giovedì 17 dicembre 2015
KL
Kuala Lumpur, la capitale della Malesia, è una città veramente bruttina. A parte le torri Petronas che dominano il mondo sottostante dall'alto dei loro 452 metri, e qualche sparuto edificio coloniale che è miracolosamente sopravvissuto all'inesorabile avanzare dei grattacieli, non c'è praticamente nulla che si possa considerare degno di una fotografia, ancora meno di una cartolina. Eppure la città ha un certo fascino, piú discreto e meno inquinato di metropoli come Bangkok o Shanghai.
La Malesia è un misto di popolazioni molto diverse tra loro - malesi, cinesi, indiani - il che ha creato una serie di contraddizioni piuttosto interessanti: è uno stato musulmano in cui si beve a fiumi e pullula di locali notturni per tutte le tasche e tutti i gusti; è formalmente molto tradizionale e conservatore ma ospita uno dei simboli della modernità; è un paese esportatore di petrolio ma non è particolarmente ricco.
A Kuala Lumpur l'intera tradizione culinaria asiatica si dà appuntamento ad ogni angolo di strada. Si mangia cinese, indiano, thailandese, coreano, giapponese. Camminando per i mercati o all'ultimo piano dei centri commerciali si è investiti da odore di zenzero, peperoncino, coriandolo. Spuntano zampe di gallina, ossa con carne, verdure sconosciute e brodi primordiali che bollono in enormi pentoloni di alluminio.
Ma ció che mi stupisce di piú, come ogni volta che vado in Asia, è la totale sensazione di sicurezza che si respira costantemente. A mezzanotte passata di un sabato sera, in una zona che non conosco, in compagnia di perfetti sconosciuti, chiuso fuori dalla casa che mi ospita e senza chiavi, non penso né al portafogli, né a dove passeró la notte, né a tutto quello che teoricamente potrebbe succedermi. Lascio che la serata segua il suo corso, qualcosa succederà e si troverà una soluzione a tutto. E puntualmente succede.
mercoledì 21 ottobre 2015
Saint Martin - Sint Maarten
Le potenze coloniali si sono spartite le isole dei Caraibi come si distribuiscono le carte a briscola: tre a me, tre a te e poi si pesca a turno. Su una di queste isole, tra l'altro una delle piú piccole, Francia e Olanda non hanno saputo decidere, e l'hanno quindi divisa in due. Saint Martin ha una superficie grande come il comune di Vicenza, ma vi si parlano quattro lingue (oltre al francese e all'olandese si usano inglese e creolo), ci sono due aeroporti, due sistemi fiscali separati, due legislazioni diverse e anche due monete diverse: nella parte francese si usa l'euro, in quella olandese il dollaro.
Sí, perché la grande risorsa dell'isola sono gli americani: turisti sovrappeso e un po' attempati che passano un paio di settimane al caldo, almeno quelli che riescono a trovare le forze per allontanarsi qualche minuto dalle slot machines o dai bordelli.
Saint Martin è divisa da un ponte levatotio che connette una baia di un blu da cartolina. Le stradine che salgono e scendono dalle varie colline sono percorse da macchine che procedono in fila indiana con la regolarità e la lentezza di mille formichine. Perché nonostante il bel tempo e le distanze ridicole, nessuno - tranne i poveracci - penserebbe nemmeno a usare una bicicletta.
A sud est, attraverso le trasparenze del mare dei Caraibi, si vede il profilo della costa di St. Barts, dominio francese, l'isola degli straricchi in cui Abramovich ha costruito la sua reggia, oltre a uno stadio per la poca popolazione locale.
