domenica 26 giugno 2011

Wimbledon a Gaborone


Del Botswana ho visto Wimbledon: i prati verdi perfetti come tappeti, le linee bianche disegnate con il gesso, i giudici di linea con camicie a righe verdi e bianche, con cravatte a righe trasversali viola e verdi. Gli inglesi hanno inventato il tennis, il calcio, la common law, la democrazia moderna, ma per l’accostamento dei colori e per la scelta delle cravatte c’è ancora spazio per un certo miglioramento.

Ma Wimbledon è Wimbledon, le sue regole eterne come il fascino di un mito. Nell’inverno dell’emisfero australe, in una città in mezzo alla savana, un nugolo di esperti di calcio snobba i mondiali U-17 in Messico (pessima prestazione del mio Rwanda) e gli europei U-21 in Danimarca per guardare partite del primo turno: carneadi che vengono catapultati nel Centrale per essere presi a randellate da Federer o Nadal. Partite senza storia, in cui la classe degli uni fa a pugni con le speranze degli altri, un po’ come il viola litiga con il verde.

Ho iniziato a seguire Roger Federer nel 2004, da una connessione satellitare che mi era stata messa gentilmente a disposizione per evitare che ammattissi. Saravena, il posto in cui lavoravo, era amicalmente conosciuta come Sarabomba. All’epoca uno dei posti più pericolosi della Colombia, in pochi si avventuravano fuori casa dopo il tramonto e a proprio rischio e pericolo. In un anno sono uscito la sera quattro o cinque volte, guidando una macchina piena di croci rosse giganti e sempre con la luce dell’abitacolo accesa.

Per un anno il tennis è stato il mio migliore amico. Quando avevo tempo giocavo con David, professore di educazione fisica alla scuola locale. David non aveva cellulare e non aveva telefono fisso. Bisognava passare da casa sua, ma – visto che non aveva campanello – bisognava chiedere al panettiere sotto casa di aprire il portone del condominio e bussare alla porta (neanche all’interno c’era campanello). Normalmente non era a casa per cui gli lasciavo dei bigliettini sotto la porta sperando che li leggesse a tempo.

Giocavamo dalle sei alle sette di mattina, l’unico momento in cui c’era abbastanza luce e non faceva troppo caldo. David arrivava in bici, portando a tracolla la racchetta e la rete che montavamo in un campo da basket. Non si trattava proprio del fondo del Flashing Meadows, ma si poteva giocare. Bisognava solo stare attenti a non arretrare troppo per non sbattere contro i piloni del canestro, oppure scivolare sull’erba e il fango che circondava il campo. Non essendoci recinzione, la metà del tempo era persa andando a cercare le palline semicoperte dall’erba alta.

Una domenica che non lavoravo mi ero messo a guardare il tennis in televisione. Federer – all’epoca invincibile – era in finale contro un baby Nadal nel torneo di Indian Wells. Nadal sembrava l’agnello sacrificale di Federer, un po’ come adesso il kazakho Kukushkin che è stato spazzato via al primo turno di Wimbledon. Ma Nadal non era Kukushkin e aveva vinto i primi due set (all’epoca le finali dei Masters si giocavano su cinque sets). Sembrava che l’impossibile si stesse materializzando: Davide stava battendo Golia per prenderne il posto. Ma era ancora il 2004 e Federer non era ancora psicologicamente dominato dal suo alter ego e riuscì a vincere il terzo e quarto set per andare al quinto. Sul 3 a 2 per Federer con una palla break, l’elettricità saltò improvvisamente. Mi resi subito conto che non si trattava di una delle innumerevoli brevi interruzioni, quasi quotidiane (acqua, telefono, internet e elettricità andavano e venivano con la stessa frequenza di battiti di ciglia). Quel giorno l’interruzione sarebbe durata molto più a lungo perché un gruppo di guerriglia aveva fatto saltare un traliccio dell’alta tensione.

Sperai che Nadal prendesse ancora più tempo del solito prima di servire e mi precipitai al piano di sotto per far partire il generatore d’emergenza. Tirai la corda (il generatore non aveva motore d’avviamento e si accendeva come il motore di una barca). Tirai ancora e poi ancora e poi ancora, fino ad avere le vesciche sulle mani. Dopo venti minuti mi arresi all’evidenza: il generatore non sarebbe mai partito, io non sarei riuscito a vedere la fine della partita. Non so neanche se bestemmiai (all’epoca ero abituato alle vendette degli elementi superiori e avevo imparato ad accettarle con rassegnazione). Tornai in casa e mi misi al computer. Riuscii a connettermi ad internet (connessione analogica che quel giorno stranamente funzionava) e a seguire la vittoria di Federer attraverso i numeri sterili dei punti.

Due settimane dopo, incontrando il capo del gruppo guerrigliero che aveva fatto saltare il traliccio gli chiesi gentilmente di non pianificare attentati in corrispondenza di finali di importanti tornei di tennis. Il comandante pensò che scherzassi e mi offrì una birra.

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