mercoledì 30 novembre 2011

Sensi di colpa londinesi


Quando mi avevano parlato di "celle" invece che di "camere", avevo pensato che fosse una distinzione puramente semantica. In realtà si tratta di vere e proprie celle di pochi più di due metri per poco più di un metro e mezzo. Se si trattasse di celle carcerarie, sarebbero al di sotto dei parametri fissati dal Consiglio d'Europa (6 metri quadrati minimo in cella singola).
Mi trovo in un centro buddista a Londra. L'intero edificio è pervaso da un silenzio quasi artificiale. Sul comodino c'è il libro di un lama tibetano e in cucina c'è la faccia sorridente del Dalai Lama. Per fortuna che al collo ho la mia sciarpa cambogiana, comprata durante l'ultimo viaggio in Asia, per cui salvo almeno le apparenze. In realtà non sono qui per meditare, né per sfuggire dalla realtà materiale (anche se ci provassi la realtà mi correrebbe dietro senza lasciarmi scampo). La mia presenza a Londra - e ora me ne vergogno anche un po' - è molto terrena: sono qui per vedere la finale del torneo di tennis ATP World Finals, per vedere Federer alzare la coppa sotto una pioggia di coriandoli dorati.

Facendo un giro per il centro della città, uscendo dalla Tate Modern e passando per il ponte sul Tamigi che credo sia stato costruito da Calatrava, mi ritrovo sotto la cattedrale di St. Paul. Tutto attorno ci sono tende e cartelli e crocicchi di gente. Mi sono imbattuto per caso in uno dei siti del movimento "Occupy", iniziato a Zuccotti Park a New York e diffusosi un po' in tutto il mondo occidentale. Mentre esploro il posto, un uomo sulla sessantina avanzata, con una specie di corona di piume in testa, legge davanti ad una telecamera quello che sembra essere un proclama. In mano ha dei fogli spiegazzati coperti da una fitta calligrafia irregolare.
Poco più in là c'è una marea di cartelli sovrapposti, ognuno invocante qualcosa di diverso: dalla liberazione dei prigionieri in Iran, ad un generico invito a salvare il pianeta; da un'invettiva contro il capitalismo ad annunci economici. Un piccolo mare di tende resiste ad un vento che viene dal mare: freddo e umido. Da una delle tende più grandi arriva l'odore di minestra calda (probabilmente liofilizzata, non dimentichiamoci che siamo in Inghilterra). Poco a lato c'è un ragazzotto un po' scalmanato che sta maltrattando una chitarra, mentre altri due giocano a palla. C'è anche un cane.
Guardando la scena mi sento in colpa per la seconda volta. Per quanto condivida molte delle idee proposte, mi sento completamente estraneo a quello che vedo. Peggio, ne vedo già l'inevitabile fallimento, prima ancora che la protesta prenda una vera forma. Perché il problema di tutte le rivoluzioni è che, o falliscono per mancanza d'organizzazione e coesione (come sarà il caso per questa qui), oppure falliscono per eccesso di organizzazione, con i leader della rivolta che diventano inesorabilmente i padroni di domani (Russia, Cuba, '68), quelli che bisogna scalzare dal potere con le bombe, perché hanno fatto del potere la loro ragione di vita.
Mentre faccio fotografie come se mi trovassi allo zoo, ripenso al recitato di De André "Sogni numero due":
E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo
più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia

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