A nord, a poco piú di mezz'ora di barca, c'è Anguilla, un'isola di 14.000 abitanti che ha ottenuto la secessione dall'odiatissima Saint Kittts and Nevis, conosciuta ai piú per un paio di velocisti che sono riusciti arrivare alle olimpiadi. Doppo varie rivolte, Anguilla ha ottenuto lo status di dominio oltreoceano britannico.
giovedì 15 ottobre 2015
DOM TOM
Palme, spiagge, mare
turchino, vegetazione tropicale, l’umidità dell’aria che si beve ad ogni
respiro: il clima tipico della Francia a metà ottobre. Nonostante le otto ore
di volo dall’Europa, ci si puó imbarcare con una semplice carta d’identità e non
c’è polizia a controllare i passaporti all’arrivo. Guadeloupe, isola delle
Antille in mezzo al mare dei Caraibi, è in tutto e per tutto territorio
francese. Il termine tecnico è Département
d’Outre Mer, abbreviato in DOM, traduzione moderna e politically correct di “ex-colonia”. Qui si puó chiamare Marsiglia
al costo di un’interurbana, le targhe delle macchine sono francesi e i
giocatori di calcio giocano per Les Bleus,
cantando la Marsigliese. Tanto per citarne un paio: Thierry Henry, Lilian
Thuram, Nicolas Anelka e – per gli amanti del tennis – Gaël Monfils.
Qui la Francia si chiama Metropole, e i suoi abitanti sono i metropolitains, quasi che vivano tutti
in un’immensa grande città. Sono connazionali un po’ pallidi che abitano a un
tiro di schioppo, giusto dietro l’angolo dell’oceano Atlantico.
Nella migliore tradizione
dei matrimoni d’interesse, i pronipoti degli schiavi fatti arrivare dall’Africa
per spezzarsi la schiena nei campi di canna da zucchero e dall’accento
impregnato dalla musicalità del creolo hanno preferito il prosaico vantaggio
economico al posto di uno sterile sentimento d’amore per la propria
indipendenza. E forse non hanno tutti i torti, visto che la Guadeloupe è uno
dei posti al mondo con la percentuale piú alta di centenari: caldo, pesce e
niente stress.
venerdì 28 agosto 2015
Gross Bigerhorn - Balfrin - Ulrichshorn
La Bordierhütte vince il premio mondiale per la scortesia. I due gestori - uomini baffuti e panzuti poco propensi al sorriso - ti insultano ancora prima che tu abbia messo piede dentro. Per quanto ti sforzi, fai sempre qualche imperdonabile errore: hai messo lo zaino dove vanno i ramponi, oppure la picozza dove vanno le scarpe. Se qualcuno non si attiene agli ordini perentori dei due baffuti, si passa alle vie di fatto: conviene ubbidire.
Si parte alle tre. Uno dei due baffuti ha preparato la colazione e insulta i ritardatari che si affacciano alla porta quindici minuti dopo l'ora stabilita. Io faccio parte di quelli arrivati in anticipo, accolti con un'occhiataccia perché si era detto alle tre e non alle tre meno cinque.
Il cielo stellato fa dimenticare la notte insonne, l'alzataccia e lo sguardo truce del baffuto. Anche per un ignorante del cielo come me le costellazioni appaiono chiare come in un libro di astronomia. Si cammina in silenzio, nel buio, accompagnati dalle stelle e guidati dalle lampade frontali: la direzione è est. In lontananza si vendono le cordate piú veloci, dietro le spalle quelle piú lente. In cima al Gross Bigerhorn, il cielo si tinge di rosso. Il sole sta sbocciando, proprio ora e proprio di fronte ai nostri occhi stanchi.
Sono le sei di mattina e ci aspettano ancora varie ore di camminata su roccia, neve e ghiaccio: verso sud si vede il Balfrin, poi sarà il turno dell'Ulrichshorn.
lunedì 24 agosto 2015
Tunisi oggi
La cosa piú difficile da trovare a Tunisi sono le sedi delle agenzie delle Nazioni Unite. I tassisti girano disperati per le strade ortogonali dell'orrido quartiere delle Berges du Lac costruito con soldi dei paesi del golfo alla ricerca di un indizio: una targa, una bandiera, un'insegna. Niente. La sede dell'UNSMIL, la missione delle Nazioni Unite per la Libia sembra un fortino medioevale, si entra attraverso il garage e si deve lasciare la carta d'identità prima di poter prendere l'ascensore che porta agli uffici. L'UNHCR si è spostato in un'anonima villetta immersa nel nulla di cemento che si estende attorno alla concessionaria della Ford. L'IOM ha scelto un'altrettanto anonima villetta (l'ufficio per la Tunisia) e un appartamento introvabile, poco distante (l'ufficio per la Libia). Chi volesse trovare un'ambasciata europea, invece, non avrà problemi, visto che viene avvisato da misure di sicurezza che ricordano Baghdad o Kabul. La Francia ha fatto chiudere metà centro storico, mentre l'Italia si è limitata alla strada d'accesso. L'Olanda, da sempre piuttosto discreta, ha scelto due enormi container che ospitano guardie armate e annoiate e dei grandi cavalli di frisia davanti al cancello.
