulle mani, cresciuti a micro, meso e macro-cicli, tecnicamente superdotati, fisicamente imbattibili, che il sesto grado lo facevano con una mano sola, in totale sicurezza, con scarpette superaderendi da ballerina verticale; non certo con gli scarponi di pelle, i chiodi piantati a mano e le corde di canapa. Cagasotto li chiamava il Gepi nei momenti di lucidità, sempre più rari e sempre più corti.
Lui non era un cagasotto. Lui era un alpinista come ce n’erano una volta: solido, ostinato, taciturno. Non faceva diete speciali, non si allenava in palestra, non faceva bouldering, non usava finger boards. A dire la verità lui non era neanche un vero alpinista. Lui era semplicemente un montanaro, nato in montagna, cresciuto in montagna. Uno che in valle iniziava a tossire, che in pianura soffocava. Dal Gepi c’era andato per tradizione, come si compra il panettone a Natale, senza pensarci su. Normalmente il vecchio alzava le spalle senza capire, oppure borbottava una frase qualsiasi  del tipo atento ai sarachi,  oppure fa un fredo del’ostrega, coprete bén. Quel Tu vuoi morire l’aveva un po’ stupito. Non rientrava nello stile del Gepi fare premonizioni drammatiche. Probabilmente l’aveva confuso con uno dei cagasotto o si era dimenticato che aveva già scalato la nord delle Grandes Jorasses e del Cervino, d’inverno e in solitaria. All’epoca ne aveva parlato anche un giornale locale con un articolo enfatico e sgrammaticato, incastonato tra l’annuncio della sagra della lepre e un articolo sull’innaugurazione della nuova circonvallazione. Ma il Gepi non leggeva giornali, il Gepi probabilmente non sapeva neanche leggere.
Insomma, non ci fece caso e non ne parlò con nessuno. Il vantaggio della scalata in solitaria è che devi comunicare solo con te stesso, non hai la responsabilità di nessuno all’altro capo della corda; anzi la corda proprio non ce l’hai, se non arrotolata nel fondo dello zaino. La preparazione era stata rapida: poco peso vuol dire poco materiale, praticamente niente cibo, una borraccia d’acqua. In tutto si era portato dietro un chiodo da ghiaccio, quattro moschettoni e un rinvio. Il piano era di scalare la nord in giornata, non c’era bisogno di altro. Comprò il biglietto per Interlaken e dovette ripetere il nome tre volte al ferroviere attraverso il piccolo pertugio del vetro blindato dietro cui si proteggeva da chissà quali pericoli. Abbandonò il porto sicuro delle montagne per affrontare il mare aperto della pianura, passando per la tempesta immobile della città mostruosa, quella Milano da bere che puzzava di carogna ancora prima di morire. Se la lasciò alle spalle con un brivido, aspettando che passasse il lago alla sua destra, Como e Chiasso, il puttaniere a cielo aperto di Lugano, poi di nuovo a casa, di nuovo montagne. Ad Interlaken comprò il biglietto per Kleine Scheidegg. Non dovette ripetere il nome questa volta. Il ferroviere non lo guardò neanche in faccia. Osservava il suo zaino, i suoi vestiti, gli scarponi rigidi di chi usa i ramponi da ghiaccio. Kleine Schhadegg non poteva che essere l’unica destinazione per un signor nessuno in cerca dell’orco[1].

