martedì 25 maggio 2010

Verso le Corn Islands 1

Perche' andare alle Corn Islands via terra mettendoci tre giorni invece che un'ora di volo? Probabilmente per puro masochismo o per avere le chiappe modellate a forma di sedile di autobus e le vene varicose a causa della prolungata immobilita', oppure ancora per poter sudare in tutta tranquillita' per tutto il giorno. Sia come sia, essendo la stessa ragione del viaggio il viaggiare, non e' importante il dove si va, ma come ci si arriva.
Lascio Miraflor sull'ormai mitico scuolabus americano Bluebird che passa per i sentieri piu' impervi trasportando bidoni di latte e sacchi di verdura. Ad Esteli prendo un bus gemello diretto a Matagalpa dove nelle intenzioni iniziali dovevo fermarmi a dormire. Nella realta' finale, appena arrivato a Matagalpa mi viene un'inspiegabile voglia sfrenata di riprendere un bus (forse sono diventato dipendente dagli scossoni e le sgasate). Dopo rapida consulta con un paio di astanti, monto sul terzo bus gemello diretto a Managua, che mi lascia piu' morto che vivo a bordo strada in un posto che si chiama San Benito e che non e'altro che una strada con un paio di costruzioni al lato, la cui unica fortuna e' essere all'incrocio con la strada che continua per Juigalpa. Ad ogni fermata, un nugolo di venditori di qualsiasi cosa si assiepa attorno ai bus , per salire al volo e cercare di vendere pollo fritto (10 cordobas, 50 centesimo di dollaro), manghi (5), pomodori (10), banane fritte (5), patate (10), yucca (5), peperoni (prezzo non pervenuto), acqua (1), bibite (12) e qualsiasi altra cosa che i viaggiatori ormai storditi dal viaggio siano a disposti a comprare, dopo essersi gia' fatti abbindolare da agenti multimandatari che vendono spazzolini, vitamine, balsami emmollienti, caramelle al mentolo e funghicidi. Sul bus per Matagalpa, ho avuto diritto ad un pistolotto mistico di una buona mezz'ora da parte di una predicatrice-urlatrice che usa la parola "peccato" tre volte al minuto accompagnata da sguardi accusatori. Alla fine del sermone, anche lei tira fuori gli spazzolini, vendendoli a prezzo maggiorato e accompagnandoli da volantini di una chiesa evangelica. La mia vicina di posto - che aveva gia' alzato la mano alla domanda retorica "avete fatto dispiacere a Dio?" - compra lo spazzolino con grande sollievo.
Il bus per Juigalpa, con mia grande sorpresa (e un po' di tristezza), non e' uno scuolabus, ma un normale pullman. Il livello di comfort, in compenso, non cambia in nulla: sedile con stecca metallica sapientemente posizionata a meta' schiena per poter meglio inserirsi tra la ventesima e la trentesima vertebra, caldo torrido e fermate ogni pisciata di cane per far salire o scendere passeggeri, i quali non si accontentano di essere vicini a casa, ma vogliono salire e scendere a non piu' di tre millimetri dalla loro porta di casa, il che genera frenate e accelerate continue che lavorano in sintonia con la stecca metallica sopra citata.
Mentre sto decidendo se farla finita oppure tentare di resistere, Juigalpa appare come un miraggio. Chiaramente sbaglio il posto in cui scendere e mi sciroppo una bella camminata con doppio zaino sulle spalle, prima di crollare di fronte al primo albergo che trovo. Con le energie residue faccio un giro per le tranquille strade coloniali della citta' che e' ferma a godere del fresco della sera. Dopo cena, mi sideo su una panchina del Parque Central, ad ascoltare la musica anni ottanta passata in filodiffusione come al supermercato: "we are the world...we are the children..."
To be continued.

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