Mi ricordo di quando, pochi anni fa, sono andato a un ricevimento organizzato dell'ambasciatore olandese o da suo marito (no, non è un refuso, gli olandesi riconoscono l'omossessualità dei loro ambasciatori). Era una tipica serata tunisina: calda, tranquilla e noiosissima. All'epoca il faccione da Shrek di Ben Ali appariva ad ogni angolo di strada, protetto da uno squadrone di poliziotti con i baffi.
Tutto sembra cambiato in Tunisia, eppure tutto appare come era prima. Le macchine con targhe francesi degli emigrati tunisini intasano le strade assieme a quelle dei libici (turisti o rifugiati a seconda del punto di vista). Si mangia pesce e l'aria è immersa nel profumo di fiori di gelsomino venduti ad ogni semaforo da bambini o da vecchi. Tutti sembra uguale, ma basta accende la radio per rendersi conto di quanto la rivoluzione abbia lasciato il segno. Non ci sono piú le solite tre radio, che parlavano bene del presidente senza sosta. Ora c'è una marea di musica, dibattiti, notizie sportive e programmi culturali. Ogni frequenza ronza informazioni, parole, bassi e batteria. Metà sono italiane. Le onde vengono da quel pezzo di terra che si puó intravvedere nelle giornate terse, poco piú a nord. L'Italia, un tempo un pezzo di Tunisia, oggi una terra di transito per chi vuole andarsene in Francia, o meglio ancora in Germania.
lunedì 6 luglio 2015
Conquest of Paradise
Il lento risveglio (alias "ma non potevo semplicemente dormire tutto il giorno?")
L'approccio (alias "mah, vediamo")
La dura realtà (alias "ma chi me lo fa fare")
Da qualche parte a metà (alias "questa è l'ultima volta, mai piú in vita mia")
Finalmente in cima (alias "la fermata del bus")
La discesa (alias "spero che la corda tenga")
lunedì 29 giugno 2015
mercoledì 10 giugno 2015
Profili sfumati
Mi è sempre piaciuto sciare nella nebbia: bianco sotto, bianco sopra, bianco attorno. A volte non si sa se si sta andando in salita o in discesa, è la sensazione che piú si avvicina all'assenza di gravità, all'assenza di tempo, e quindi di movimento. Scendere nella nebbia su ghiacciaio, peró, non è proprio il massimo della sicurezza. Per quanto il GPS ti possa dire dove ti trovi, non puó indicarti dove sono i crepacci, o le rocce. In questi casi bisogna fidarsi di quello che scende per primo, che in questo caso conosce il ghiacciaio come casa sua.
La salita è forse ancora piú bella, con la corda che scompare nel nulla e solo i profili sfumati dei compagni a indicarti la direzione. E' sempre una rottura di balle incordarsi - d'estate o d'inverno - perché c'é sempre qualcuno che non ha senso del ritmo, vuole andare piú veloce e poi si ferma bruscamente quando la corda gli si avviluppa attorno ai ramponi o sotto gli sci come uno spaghetto stracotto. Nella nebbia, peró, questa corda che scompare nel nulla ti fa sentire meno solo, è il cordone ombelicale che ti tiene unito agli altri.
mercoledì 27 maggio 2015
Quasi quattromila
La prima volta che ero arrivato vicino a quota quattromila ero in Costa Rica, la montagna era avvolta alle pendici da una fitta foresta tropicale e ho dovuto lottare contro mosche e zanzare per un paio d'ore, prima che la vegetazione si diradasse e gli insetti sparissero. Qui tutto è bianco, il ghiaccio è interrotto solo dai tagli azzurri dei crepacci o dal grigio sovrapposto dei seracchi.