Ti svegli all’alba, il cielo è viola di sonno, solo qualche stella sopravvive all’incedere del sole. Tra poco la lampada frontale non ti servirà più. Te la potrai togliere assieme al berretto di lana e alla giacca. Tu hai sempre freddo la mattina. Sai che ti scalderai in pochi minuti, ma preferisci coprirti, iniziare a sudare, sentire il calore della pelle sulla pelle. Bella giornata pensi. Non c’è una nuvola in cielo. Le previsioni sono ottime, non ci sono rompicoglioni in giro. C’è sempre qualche cordata rumorosa a rompere l’incanto della montagna. Gente che urla sosta!, corda!, blocca! oppure Stand!, Seil!, zu!. Oggi nessuno, sono tutti rimasti in valle a mangiare fondue e a bere il vino troppo bianco, troppo acido e troppo caro del Vallese. Siamo rimasti in due: tu ed io. Ti rimetti in moto. Da giù qualcuno ti starà guardando con un binocolo, sperando in un passo falso, di vederti cadere in diretta per la parete quasi verticale di roccia e ghiaccio. Non ci fai caso ai topi di valle, sono un’altra specie, quasi peggio dei topi di città. Continui a salire. Non fai fatica. Segui la tua respirazione regolare con movimenti gravi di metronomo. Guardi dove vuoi mettere le mani, sposti i piedi, inizi il movimento con le gambe, afferri la presa con la mano, poi trovi subito l’equilibrio. Standardbewegung si chiama in tedesco. Per te non è una tecnica di arrampicata, ma il modo in cui hai sempre vissuto. In questo momento c’è un sottile strato d’aria tra te e la roccia, ma tu ti senti di roccia, non percepisci la distinzione fisica e biologica tra il tuo corpo e la parete. Siete due entità fatte della stessa materia, di cui una si muove sopra all’altra.
Non sai quanto hai arrampicato perché non hai l’altimetro. Sai solo che sei partito a poco più di 2000 metri e che la cima è a 3970. Ma per te i numeri non sono niente, non servono a descrivere una parete, una montagna o una vita. Neanche le parole servono a molto; quelle giuste non sono ancora state inventate, le altre vengono usate a sproposito. Solo i cognomi ti dicono qualcosa. Hinterstoisser ti sta parlando in questo momento. E’ morto da quasi ottant’anni, ma lo ritrovi lì di fronte a te, nella stessa posizione in cui ti trovi adesso. E’ stato il primo ad attaccare la traversa che porta il suo nome e la traversa è ancora lì, ti sta aspettando. Tu adesso sei Hinterstoisser. I tuoi piedi sono i suoi piedi, le tue mani sono le sue mani. In cento anni non è cambiato il modo di affrontare una traversa: mano, piede, mano, piede, senza perdere l’equilibrio, senza cadere nel vuoto, senza paura e senza pensare. Soprattutto senza pensare. Guardi il cielo, si è imbiancato di strisce di aerei, c’è umidità, ma il sole si vede ancora, il tempo tiene. Saluti Hinterstoisser e continui a salire. L’Eiger ha una sola direzione, non si torna indietro.
Perché hai freddo d’improvviso? Ti sei arrampicato con regolarità, non hai strafatto, sei in forma. Eppure hai freddo, un lungo brivido umido ti scorre longitudinalmente ai due lati della spina dorsale. Vento. Viene da nord. La parete è esposta a nord. Ti rimetti la giacca. Continui a salire. Ti chiedi se i topi lì in basso ti stiano ancora guardando con il cannocchiale o se abbiano iniziato a fare colazione con formaggio e Birchermuesli, bevendo caffé fumante, magari giocando a Jass. Tu non hai fame, non hai sete, hai solo un po’ di freddo.
Non si vede più il sole. Una nuvola grigia l’ha coperto. Il vento ora soffia con forza. A volte stenti a trovare l’equilibrio, l’aria ti risucchia verso il vuoto, le mani si stringono troppo forte su una roccia troppo fredda. Sai che non bisogna stringere le prese. Chi stringe troppo perde energia, chi perde energia si stanca, chi si stanca non va più avanti. Vorresti rilasciare la presa, ma le tue dita sono intorpidite dal freddo e l’insensibilità ti impedisce di sapere quando la presa è troppo stretta o troppo molla. Troppo molla vuol dire precipizio. Il tuo respiro si fa affannoso, perdi regolarità. Sei costretto a fermarti e riprendere fiato. Ma il problema non è il freddo, né l’affanno. Il problema è che hai iniziato a pensare. Non sono pensieri compiuti, logici, lineari. Pensi a parole sconclusionate a frasi storte: torta di mele, meglio soli che al mare, non tirare la corda che costa cara, freddo cane, vorrei un cane. Pensi soprattutto al vecio e al suo Tu vuoi morire, così stonato, così brutale. La tua mente ripete Tu vuoi morire dieci, venti, trenta volte. Non puoi fermarla, o forse non vuoi. La lasci correre e ad ogni passo lei ti ripete lo stesso mantra: Tu vuoi morire, tu vuoi morire, tu vuoi morire. Vorresti mettere della cera nelle orecchie, per non sentire più, ma la voce – lo sai bene – non viene da fuori. Le sirene ti parlano da dentro la tua pelle, da dentro la tua carne. Sei tu stesso la sirena che ti vuole morto.
Fa ancora più freddo. Il vento spazza la montagna con la furia di una scopa di saggina e tu in lì in mezzo non sei altro che un granello di sabbia umana aggrappato alla roccia. Tremolii. Prima i polpacci, poi le cosce, ora anche le braccia e le mani. Il freddo ti scuote dal di dentro, ti oscura la vista più che le nuvole portate dal vento. Ora sei più cieco di Polifemo, più solo di Ulisse. Non riesci a vedere veramente più nulla, tranne un mare bianco senza onde. Sai solo che devi andare in su, ma non sai più dove sei. Non avrai preso la crepa sbagliata, quella che finisce in un pezzo di granito strapiombante che non riuscirai ad affrontare da solo? Non lo sai. Avere dei dubbi è peggio che pensare, è peggio che avere paura. Fai l’unica cosa che puoi fare: andare avanti.
Inizia a nevicare. Prima dei piccoli fiocchi timidi che il vento ti sputa in faccia quasi per dispetto, poi dei grossi fiocchi che si attaccano alla giacca, ai pantaloni, ai capelli e ti coprono come una seconda pelle gelata e ostile. In breve sei bianco come Babbo Natale, ma senza le renne e senza regali. Adesso non hai altra scelta. Non puoi fare altro che fermarti. Trovi un piccolo spiazzo in cui accucciarti. E’ sufficientemente comodo per starci in due: tu e te stesso. Sai anche come si chiama quello spiazzo. Ci sono arrivati Karl Mehringer and Max Sedlmeye nel 1935 e non sono più ripartiti. Ti sei rifugiato nel bivacco della morte sperando di sopravvivere. Sai che la tua vita dipende da uno di quei topi di valle, dal loro cellulare e da un pilota coraggioso che accetti di avvicinare il suo elicottero alla parete nel mezzo della bufera. Oppure un miracolo che spazzi via le nuvole e riporti il sereno. Miracolo appunto. Fai l’unica cosa che puoi fare: rabbrividisci di un freddo bastardo che non ti dà tregua ed ogni tremito è più forte di quello precedente, ogni minuto che passa più gelido di quello precedente. Inizi a pensare seriamente che è finita e forse – questa volta – hai anche ragione.

