martedì 5 ottobre 2010


Per vedere l'inferno non è necessario morire. Per andare all'inferno basta passare per Potosì, la città più alta del mondo. Nei fianchi del Cerro Rico, come tante incurabili ferite, si aprono dei buchi che entrano nella terra. Non c'è illuminazione, l'aria è piena di polvere, si cammina accucciati, a volte bisogna inginocchiarsi sulle piccole rotaie di metallo che servono a far passare dei vagoni carichi di materiale. I minatori li spingono a forza di braccia: due persone per quelli da una tonnellata, quattro per quelli da due. La discesa in una delle centinaia di miniere di argento non è per claustrofobici. Il cunicolo è stretto, sorretto da tronchi di legno che devono essere lì da decenni, si sbatte la testa ovunque (per fortuna che abbiamo il casco). Non ci sono scalini e a volte si scivola, in pochi minuti si è completamente coperti di polvere bianca. Nell'inferno di Potosì ci sono vari gironi, che si chiamano livelli. Il primo è quello in cui si respira meglio, poi via via che si scende, l'ossigeno inizia a mancare. I lavoratori del quarto livello devono immettere aria prima di iniziare a picconare la roccia per creare dei buchi abbastanza grandi da inserire la dinamite. Qui i crolli sono più frequenti e se la galleria si richiude dietro di te non c'è scampo: non ci sono vie d'uscita, nè rifugi equipaggiati come in Cile. Qui si muore e basta. Chi non muore per un crollo, muore di morte più lenta. Non si usano maschere speciali, solo un fazzoletto legato attorno al collo. Dopo qualche anno di miniera nessuno ha ancora polmoni che funzionano. Se si raggiunge l'invalidità al 50% si ha diritto ad una pensione, sennò si continua finchè dura, per racimolare due o trecento dollari al mese. La speranza di vita di un minatore di Potosì è attorno ai 45 anni.
Quando raggiungiamo il terzo livello, ansimando come mantici, troviamo un uomo che dovrà avere una quarantina d'anni ma ne dimostra trecento. Sta colpendo la roccia con scalpello e martello. E` l'unico che sta lavorando di sabatao mattina e vuole finire prima delle quattro di pomeriggio per andare alla festa della città. Gli ci vorranno quattro o cinque ore perchè il buco raggiunga i cinquanta centimetri necessari per la dinamite. Quaggiù fa caldo, l'uomo è in un bagno di sudore. La guancia destra è rigonfia delle foglie di coca che mastica per sentire meno la fatica. Due colpi un respiro, due colpi un respiro. Il lavoro va avanti con lentezza esesperante, ogni martellata porta via pochi millimetri di roccia.
La miniera in cui mi trovo è dedicata alla Vergine della Candelaria, mentre tutte le altre hanno nomi di santi. Ma nell'inferno la Vergine e i Santi non servono, qui ci si affida alla concorrenza: il diavolo. Il suo nome è El Tio e i minatori gli hanno dedicato una statua vicino all'entrata: è una figura antropomorfa seduta come un pascià, con delle corna in testa, il membro eretto, una sigaretta in bocca e completamente circondatao da lattine di birra, foglie di coca e bottiglie di plastica che dicono "alcohol potable". I minatori, quando escono dall'inferno, bevono alcool di canna da zucchero al 96% (!) e lasciano delle bottiglie vicino ad El Tio come fossero delle offerte devozionali.
Ma Potosi ha anche un'altra faccia, quella costruita nei secoli grazie all'estrazione dell'argento: chiese stupende e case coloniali che il passare del tempo e l'inevitabile decadenza riescono a rendere ancora più speciali. In questi gironi c'è una grande festa e decine e decine di gruppi vestiti in modo tradizionale sfilano per le strade ballando musica suonata da bande di paese. La gente si muove in un vortice di mille colori: vestiti rossi, verdi, gialli, blu, dai cappelli più strani. Si balla e si cammina, qualcuno mangia delle minestre preparate da anziane ricurve, sedute sul marciapiedi con una grossa coperta legata sulla schiena. E' il week end, bisogna approfittarne, lunedì sarà un altro giorno di fatica inimmaginabile.
Silver

Nessun commento:

Posta un commento