Perché si deve fare tanta fatica in una giornata di fine Maggio? Guardare per credere.
giovedì 21 maggio 2015
Aspettando il ponte
La cartina dell'Africa è piena di linee rette, tracciate con il righello da potenze coloniali ossessionate dal controllo del territorio e poco interessate alla gente che lo abitava. Le frontiere separano gruppi etnici e linguistici omogenei e mettono insieme gruppi diversi, creando degli stati che non rappresentano nessuno, o quasi.
Sono tornato in Gambia, uno degli esempi di questa politica della spartizione. Il fiume Gambia è stato colonizzato dalla Gran Bretagna, mentre tutto il territorio all'intorno dalla Francia. Il Gambia taglia il Senegal in due e rappresenta un punto di passaggio obbligato per chi voglia andare da nord a sud e vice versa.
Il problema è che non esiste nessun ponte, almeno per il momento, per cui bisogna aspettare delle chiatte lentissime, che non riescono a seguire il flusso di veicoli che viaggiano dalla Casamance (la regione del sud del Senegal contesa nel XIX secolo anche dal Portogallo) verso Dakar.
La coda di macchine, camion, moto e gente è eterna, in alcuni casi l'attesa si conta non in ore ma in giorni. I mezzi sono stracarichi sotto il sole africano, mentre ai lati della strada c'è una lunga linea di piccoli negozi che vendono di tutto. La costruzione del ponte è agli inizi, tra alcuni anni non ci sarà piú nessuno sulle due rive del grande fiume scuro che scorre lento verso ovest, solo qualche cartello stradale e i resti delle baracche di legno.
sabato 9 maggio 2015
La neve sul ghiaccio
Prima è il turno del tedesco, poi dell'inglese (ormai seconda lingua ufficiale), terzo arriva un francese un po' parigino, quarto un italiano abbastanza ticinese, mentre lo spagnolo è messicano. Seguono una lingua che sembra cinese (non so se mandarino o cantonese) e una che sembra indiana (probabilmente urdu). La voce della versione giapponese è altissima, quasi di bambina. Interpretando i miei dubbi mattutini, una ragazza tedesca con il logo della Lindt stampato sulla casacca mi spiega che si tratta della voce di Heidi, come nell'omonimo cartone animato giapponese.
Sono un masochista, questa non è una novità, ma alzarmi alle cinque e sciropparmi quattro ore di treno immerso in una marea di turisti asiatici è troppo anche per me, mi riprometto che questa sarà l'ultima volta. Eppure, pochi minuti dopo, quando lascio il tunnel gelido scavato all'interno della roccia per uscire sul giacciaio della Jungfrau, mi sono già dimenticato della mia decisione.
Il mare di ghiaccio riluccica sotto un sole devastante. Cammino a occhi chiusi, sento il calore sulla pelle, la neve croccante sotto gli scarponi. I turisti sono in visibilio. Siamo perfetti, nelle nostre giacche colorate e con gli sci al seguito, per delle foto ricordo. Chi non ci guarda dal mirino di una macchina fotografica ci osserva come animali allo zoo. Seguono i nostri movimenti (mettersi l'imbrago, attaccarci una vite da ghiaccio, allungare i bastoncini telescopici, mettersi la crema seolare) con l'attenzione di chi stia guardando uno spettacolo teatrale. Siamo pagati dal cantone di Berna oppure lo facciamo gratis?
Siamo pronti. La discesa fino a Konkordiaplatz, l'incrocio in cui i tre rami del ghiaccianio si incontrano, è dolce e la neve è perfetta. Mi squilla il telefono e decido di rispondere. Mentre scio per il ghiacciaio piú lungo della Svizzera ho il tempo di parlare un po' di lavoro e fissare una missione per il Gambia.
A Konkordiaplatzt prendiamo il ghiacciaio che sale verso ovest, in direzione di Hollandiahütte, il rifugio costruito con l'aiuto del club alpino olandese, per poi scendere dall'altra parte. La salita è facile facile e la discesa lungissima. Il paesaggio, beh, non ci sono parole.
mercoledì 29 aprile 2015
Da sud a nord
Il giorno prima ero a Malabo, la capitale della Guinea Equatoriale. Il sole era oscurato da una spessa coltre di nuvole, la temperatura vicino ai 35 gradi, si sudava anche solo a respirare. Al centro dell'isola una montagna coperta di verde, alberi centenari, scimmie, foresta selvaggia. Il mare era grigio, calmo. La gente camminava senza fretta sulle strade larghe e perfettamente asfaltate della città (la Guinea Equatoriale è il terzo produttore di petrolio dell'Africa sub-sahariana).