Ora tutto è chiaro, non c’è buio, non c’è dolore, non c’è freddo e non c’è fame. C’è solo un sonno dolce di fronte a me. Sto bene, fa caldo adesso. E’ tutto bianco. Questo bianco è la felicità. Il rumore è sempre lì. E’ la voce della mia coscienza? Oppure sono le pale di un elicottero che taglia l’aria con ferocia per venire a salvarmi? Apro gli occhi. Li richiudo. E’ tutto bianco. Forse stanno venendo a prendermi. Forse rimarrò su questo spuntone di roccia per sempre. Comunque vada, va tutto bene.





[1] Eiger vuol dire orco in Tedesco.

martedì 16 settembre 2014

Diechterhorn


Bisognava aspettare la fine della stagione, probabilmente l'ultimo week end di alta montagna estiva per avere un cielo blu cobalto, senza ombra di nuvole, con gli aerei che tracciano sottili fili bianchi che scompaiono all'istante, senza lasciare traccia.
Il Diechterhorn sovrasta un ghiacciaio che si sta ritirando a vista d'occhio, lasciando sotto di se una lunga striscia di roccia e sassi. Rimane la parte superiore, facile e sicura, ma piuttosto ripida. L'esposizione a nord-ovest e la fine dell'estate si sentono la mattina presto sulla pelle: freddo. Ci si scalda solo camminando. Arrivati in cima al colle, il sole ci accoglie, splendente come non mai e ci accompagna sulla facile traversa sul versante esposto ad est. Un breve e facile tratto di roccia (ma è meglio evitare di cadere perché sotto c'è il vuoto) e si arriva in cima, circondati da ghiacciai e cime innevate.

 

venerdì 12 settembre 2014

Oberaarhorn



Tutte le vette sembrano inaccessibili da lontano, ma poche si revalano così facili da conquistare se comparate a quanto ardue sembrano dalla valle come l'Oberaarhorn. Il grosso della fatica è la salita per il ghiacciaio tagliato dai crepacci per arrivare fino al rifugio, così abbarbicato alla roccia che bisogna usare una scala a pioli. Mi chiedo a chi sia venuto in mente di costruirlo proprio lì. Non una brutta idea, si è in mezzo a tre ghiacciai che scendono verso le rispettive valli, ma all'epoca deve essere stato massacrante portare tutto il materiale a 3.300m.
L'ultimo pezzo dell'ascesa verso i 3.600 è molto piacevole. Non c'è bisogno di corda. Dopo un tratto di roccia si arriva su un nevaio che è bello in salita e splendido in discesa. Per la prima volta quest'estate riesco anche a vedere il panomarama, anche se - con mia grande sorpresa - i miei compagni non sanno dirmi i nomi delle cime che ci circondano. Neanche la cartina aiuta, perché tutto il lato nord è assente e verso sud si vede solo la valle che porta al Vallese. Montagne senza nome, comunque splendide.



