domenica 1 agosto 2010

Cotopaxi: sul tetto dell'Ecuador

5897 e' un numero primo composto da quattro cifre che vogliono dire fatica, freddo, neve, nebbia, speranza, paura. 5897 sono i metri che separano il vulcano Cotopaxi, il secondo posto al mondo piu' lontano dal centro della terra (il primo e' il Chimburazo, poco distante) dalla linea del mare. Dal basso appare come un mostro di lava solidificata e ghiaccio, un cono circondato dal nulla: solo qualche filo d'erba, poi solo roccia.
La sveglia e' prevista per mezzanotte, ma in realta' siamo gia' tutti svegli. Al rifugio di partenza, a 4800 m, e' impossibile dormire. Trenta persone in una camerata fanno rumore involontario e continuo per tutta la notte: fruscii di sacchi a pelo, respiri pesanti, toc toc di scarponi da ghiacciaio di chi affronta il gelo polare per andare al bagno. La mattina occhi assonnati, abbigliamento da alta montagna, crema solare. In piccoli gruppi partiamo verso l'una, torcia frontale sopra il passamontagna, zaino in spalla, doppio pantalone, con ai piedi dei grossi scarponi pesantissimi e rigidissimi: piu' che un proto-alpinista mi sento un palombaro.
Capisco fin dal primo momento che non sara' un'ascesa come le altre. Il sentiero di terra sale verticale e si scivola ad ogni passo. Mi sembra di respirare come se stessi correndo una maratona, ma in realta' cammino al rallenatore. Dopo un'oretta sono gia' in ritardo dal mio gruppo assieme a Sebastien, fotografo e cameraman francese, che si sente male da ieri sera a causa dell'altitudine.
All'inizio del ghiacciaio ci si ferma a a montare i cramponi e a legarsi con la corda. Tra i cinque compagni formiamo due cordate, oltre a quella dell'alpinista solitario (e un po' autistico) che ha pagato per salire da solo. Una guida va con Sebastien, per paura che debba tornare indietro, mentre io divento l'anello debole (quello subito dopo la guida) dell'altra cordata composta da David, un inglese appassionato di alpi e di Cristopher, giovanissimo svizzero. Si va al mio passo, ovvero lenti. Camminare su un ghiacciaio e' come muoversi con dei mattoni legati ai piedi, ogni movimento e' una fatica, soprattutto se si e' dei neofiti come me. La corda che mi lega alla guida si tende e si allenta ad ogni passo. Tento di mantenere un ritmo, ma la respirazione lo sopravanza. Dopo un'ora la guida si immerge in una grotta glaciale e lo seguiamo tutti a ripararci dal freddo e a riposarci un po'. Quando arriva Sebastien, un po' in ritardo rispetto a noi, si fa un cambio di cordata. Mi mettono assieme a Sebastien dicendomi che abbiamo un ritmo simile. In realta' pensano che ne' lui ne' io ce la faremo ad arrivare in cima. Dovremo tornare indietro prima, come succede con circa la meta' di chi parte.
Quando usciamo dalla grotta una forte folata di vento ci annuncia che il tempo non ci risparmiera' la minima fatica. Nella nuova cordata sono ultimo e si va all'andatura di Sebastien, ancora piu' lenta della mia. Poco male, non ho fretta. Saliamo poco a poco, un passo alla volta, seguendo le tracce della guida e di quelli che hanno camminato nella neve prima di noi. Passiamo dei crepacci camminando su ponti di ghiaccio. La pendenza e' quasi accettabile ed il vento e' laterale, per cui a parte sbilanciarci ogni tanto non da' troppo fastidio. Ad un certo punto gira e ci spinge avanti con forza, sembra di volare. La fortuna sembra durare poco perche' uno dei cramponi di Sebastien si rompe. Ci fermiamo al riparo di un muro di stalagtiti di ghiaccio per vedere il da farsi. L'altitudine deve essere attorno ai 5200 o 5300 metri. Tiro fuori dal mio zaino il kit da bravo boy scout e con coltellino svizzero e cordino ripariamo il crampone. Quando ripartiamo il vento ha girato (oppure abbiamo girato noi) e il pendio si fa ripidissimo. Ben presto sono attaccato piedi e mani al ghiaccio e la mia sola prospettiva e' la corda che mi lega a Sebastien, che lo lega a Paulo, la guida. Socchiudo gli occhi per evitare la neve che il vento mi spara in faccia e aspetto che la corda che ho legata in vita si muova lentamente come un lento serpente infreddolito. Da curva si fa un po' piu' tesa: Sebastian ha fatto un passo. Lo seguo: picozza, piede destro, piede sinistro, mano. La corda si fa un po' piu' floscia, poi risale: un altro passo. Anch'io ripeto la sequenza una, due , tre, per non so quante volte. Sebastien si ferma, respira, poi riparte. La corda si fa piu' tesa, Paulo e Sebastien vanno piu' veloci. La salita piu' dura e' terminata, posso alzarmi in piedi e camminare, sempre lentamente.
Il vento si fa sempre piu' forte, raffiche che ci fanno fare due passi avanti e uno indietro, puntando la picozza per non cadere. Mancano ancora due o trecento metri di dislivello che, a questa altitudine, significano il triplo del tempo normalmente necessario. Paulo continua a camminare, si sale ancora di traverso sul ghiaccio e la neve, la corda tocca per terra, sto camminando piu' veloce di Sebastien, la arrotolo in una mano e la lascio quando si fa piu' tesa.