Il giorno dopo ero nel cantone di Schwyz, quello che ha dato il nome alla Svizzera. Alle sei di mattina c'erano già delle macchine nel piccolo parcheggio ai piedi del Glatt. La giornata era tersa, il cielo si schiariva poco a poco lasciando solo una coperta di blu. La neve era croccante sotto gli sci, la crosta di rigelo si stava leggermente scaldando mentre il sole si muoveva lentamente verso sud, di fronte a noi. Una volta in cima, un mare bianco di neve.
sabato 28 marzo 2015
Gambia, il ritorno
Per la quarta volta nel giro di due anni, dopo un sorvolo spettacolare del Sahara occidentale, sono atterrato a Banjul, Gambia. E' uno dei pochi aeroporti africani a non mettermi in un'agitazione da fine del mondo. La coda è generalemente corta e la procedura di visto molto veloce, anche se questa volta rallentata dalla presa di temperatura e dalla distribuzione di disinfettante per le mani (misure precauzionali anti-Ebola), nonché da una nuova procedura per le impronte digitali. Il poliziotto all'immigrazione ha guardato il mio passaporto e ha iniziato parlare itaiano. Non erano le solite quattro parole che si usano con i turisti, ma un italiano quasi perfetto. Ho scoperto che aveva studiato a Milano, anche se non c'è stato tempo per continuare la conversazione.
Dall'ultima volta che ci sono venuto sono cambiate un paio di cose. L'epidemia di Ebola, che pure non ha toccato il Gambia, ha causato un'emorragia di turisti, per i quali l'Africa è un tutt'uno, imperscrutabile, incomprensibile e omogeneo. L'hotel era mezzo vuoto e la compagnia aerea locale (Gambia Bird, operata da una società tedesca) è scomparsa.
Al contrario delle volte precedenti, sono riuscito a vedere un pezzo di paese, viaggiando verso est (l'unica direzione possibile). Fuori dalla capitale, degli enormi baobab si susseguivano a dei piccoli villaggi di contadini, ai pascoli e a dei campi da calcio in terra con le porte fatte di canne di bambù. Ogni dieci chilometri c'era un posto di blocco (a dire la verità piuttosto soft), eredità dell'ultimo tentativo di colpo di stato che la stampa italiana si è dimenticata di riportare.
martedì 24 marzo 2015
Canone
L'altro giorno ero stravaccato sul divano, bollito da una lunga giornata di sci alpinismo, con la faccia coperta di crema, le labbra secche e gli occhi che mi si chiudevano nonostante fossero appena le nove di sera. Stavo guardando una puntata di House of Cards lottando contro il sonno quando ha suonato il citofono. Non aspettavo nessuno e ho pensato che fosse uno scherzo. La pigrizia ha vinto sulla curiosità e non mi sono alzato dalla mia cuccia. Il citofono ha però suonato di nuovo, e questa volta non potevo ignorarlo.
Mi sono alzato, ho guardato dallo spioncino della porta d'ingresso e ho aperto la porta a un uomo che mi ha chiesto se ero "Herr Bruscoli", cosa che ho confermato senza troppo entusiasmo. Ha iniziato chiedendomi dove ero andato a sciare (gli scarponi erano ancora fuori dalla porta). Alla mia risposta evasiva mi ha mostrato un cartellino con la sua faccia, il suo nome e un logo che non ho identificato. Mi è sembrato di essere in un film in cui l'ispettore dell' FBI mostra il distintivo prima di procedere all'arresto.
Mi ci sono voluti alcuni secondi per decifrare il messaggio che mi veniva comunicato, sia a causa del rincoglionimento post-sciistico, sia perché l'uomo parlava nell'usuale slang svizzero-tedesco che il mio cervello mette automaticamente nella categoria "rumore molesto". Quando ha notato la mia faccia dubitativa (per non dire da ritardato mentale), il signore ha rallentato e ha ricominciato da capo, senza riscire a migliorare la mia comprensione. Alla fine ha cercato nel suo bagaglio di parole italiane estraendo dal cilindro magico l'espressione "canone TV".