mercoledì 10 settembre 2014

Oberalpstock



C'era uno stambecco poco sopra alla Cavadirashütte, che ci ha guardato per vari secondi prima di andarsene veloce come era arrivato. Di sole poco o niente, in compenso nuvole, ghiaccio e molta neve che continua a sciogliersi.
Il ghiacciaio Brunni è tagliato da centinaia di crepacci, alcuni piuttosto grandi, che ci costringono a procedere a zig zag. E' interessante come i crepacci non si formino in modo parallelo. Lasciano sempre un lembo di ghiaccio attaccato all'altra parte, anche se a volte bisogna avere una certa pazienza per trovarlo. Saltare crepacci profondi varie decine di metri non è proprio un'attività rilassante, ma poi ci si abitua. I crepacci che si vedono sono innocui. Quelli pericolosi sono quelli che si nascondono sotto la neve.
Come sempre quest'estate, una volta lasciato i lghiacciaio per una cinquantina di metri di dislivello di roccia e sassi, arrivati in cima al Oberalpstock, c'era solo nebbia.

Per chi sia interessato al ritirarsi dei ghiacciai consiglio questo sito che parla di un progetto artistico molto interessante: http://www.wandelzeit.ch/


lunedì 8 settembre 2014

Bristen


In quest'estate che sa d'autunno, un mezzo spiraglio di sole, un paio d'ore senza pioggia o un  cielo solo parzialmente nuvoloso sono una buona notizia.
Bristen è una cima rocciosa, sopra i tremila metri, che guarda sulla valle che connette Zurigo a Milano via Gottardo. E' una valle angusta, piuttosto scura. Per lasciarla bisogna prendere una strada che è così tortuosa che ci sono dei tornanti nelle gallerie e che costringe le macchine lunghe retromarcie quando incontrano l'autobus postale.
Dal rifugio si vede il lago dei Quattro Cantoni. La mattina abbiamo le nuvole sotto ai piedi, che in cima ci hanno raggiunto e vediamo solo bianco. Il ritorno è sotto la pioggia.


martedì 19 agosto 2014

Calvi e Ile Rousse


All'albergo di Calvi accettano di darmi una stanza solo dopo che assicuro che non ho pulci (sembra sia un problema ricorrenti di quelli che tornano dal GR 20), poi vengo adottato dalla coppia di anziani proprietari. Calvi è una sorpresa. Oltre ad una spiaggia lunghissima e strettissima in cui si impacchettano migliaia di salamandrre cosparse di olii abbronzanti,c'è una magnifica cittadella costruita dai genovesi che si affaccia sul porto infestato dai soliti yacht popolati da gente che mangia di fronte ad altra gente che gode ad osservarli mangiare. Scopro che Calvi è la città natale di Cristoforo Colombo. Faccio un pellegrinaggio alle rovine della sua casa, non sapendo se commemorarlo per il suo incredibile coraggio oppure condannarlo per aver regalato una terra promessa a chi non l'ha mantenuta.
A Calvi volevo fare il vero turista ebete ed affittare uno scooter, ma alla fine ho preso il trenino per Ile Rousse, che è una specie di bus su rotaie che si ferma ad ogni angolo di strada. Non ci sono vere stazioni e uno deve un po' indovinare dove ci si trova. Ogni tanto il capotreno urla il nome della stazione. Come me, la maggior parte delle persone non hanno fatto il biglietto e viaggia gratis visto che bisognerebbe pagare al controllore ma non ci si può muovere per la troppa gente. Se si aggiunge il caldo, l'esperienza è un po' estrema, ma in compenso si può guardare fuori dal finestrino e vedere degli autentici paradisi naturali. Il treno si ferma nel mezzo del nulla e a pochi metri si ha la spiaggia più bella del mondo, semi-vuota. L'esperienza è decisamente folcloristica e osservo la compassata coppia danese che non sa se iniziare la lunga lista delle cose che potrebbero essere meglio organizzate (veramente lunga) o lasciarsi prendere dalla magia del mare, del sole e del cielo azzurro. Come tutti, optano per la seconda opzione.


