Il campo non è quello della finale della coppa del mondo. L'erba è secca, ci sono un paio di pozzanghere piene di fango, buche, escrementi di impala. Ci sono una decina di spettatori della specie homo sapiens sapiens e qualche dozzina di altre specie: scimmie, facoceri e bufali, più concentrati a bere lontano dai predatori che sul risultato della partita. Una porta è formata dalle ciabatte del segretario generale della federazione di calcio della Namibia (ex portiere della nazionale per la cronaca). L'altra è formata dalla borsa del suo collega dello Zimbabwe. In mezzo giocatori di varie razze e colori: dal quasi rosa al quasi nero. L'unica cosa che richiama una vera partita di calcio è il pallone: Adidas, nuovo di fabbrica. Per il resto c'è gente che gioca in calzini, altri in pantofole, qualcuno con dei mocassini. Chiaramente i pochi che hanno delle scarpe da calcio hano un certo vantaggio, come quelli che pesano meno di cento chili e quelli che hanno meno di settant'anni.
Il mio ruolo, come sempre - dal Rwanda alle Galapagos - è quello del giocatore di quantità (si fa per dire). Corro in lungo e in largo, scivolando nel fango e coprendomi di polvere passando per le buche scavate dai facoceri. Faccio anche un gol, convalidato dal compiacente arbitro-collega.
La partita finisce sul 2 a 2 (anche qui grazie all'arbitro). Poi tutti negli spogliatoi. A cena c'è chi zoppica, mentre c'è addirittura chi arriva in sedia a rotelle causa strappo muscolare.
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