Gli ho fatto presente che non ho la televisione in casa (il che è effettivamente vero), ma lui ha scosso la testa con un sorriso vagamente paternalistico e mi ha chiesto se avevo una connessione internet. Non ho potuto negare l'evidenza, anche perché sono sicuro che sarebbe andato a controllare se avevo mentito. Insomma, ho scoperto che chiunque abbia una connessione internet in Svizzera deve pagare il canone TV, cosa che non ho mai fatto.
Il signore se ne è andato, non prima di essersi scusato dell'intrusione. Ho continuato a non capire, finché la settimana dopo è arrivata una bolletta da 600 euro (400 per il solo 2015). Forse farei bene a disdire la mia connessione internet.
Mi sono alzato, ho guardato dallo spioncino della porta d'ingresso e ho aperto la porta a un uomo che mi ha chiesto se ero "Herr Bruscoli", cosa che ho confermato senza troppo entusiasmo. Ha iniziato chiedendomi dove ero andato a sciare (gli scarponi erano ancora fuori dalla porta). Alla mia risposta evasiva mi ha mostrato un cartellino con la sua faccia, il suo nome e un logo che non ho identificato. Mi è sembrato di essere in un film in cui l'ispettore dell' FBI mostra il distintivo prima di procedere all'arresto.
Mi ci sono voluti alcuni secondi per decifrare il messaggio che mi veniva comunicato, sia a causa del rincoglionimento post-sciistico, sia perché l'uomo parlava nell'usuale slang svizzero-tedesco che il mio cervello mette automaticamente nella categoria "rumore molesto". Quando ha notato la mia faccia dubitativa (per non dire da ritardato mentale), il signore ha rallentato e ha ricominciato da capo, senza riscire a migliorare la mia comprensione. Alla fine ha cercato nel suo bagaglio di parole italiane estraendo dal cilindro magico l'espressione "canone TV".
Gli ho fatto presente che non ho la televisione in casa (il che è effettivamente vero), ma lui ha scosso la testa con un sorriso vagamente paternalistico e mi ha chiesto se avevo una connessione internet. Non ho potuto negare l'evidenza, anche perché sono sicuro che sarebbe andato a controllare se avevo mentito. Insomma, ho scoperto che chiunque abbia una connessione internet in Svizzera deve pagare il canone TV, cosa che non ho mai fatto.
Il signore se ne è andato, non prima di essersi scusato dell'intrusione. Ho continuato a non capire, finché la settimana dopo è arrivata una bolletta da 600 euro (400 per il solo 2015). Forse farei bene a disdire la mia connessione internet.
lunedì 23 febbraio 2015
Die Sonne
Del Lauihöchi (una piccola montagna simile a un'alta collina) e del Stockberg (idem) ho visto solo bianco: quello della neve soffice e abbondantre sotto gli sci, quello della nebbia che ti avvolge come in un lenzuolo, quello delle nuvole sopra la testa che oscura il cielo.
Poi d'improvviso è scoppiato il sole, che in tedesco è un'entità femminile: die Sonne. Sul Fil de Rueun sembrava di essere in aprile. La neve iniziava ad appesantirsi poco sotto i 2000m, per curvare bisognava saltare. Gli ultimi metri erano più verdi che bianchi.
Stesse condizioni per il Vilan, nei Grisoni, poco sopra a Landquart. Lì non c'era solo il sole, ma anche una strana sensazione che non avevo mai provato prima. Non è stata paura, quanto piuttosto sorpresa. La pendenza di trenta gradi non sembrava eccessiva, la discesa sembrava spledida: larga, piena di neve, con la pendenza perfetta. Sul Vilan sono morti in quattro, pochi giorni fa. Si vedevano ancora i profili irregolari della neve spostata dalla valanga che si è staccata dal cornicione poco sotto la vetta e che ha investito un gruppo di persone come noi, esperte ma non troppo, seppellendole quasi tutte.