lunedì 18 agosto 2014

GR 20: Carrozzu-Calenzana



L'inventore delle tende insonorizzate - quando verranno create - meriterà il premio Nobel per la Pace. C'è voluto poco perché non sgozzassi il mio vicino nel sonno (suo) e nell'insonnia (mia). Russare dovrebbe essere considerato un crimine contro l'umanità.
Grazie a lui mi alzo alle 4.30, impacchetto lo zaino e parto mezz'ora dopo senza fare colazione. L'inizio è un po' traumatico, ma camminare al buio con la lampada frontale è sempre un'esperienza mistica, soprattutto se si è da soli. Le stelle mi osservano dal cielo e la stella polare indica la ia direzione. Tra poco mi dovranno lasciare perché il sole è dietro l'angolo. La luce arriva come una brezza leggera, di colpo è giorno, il misticismo è finito, è ora di fare colazione.
Oggi le gambe sono dure, il fiato corto, il sentiero semplicemente micidiale. Più che la salita è la discesa a massacrarmi, non c'è un solo tratto in cui si possano fare due passi di seguito. Entro in una specie di trance e ripeto il mio mantra di questo GR 20, una canzone dei Louise Attaque che dice "Lea elle n'est pas à gauche, elle n'est pas à droite, elle n'est pas maladroite". Il bello dei mantra è che non devono avere necessariamente senso.
Finita la discesa immergo i piedi tumefatti in un ruscello e mi dedico a dare indicazioni ai dispersi sfiancati dai continui saliscendi. Poco dopo riprendo il cammino e arrivo al rifugio Ortu di u Piobbu che segna l'inizio dell'ultima tappa per me. Il sentiero è splendido: facile, ben segnato, immerso nel bosco. Penso che serve ad illudere quelli che iniziano il GR 20 da nord e ad irridere quelli che si sono sciroppati terreni atroci. La discesa è lunghissima (1.600 m) ma piacevole. Il caldo si fa sentire, il paesaggio diventa familiare, si vedono case, la baia di Calvi, anche campi coltivati. Infine, dietro ad una collina, appare come un miraggio il campanile di Calenzana: la fine è ficina, le vesciche fanno festa.


Poco rpima di entrare in paese assisto ad una scena molto toccante. Ci sono un ragazzo e una ragazza che incontrano due donne. Da lontano non capisco se stanno ridendo o piangendo. Da più vicino mi accorgo che piangono a dirotto tutti quanti, mentre il ragazzo continua a ripetere "the place is so beautiful". Da quello che capisco i due ragazzi sono saliti a vedere il posto dove è morto un loro familiare.
L'arrivo a Calenzana è da film Western. Il paesino è immerso in un meriggiare pallido e assorto, agostano. Le vie strette e arrampicate sulla collina, ruomore di cicale, due vecchietti seduti fuori dalla porta di casa. E l'extraterrestre che scende dalla luna con bastonicini telescopici e zaino formato magnum.
Pensavo di trovare un bus per Calvi, ma l'ultimo della giornata è partito poco prima. Accendo il pollice per scroccare un passaggio e dopo esattamente 30 secondi si ferma una signora gentilissima che mi deposita a Calvi all'istante, spiegandomi tutto sulla città e la regione.

domenica 17 agosto 2014

GR 20: Tighjiettu-Carrozzu


E' buio pesto quando mi sveglio. Alla luce della lampada frontale preparo la colazione, mi incerotto i piedi, rifaccio lo zaino e parto. Il mio orologio segna le 6.01. I primi passi sono massacranti. Inizio a dubitare di poter fare le due tappe che mi aspettano, tra le più difficuli del GR 20. Poi il motore si scalda e procedo spedito. Nonostante il terreno impervio e lo zaino, salgo 500 m in un'ora e arrivo presto al punto più difficile - il cosiddetto Cercle de la Solitude. Il posto è reso più spettacolare e tetro da nuvole dense e basse e da un vento fortissimo che rischia di farti cadere ad ogni passo. Ci sono pezzi di secondo e terzo grado, delle catene fisse e un bello strapiombo sotto i piedi. Con zaino e scarponi è un passaggio che è meglio non fare da ubriachi.