Fin dall'inizio ho pensato che forse non ce l'avrei fatta a salire in cima. Troppe cose si accumulavano: era la prima volta che salivo su un ghiacciaio, non ero mai stato cosi' in alto, il tempo era inclemente ed ero partito con un po' di raffredore e qualche sintomo di influenza. Dopo la partenza, ciclicamente, ho iniziato a pensare che potevo farcela e, poco dopo, sentendo il mio cuore battere troppo forte e la respirazione farsi pesante e veloce allo stesso tempo, pensare il contrario. Vedendo Sebastien rallentare mi rendo conto che siamo in due a dovercela fare, oltre alla guida Paulo. Stranamente il pensiero di fallire non mi fa paura. Arrivare dove siamo ora, a 5600 metri, non puo' esserlo. In fondo sono io che decido cosa e' un fallimento e cosa e' un successo, nessun altro.
Paulo continua con passo di metronomo: cinque respiri e un passo, cinque respiri e un passo, cinque respiri e un passo. Raggiungiamo uno spiazzo, si puo' bere qualcosa, con l'acqua che ha iniziato a gelare nella bottiglia. Un po' di cioccolata e poi si riparte per il pezzo piu' duro, quello piu' ripido.
Presto mi ritrovo con la faccia contro la parete, il vento e' troppo forte per guardare in alto, il respiro mi manca. Cerco di concentrarmi su me stesso: "Respira. Fai un passo. Pausa. La corda non si muove. La corda sale. Pausa. Fai un passo. Non pensare. Ce la puoi fare. Pausa. Non pensare al vento. Pausa. Non pensare a quando finisce la salita. Fai un passo. Non pensare ad un posto caldo e accogliente. Pausa. Respira forte. Pausa. Respira piu' forte. Non avere paura. Ancora un passo. Muovi la picozza, muovi il piede, muovi la mano. Pausa. Ripeti il movimento".
Mancano un centinaio di metri di dislivello. Paulo annuncia che la vetta e' a venti minuti. Non gli credo. Sebastien non lo so, ha smesso di parlare da un po'. Poco importa il tempo o la fatica, a questo punto ho deciso che arrivero' in cima, costi quel che costi. Riprendiamo il cammino e - come un miraggio - vedo quelli della cordata salita prima di noi. Stanno scendendo a buona andatura. Hanno facce sorridenti. Ancora quindici minuti mi dice David, coraggio. Vedere delle facce conosciute (anche se il giorno prima) in mezzo alla neve e' come una tazza di caffe' la mattina. Per la prima volta dall'inizio della salita sono di buon umore, il mio passo si fa piu' veloce. L'euforia dura lo spazio di un secondo, la salita - quella piu' dura - la uccide sul nascere. Solo la consapevolezza che ci siamo quasi ci fa andare avanti. Perdo la nozione del tempo. Incontriamo altre due persone che stanno scendendo: ancora cinque minuti. I passi sono ancora piu' lenti e pesanti. Per la fatica mi ritrovo a ginocchio, aspettando che davanti si muovano. Ancora due passi e di nuovo in ginocchio. Respirare. Respirare. Manca poco. Alzarsi, respirare, camminare. Ancora qualcuno che sta scendendo: due minuti alla cima. Inizio a contare i passi: uno, due, tre. Arrivo a 178, probabilmente in quattro o cinque minuti. La montagna e' finita. Non c'e' nessun cartello con la cifre 5897, solo tre nuvole a formare tre onde nel cielo blu. Di sotto solo nebbia e un vento cosi' forte che mi si gelano le mani nei pochi secondi che le tolgo dai guanti per fare una foto. Ci abbracciamo. Abbracciamo anche i tre alpinisti che ci seguono. Hanno le facce stravolte, probabilmente come la mia, illuminate da ragi fortissimi.
Nel salire non mi sono reso conto che e' sorto il sole. Il vento e' cosi' forte che si fa fatica a stare in piedi. Sotto di noi un mare di nuvole.
Devo mettermi la crema solare, ma si e' ghiacciata nel tubo. La discesa inizia piu' presto del previsto. Scendo per primo, con la corda dietro di me che si tende a indicarmi che sto andando troppo veloce. Anche scendere, a questa andatura, e' faticoso. Al vento si aggiunge la nebbia. Tutto e' bianco. Si fa fatica a riconoscere le orme nella neve. Provo a mettermi degli occhiali da sole ma si appannano all'istante. Stessa cosa succede con la maschera da sci. Scendo a tentoni, puntando la picozza a monte.
La corda si fa piu' tesa, Sebastien si e' fermato. Mi giro. Anche l'altro crampone si e' rotto. Ci fermiamo a ripararlo con un altro pezzo di cordino. Si riparte, con le gambe che traballano un po'. All'ultima pausa tiro fuori la bottiglia di Gatorade che e' diventato una granatina. La discesa sembra non finire mai, finche' la neve si fa piu' morbida, il piede scivola verso il basso, quasi sciando. Alla neve subentra la terra, il rifugio non e' lontano. Via le corde, via i cramponi, via l'imbrago. Scendiamo ognuno per conto suo, finalmente alla velocita' che ci aggrada.
Il rifugio adesso e' come una casa: caldo, accogliente, pieno di facce sorridenti. Per alcuni e' stata una mattinata normale. Sono abituati a ghiacciai come questo. Per altri e' un'impresa mitica, se non addirittura mistica. Per il resto del tempo di rientro non riesco a credere di avercela fatta. La fatica fa ancora male, ma inizio gia' a chiedermi cosa ci sara' dopo. Dov'e' il limite?
Hillary

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