Oggi non c'è pericolo, la discesa è piacevole. Quasi.
giovedì 29 gennaio 2015
Il Pizzetto
Ambrì Piotta è una frazione di qualche centinaia di abitanti tra Airolo e Quinto, che sono l'equivalente svizzero di Roncobilaccio e Barberino del Mugello. Ambrì Piotta è conosciuto da chiunque, in tutta la Svizzera, e non per le code di macchine e camion in attesa di attraversare il San Gottardo. Questo micro-paese è la casa di una delle squadre di hockey più forti della Svizzera, con una tradizione che risale al 1937. Lo stadio di 6.000 posti si riempie a ogni partita di spettatori intirizziti dal freddo glaciale (si trova a mille metri d'altitudine, non batte mai il sole e non è riscaldato).
Ne avevo sentito parlare e me lo trovo sotto gli occhi insonnolito dall'alzataccia all'alba di una domenica mattina imbiancata di neve. E' il punto di partenza per i giri che salgono al Pizzo della Sassada, al Poncione di Tremorgio o al Poncione Sambuco. Il sentiero sale a zig zag nel bosco, poi un mare di neve di estende a vista d'occhio. Troppa e troppo recente, il rischio valanghe ci consiglia di deviare verso il Pizzetto, su pendii più lievi. Aprire la via sulla neve fresca è un piacere faticoso ma intenso, il sole inizia a splendere, sembra tutto perfetto. Una volta scollinato si viene presi a sberle da un vento a 70Km/h che, come nella Guerra di Piero ti sputa in faccia la neve.
sabato 24 gennaio 2015
Föisc
Non mi era ancora capitato di camminare sul porfido con gli sci ai piedi. Il paesino sopra Airolo, all'imboccatura sud delle fauci del San Gottardo era bianco di neve, l'unico movimento era l'acqua che zampillava dalla fontana pubblica.
E' nevicato, infine, e anche tanto. I tetti delle baite sono coperti da uno spesso strato bianco, gli abeti soffrono sotto il peso della neve, e ogni tanto si vendicano di noi sciatori inonadandoci di una doccia bianca e solida, che oscura il cielo azzurro per un momento.
Poi gli alberi si diradano, il Föisc è una cima arrotondata, circondata da pareti verticali che non sopportano il peso della neve e la cacciano verso il basso, lingue allungate di valanghe.
domenica 11 gennaio 2015
Sunnehöreli
Ho avuto la prova di avere la memoria di un pesce rosso. Quando ho ricevuto l'e-mail che confermava il posto per l'escursione ero sicuro di non esserci mai stato. Poi, arrivato alla piccola funivia che parte dal paesino di Matt e si arrampica con una campata unica sullo sperone di roccia sovrastante, ho avuto un'illuminazione. Conoscevo quel posto. A dire il vero è lì che avevo fatto la mia prima seria esperienza di sci alpinismo, con -25 gradi e le mani che si congelavano all'istante.
Le condizioni sono sempre estreme, ma in senso opposto. Il vento che è soffiato da sud in questi giorni ha portato le temperature a livelli primaverili. Nella notte è addirittura piovuto e bisogna fare un bel pezzo a piedi, con gli sci in spalla per arrivare alle prime tracce di neve.
Il cielo è sereno, il sole va e viene dietro a delle nuvole sottilissime, che si stanno trasformando in foschia d'alta quota a causa del vento forte. Nel bosco, tuttavia, tutto è calmo, si avanza a passo lento e regolare, attraversando ruscelli e costeggiando baite chiuse. Una volta usciti dagli alberi, invece, incontriamo la forza della natura. Le zip di giacca e pantaloni si chiudono in un istante, il cappuccio cala sopra la testa per avere un po' di riparo. Le raffiche sono così intense da farti perdere l'equilibrio. La poca neve fa affiorare molti spuntoni di roccia, ogni tanto bisogna togliersi gli sci e continuare a piedi. Arrivati a uno spiazzo verso i 2000m, si decide di scendere. Non ha più senso continuare, anche perché bisognerebbe fare la strada inversa a piedi.
La discesa con gli sci sulla neve bagnata e pesante non è proprio il sogno di ogni sciatore, ma le gobbette che si trovano più a valle sono divertenti e mi alleno a sciare su un terreno misto fatto di neve, erba e terra (per chi volesse provare consiglio di tentare le curve solo nella parte con neve).
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