Passato indenne il Cercle de la Solitude, la discesa su Asco è piuttosto piacevole. Arrivo in valle poco prima delle 11. Mezz'ora per fare il pieno di ottimo carburante (salame di cinghiale e formaggio di pecora) e poi via di nuovo per un sentiero che sale ripido. La coppia di gitanti davanti a me sale a balzi felini. Io avanzo con il passo lento e regolare di un carro armato. Dopo mezz'ora sembrano sfatti e non li rivedrò più.
Il sentiero sale ripido e spesso bisogna usare le mani per arrampicarsi. C'è vento ed il cielo sempra un mare di asfalto. Ringrazio il dio della montagna per mantenere le rocce asciutte. Scendere sui lastroni bagnati sarebbe uno sport estremo.
Dopo un po' trovo un laghetto di montagna. Non resisto alla tentazione di buttarmi, anche se il bagno dura un battito di ciglia perché l'acqua è gelata. Mi conforto mangiando il formaggio di pecora con un pane che ha la forma dell'archetipo del pane (quello della pubblicità della Nutella per intenderci). Riprendo la discesa e le gambe si fanno pesanti. Non si rifiutano di scendere, ma riducono sensibilmente la velocità. Inizio ad odiare i lastroni interminabili.
La valle è piuttosto inquietante, stretta e profonda, sembra sia stata tagliata con il flessibile dal torrente che scende alla mia destra. La valle è attraversata da un ponte sospespo nel vuoto, vibra e balla che è un piacere, ma in pochi minuti sono al rifugio.
Oggi ho camminato per nove ore, per 1.550 m di salita e 1.860 m di discesa.


sabato 16 agosto 2014

GR 20: Manganu-Tighjiettu


Alle 6.45 di mattina il paesaggio è da Verde Prateria, tra ruscelli e mucche. Il sentiero è piano, oggi il dislivello non sarà il problema maggiore. Il problema sarà la distanza di 31 Km delle tre tappe che ho previsto. Per di più allungo il percorso perdendomi un paio di volte. Le varie parti del mio corpo protestano a turno. Iniziano le spalle, seguiti dai fianchi, continuano i piedi. Nonostante sia partito incerottato come un invalido di guerra, il migolo sinistro urla di dolore, l'alluce destro lo accompagana e si aggiunge al coro anche il tallone destro. Decido di incerottare l'alluce destro creando un disastro: una piaga si crea all'istante nel dito a fianco, anche lui incerottato immediatamente.
Passo a fianco ad un albero che è l'emblema stesso della sopravvivenza: il vento che soffia da ovest è così forte che tutti i rami guardano ad est. Sembar che si sia appena fatto una messa in piega. Poco dopo entro in una macchia mediterranea che odora di pini marittimi e che mi proteggerà dal sole per varie ore.


Dopo due giorni di nulla totale, incrocio per la prima volta la civiltà: una strada asfaltata, macchine, anche un negozio in cui compro yoghurt, mele e cioccolata. La civiltà porta con sé anche molti escursionisti della domenica, con sandali ai piedi e magliette scollate. Ma appena il sentiero sale, i gitanti si diradano fino a scomparire.
Alla mia destra c'è il solito torrente di acqua cristallina che forma un paradiso naturale. Per una volta abdico al mio masochismo cronico e abbandono la mia tabella di marcia, togliendomi calzini, pantaloni e maglietta sudata. L'acqua è gelida, ma carica di vita. Quando riparto sono  più veloce di Flash Gordon e arrivo al rifugio alle 15.45. Ho già fatto due tappe e quelli che sono partiti con me si tolgono gli zaini, iniziano a montare la tenda. Non mi va di fermarmi. Riempio la borraccia e riparto. Non troverò nessuno per strada, né in un senso né nell'altro. Il sentiero prima sale, poi scende con una pendenza molto importante in mezzo alle rocce. Faccio attenzione per non finire a valle con un solo salto.
Quando finisco la discesa, di colpo, la stanchezza mi cala addosso. Ogni passo è una pena ed inizio a parlare con il sentiero come fosse una persona. Gli dico di fare il bravo, di smettere di giocare al saliscendi, di rimanere regolare. Niente, il sentiero oggi è in vena di scherzi. Sto già iniziando a guardarmi attorno per vedere se c'è un posto per un bivacco che incrocio un inglese tutto agghindato da corsa in montagna che mi informa che mancano 20 minuti. C'è una bergerie dietro l'angolo, il rifugio è più sopra, decido di fermarmi. Sono le sei di sera, undici ore di cammino.

