sabato 15 settembre 2012
Klettersteig o via ferrata
Per festeggiare la fine dell'estate volevo andare ad arrampicare, ma Jeannine e Adrian sono in Sardegna, May ha una gara di vela, Patrick ha la ragazza, Xavier un impegno. Ho anche messo un annuncio sul sito di arrampicata e l'unico che mi ha risposto è un sessantenne che però mi diceva che il tempo non era abbastanza bello (non so che previsioni abbia guardato, visto che non cadrà una sola goccia di pioggia in tutta la Svizzera). Insomma, per farla breve ho deciso di fare una ferrata che avevo addocchiato in giugno ad Engelberg. Fare una ferrata da solo non è proprio il consiglio del capitolo primo del manuale della sicurezza in montagna, ma chi se ne frega.
Mi dimentico a casa il libro sulle valanghe, la lettura per il viaggio in treno, per cui compro la Repubblica, da cui apprendo che la Tunisia che avevo conosciuto fino ad un paio d'anni fa è impazzita e che delle folle di uomini barbuti con gli occhi iniettati di sangue hanno fatto un macello proprio dietro a quella che per qualche mese è stata casa mia: l'orrido quartiere di Berges du Lac, costruito con soldi sauditi e sede di varie ambasciate, tra cui quella americana. Il giornale non sembra contenere una sola notizia positiva a parte la marea bassa dello spread. Per il resto c'è corruzione, populismo, pre-campagna elettorale e polemiche posticcie sulla morte di un cardinale in fase terminale.
Chiudo il giornale quando il treno arriva ad Engelberg e vengo accolto da una brezza fresca, quasi fredda. Il sole illumina il ghiacciaio del Titlis e nel cielo c'è qualche occasionale parapendio, ma non una nuvola. La passeggiata fino all'attacco della ferrata è puro piacere mattutino.
La ferrata è ben frequentata e davanti a me ci sono tre svizzeri molto concentrati. Dietro arriva un gruppetto di italiani annunciati dal consueto casino. Mentre sto per salire, una delle ragazze mi chiede in inglese "è vero che la ferrata è per alpinisti esperti? Vero? Io ho le vertigini e ho paura. Meglio che non la faccia vero?" Più che delle domande sembra avere bisogno di conferme che sia io che gli svizzeri le diamo: "non farla, è meglio", le diciamo, prima che scompaia sul sentiero normale. E' ormai da molto tempo che ho smesso di tentare di capire la gente.
La ferrata si rivela piuttosto divertente, con vari pezzi perfettamente verticali in mezzo alla parete. Ogni tanto tocca aspettare che quelli davanti si muovano, ma il panorama non delude. C'è anche tempo per mangiare qualcosa e per vedere lo zaino di uno degli svizzeri farsi un volo di cinquecento metri verso valle. Sospetto che lo smartphone che c'era dentro non sarà più smart a fine giornata.
La salita è completamente assistita da supporti metallici o scale, quindi non è tecnicamente difficile, ma è piuttosto faticosa perché interminabile. L'ultimo pezzo - una scala sospesa a dei cavi sopra uno strapiombo - non è per deboli di cuore.
martedì 11 settembre 2012
Sustenhorn
Quello che adoro della Svizzera - oltre al fatto che si pagano poche tasse - è poter andare in montagna in treno. E quando dico montagna voglio proprio dire montagna: si scende dal treno e si inizia a camminare o, in inverno, a sciare. E dove non arriva il treno arriva il Post bus, il mitico autobus giallo delle poste che parte pochi minuti dopo l'arrivo del treno e arriva letteralmente ovunque.
Un'altra cosa che adoro della Svizzera - oltre alle tasse e ai treni - sono le sue montagne. Per un'arcana magia, appena inizio a camminare su un sentiero di montagna scompaiono tutte le piccole frustrazioni quotidiane, la freddezza della gente di Zurigo, il caro-benzina e anche la sconfitta di Federer ai quarti dell'US Open. Nella mia mente si gonfia una specie di gommone su cui galleggiano a intermittenza pensieri che passano senza lasciare tracce. Camminare diventa mezzo e fine.
Il sentiero che sale da Götschenalp è sinuoso e poco ripido, perfetto per guardarsi attorno e anche mangiare i mirtilli che crescono un po' dappertutto. Questo è probabilmente l'ultimo week end d'estate e tutti ne approfittano per godersi un po' di sole, mentre i pastori portano a valle le vacche prima che arrivi il freddo. Per me è l'occasione di salire su un ghiacciaio, almeno finchè non ricominci la stagione invernale.
Il rifugio è piccolo, la cena modesta, la conversazione molto semplice, in particolare perchè capisco una parola su due. Mi concentro sulle cartine topografiche e mi infilo nel mio sacco-letto appena posso. La notte passa stranamente senza troppi problemi, mi sembra anche di riuscire a dormire. La sveglia è alle 4.15, i primi passi nel gelo della mattina sono le solite mazzate alle gambe, ma poi passa tutto e mi trovo a camminare come un automa fino all'inizio del ghiacciaio. C'è qualcosa di magnifico nel rituale dell'arrivo alla lingua del ghiacciaio: la pausa, lo zaino messo a terra, l'imbrago, l'incordatura e soprattutto i ramponi. Sono degli aggeggi magnifici i ramponi, così magnifici che ti permettono di camminare sul ghiaccio. Arrivo in cima al Sustenhorn, a 3.500 metri, che neanche me ne accorgo. Il paesaggio è indescrivibile: una lingua di ghiaccio che si spezza in centinaia di crepacci che lo tagliano come tante ferite trasversali.