giovedì 14 agosto 2014

GR 20: Onda-Manganu


Sveglia alle sei dopo notte mezzo insonne a causa del vento forte e della tenda in discesa. Sono il primo a partire e l'unico a fare due tappe in un giorno. Il sentiero scende in un bosco di latifoglie che genera un'ombra quasi magica e il ruscello al fianco forma delle piccole piscine naturali. Se non fosse mattina presto mi farei un bagno. Dall'altro lato della valle sale dolcemente, quasi non sembra salita. A mezzogiorno in punto sono al rifugio Petra Piana. Continuo per Manganu credendo di avere una salita e poi una discesa. Invece il sentiero sembra voler giocare a nascondino: sale, scende, sale, scende. Attraversa le montagne in costa e non sembra finire emai. Ho perso il conto dell'altitudine, ma mi sembra di avere abbondantemente superato il dislivello preventivato. Il fondo è roccioso e spesso bisogna camminare su enormi massi oppure arrampicarsi. Niente di tecnicamente impossibile, ma i 16Kg sulle spalle mi fanno muovere come un babà alla crema.


Sul GR 20 si incontrano sempre persone, in un senso o nell'altro. Improvvisamente non si vede più nessuno. Devo essere l'ultimo ad essere partito verso nord da Petra Piana. Penso che è meglio non cadere, perché una caviglia rotta vuol dire passare la notte a 2000 m. Infine il sentiero decide di scendere, l'altimetro indica che il rifugio si sta avvicinando. Sono in ritardo di circa un'ora rispetto alle previsione, ma sono ancora le cinque di pomeriggio e il tempo è bello.
Il rifugio Manganu è meglio di Onda, ma alla doccia c'è una fila interminabile. Vado a lavarmi al torrente, tanto l'acqua è la stessa. Dopo una birra al sole faccio l'inventario dei miei muscoli. Tutti presenti dopo i 1.600 m di salita e i 1.500 di discesa in dieci ore. Domani si riparte.

martedì 12 agosto 2014

GR 20: Vizzavona-Onda


Il GR 20 è uno dei sentieri di montagna più lunghi d'Europa. Taglia la Corsica in senso longitudinale e sale e scende per circa duecento chilometri. Si può fare da nord a sud o al contrario. Io inizio a circa un terzo e vado verso nord. Non ho una cartina, non ho una guida e mi sono sbagliato a guardare le tappe su internet e ne devo fare dieci invece di sei come pensavo. Il mio volo parte tra sette giorni, per cui dovrò obbligatoriamente farne più di una al giorno. Certo, potrei andare verso sud, ma la parte difficile è a nord e non posso andare contro al mio istinto.
Poco dopo la stazione di Vizzavona si trovano dei cartelli sparsi qua e là. Sono stati messi dalla famiglia di un bancario svizzero scomparso qualche settimana prima. Anche un americano è scomparso sul GR 20 in luglio, nessuna traccia.
Il sentiero sale dolcemente nel bosco a fianco ad un ruscello con l'acqua color cristallo. Il sentiero è segnato perfettamente, ma ci sono dei tratti di roccia e bisogna fare attanzione a dove si mettono i piedi. Tra lo zaino pesante e il sentiero impervio salgo molto lentamente i 1000 metri di dislivello. In comenso ho tutto il tempo per ammirare il paesaggio. Dal colle a 2000m si vede il blu del mare tra le montagne brulle.
Il rifugio Onda è piuttosto basico, il bivouac al lato ancora meno: doccia gelata, perfetta per la circolazione.

domenica 10 agosto 2014

Vizzavona


Prima di partire, avevo cercato informazioni sui treni per Vizzavona sul sito delle ferrovie francesi, senza successo. Il sito non riconosceva i nomi né della città di partenza e di quella d'arrivo. Ho poi scoperto che esisteva un sito delle ferrovie corse, un po' primitivo ad essere onesti. Gli orari sono disponibili in formato pdf, ma uno deve conoscere le linee per sapere dove cercare. In compenso ci sono pochissimi treni al giorno (in tutta l'isola probabilmente una ventina), per cui la ricerca non è molto lunga e le opzioni molto poche.
Prendo il treno delle 7.41. Il treno parte in orario e mi aspetto che prenda un po' di velocità, cosa che non succede. E' chiaro che sta andando al massimo (probabilmente 30 o 40 Km/h): binario singolo, scartamento ridotto, motore a gasolio, pi?u che un treno sembra una giostra del Luna Park.
Un'altra cosa mi stupisce: le stazioni sono minuscole, quasi inesistenti e soprattutto appaiono nel mezzo del nulla, senza case attorno, con pezzi di unfrastruttura dell'epoca del vapore e cartelli che sembrano usciti direttamente da un film neorealista. Alle fermate, nessuno sale e nessuno scendem, sembra che la Corsica non sia provvista di abitanti, o se ci sono, sono molto ben nascosti.
Vizzavona, la mia fermata, è unametropoli. E' dotata di un ristorante, tre pensioni e anche un'épicérie in cui compro pane e qualche mela.

venerdì 8 agosto 2014

Aiacciu


C'é l'aeroporto Napoleone Bonaparte, il viale Napoleone, la scuola Napoleone ed il cinema Napoleone. E' piuttosto ironico che il territorio francese più ribelle ed independentista, che ha generato la mafia piú organizzata del paese, abbia dato i natali al simbolo stesso della grandeur e del conclamato sciovinismo dei nostri cugini d'oltralpe.

Ajaccio vive la sua bellezza con discrezione e naturalezza, senza darsi arie ed in questo - oltre che nell'accento molto nostrano - si vede la differenza con il resto della Francia. La città è incastonata in un golfo splendido che accoglie navi enormi, barche a vela e yacht. Camminando per le stradine della città vecchia, appare in fondo alla via la sagoma enorme di una nave da crociera o del traghetto per Marsiglia. Sembra quasi voglia attraversare le strisce pedonali o sia in attesa del verde assieme a macchine e motorini.

venerdì 25 luglio 2014

Aktzeichnen

Le grandi vetrate della stanza al piano terreno sono completamente oscurate da spesse tende grigie. Un gruppo di persone rimane seduta in cerchio con lo sguardo fisso. Al centro del gruppo una donna nuda. Ogni paio di minuti si gira, cambia posizione, apre le gambe, chiude le braccia, si accuccia, si gira su un lato.
Non si tratta di uno dei tanti strip clubs di Zurigo e lo spettacolo costa decisamente molto di meno. Il gruppo è composto di uomini e donne, tra i 40 e i 65 anni. Rimangono seduti in assoluto silenzio, assorti. Lunghe barbe grige e occhiali a mezzaluna, il mento leggermente sollevato, le ciglia aggrottate.
Io, l'uomo meno dotato per il disegno che Madre Terra abbia prodotto in millenni di evoluzione, sono finito nella tana del lupo: un circolo di artisti che si dedica a dipingere nudi. Due volte alla settimana, in circoli di quartiere, pagando venti franchi e mangiando panini durante le pause, questi amanti dell'arte si ritrovano per un rituale che della perversione non ha nulla. Eppure la scena è affascinante, la plasticità del corpo umano potente, le linee tridimensionali del corpo diventano linee bidimensionali sulla carta, imperfette nella riproduzione, ma a sé stanti una volte disegnate. 
Come la licenza poetica permette qualsiasi crimine contro la grammatica, l'espressione artistica sdogana l'incapacità grafica più cronica. Mantengo comunque un certo pudore dettato dal manifesto e ben giustificato complesso d'inferiorità: dopo aver finito lo gli schizzi li nascondo sotto quelli di Leticia, l'artista di famiglia, le cui immagini sono molto meno espressioniste delle mie.
Dopo aver macchiato decine di fogli di segni grossi come tronchi ed avere i polpastrelli neri di pastello e carboncino, ne elimino una buona parte e ne tengo un paio. Anche visti i sessanta secondi a disposizione per ogni posa, pensavo decisamente peggio.





giovedì 3 luglio 2014

Tête Blanche





Non fosse per la vista mozzafiato, non so dove troverei la motivazione di svegliarmi all'alba dopo una notte insonne. I rifugi sono il posto peggiore per dormire, a meno che uno non cada in coma da stanchezza. La meta di oggi non è molto impegnativa, poco più che una passeggiata sul ghiacciaio e una parte di roccia.


La Tête Blanche sembra un nano davanti al Chardonnet, poco a lato c'è la Petite Fourche, che fa lo stesso effetto davanti alla sorella più grande.
La vista che si vede da tutti i lati è indescrivibile.



lunedì 30 giugno 2014

Aiguilles du Tour


Il rifugio Trient si trova a 3.170m e si affaccia su un mare di ghiaccio chiamato Plateau de Trient. Poco ad ovest c'è la Francia, poc oa sud l'Italia. Il massiccio del Monte Bianco è incastonato tra tre stati.


Les Aiguilles du Tour sono due picchi rocciosi che segnano lo spartiacque tra Svizzera e Francia. Sulla carta sono entrembi considerati della stessa altezza, 3.540m, ma a tutti sembra che il picco più a nord sia più alto. E' anche un po' più complicato da scalare, con un paio di pezzi un po' verticali, soprattutto se hai piedi si hanno due termosifoni invece che le scarpe da arrampicata.