La discesa è la solita tortura. Come sempre c'è chi non riesce a fare due passi con lo stessi ritmo e si crea un tira-e-molla insopportabile. A peggiorare la cosa, questa volta, c'è che quella davanti va troppo veloce e quella ditro troppo lenta, per cui vengo tirato contemporaneamente in avanti e indietro. Quando arriamo alla terra ferma tiro un enorme respiro di sollievo: libertà, ognuno con il suo ritno, ognuno per i cavoli suoi.
domenica 9 settembre 2012
Seychelles via Doha e ritorno
L’hostess della Qatar Airways si inginocchia mentre mi chiede cosa voglio mangiare per pranzo. Ha il visto sorridente e gli occhi a mandorla, come tutte le sue colleghe (tranne una) che si affaccendano a servire piatti come se si trattasse di un ristorante più che di un aereo. Tutta questa cura nel servizio necessita di un numero spropositato di hostess e – visto che il bagno si trova dietro la cucina – mi tocca scavalcarne una mezza dozzina per fare pipì. Per fortuna sono tutte minuscole, perché se fossimo su un volo KLM - le cui hostess hanno notoriamente delle proporzioni gigantesche - bisognerebbe chiamare i pompieri per passare.
A Doha passo un paio d’ore in attesa del mio aereo per le Seychelles. La lounge è dotata di zona bambini, zona rilassazione e anche zona video-giochi. Più che una lounge si tratta di un ristorante in cui varie decine di formichine con il cappello della Qatar Airways si occupano di te con un eterno sorriso stampato in faccia. Il segreto della Qatar è che non è una compagnia che deve fare profitto, ma una vetrina per il paese, come del resto quasi tutti quello che viene fatto qui: da Aljazeera alla Qatar Foundation.
Alle Seychelles, la destinazione finale del mio viaggio di lavoro (almeno in parte) mi portano in un hotel che ha più stelle che la costellazione di Orione. La mia stanza, una junior suite (dunque la più piccola a disposizione) è grande più o meno come il mio appartamento di Zurigo. Per muoversi da una parte all’altra dell’albergo ci sono delle macchinine elettriche come quelle per il golf che funzionano come navette. Qui muoversi a piedi sembra anticostituzionale. Il personale dell’albergo ha a disposizione biciclette, motorini elettrici o macchinine elettriche a seconda della posizione nella scala gerarchica. Anche qui sembra che tutti si sveglino con il sorriso in faccia. Manca solo il barman baffuto e uno si crederebbe in un episodio di Love Boat.
Per ragioni professionali faccio un’ispezione nella parte più lussuosa dell’albergo. La ragazza che mi accompagna è guatemalteca e ha passato gli ultimi anni tra Seychelles, Mauritius e Dubai. Il suo lavoro attuale è fare il maggiordomo privato per i clienti delle ville che strapiombano sul mare. Mi fa vedere la più esclusiva che è dotata di ben due piscine private (che non si sa mai che uno vuole cambiare un po’ aria tra una nuotata e l’altra), palestra privata, sauna e varie altre amenità. Il modico prezzo va dai 9.000 ai 15.000 dollari a notte. Come mi spiega la maggiordomo senza una vena di ironia nella voce, si ha in cambio un’enorme privacy (ci mancherebbe altro). Per quanto apprezzi lo sforzo di produrre tanto sfarzo, il risultato finale è di una banalità disarmante. E poi? Ti viene da chiederti: e poi?
Dopo qualche giorno passato più a fare riunioni che a nuotare, ripasso per Doha sulla via del ritorno dove passo tredici ore tra lavoro e dormiveglia. Faccio un giro per il centro che è un’accozzaglia di grattacieli di medie dimensioni inframmezzati da strade e dal nulla, in attesa che quest’ultimo sia riempito da altro cemento in breve tempo. Metà degli edifici sono degli enormi alberghi a cinque stelle, praticamente semivuoti. Verso mezzogiorno, con una temperatura vicino ai quaranta gradi, la città sembra deserta. Si vedono solo strade ed edifici. Non c’è la traccia di un albero e ancora meno di un passante, tanto che non si capisce perché abbiano costruito i marciapiedi visto che tutti vanno in giro in macchina. Dove vadano è un altro mistero, visto che i posti più “turistici” – il porto, la spiaggia, il lungomare – sono tutti irremediabilmente deserti. Solo le shopping mall debordano di gente, per lo più uomini vestiti in tuniche bianche con delle tovaglie sulla testa e donne in completi totalmente neri, con o senza l’opzione tapparella sulla faccia. Vista la moda dilagante non si capisce chi compri gli abiti multicolori e succinti che si vendono nei negozi. Più che un’economia di mercato sembra piuttosto un mercato dell’economia.
Quando atterro a Zurigo e prendo il trenino che porta all'uscita mi accorgo che il mio vicino è completamente tatutato, letteralmente dalla testa ai piedi. Nonostante le mie scarse conoscenze dei video di Lady Gaga lo riconosco grazie ad un articolo che ho letto in 20 Minuten, il giornale distribuito gratuitamente nel tram (e mia fonte porincipale di vocabolario tedesco). Trattasi di Rick Genest, alias Zombie Boy. Vorrei chiedergli se gli piace Camus ma sembra troppo concentrato sul suo iPod nano.
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