sabato 23 ottobre 2010

Quei 198 metri in più

6088 è un numero che può dire poco. Ma per chi non riesce ad evitare di competere con se stesso, 6088 metri vogliono dire un altro record personale. Potevo non accettare la sfida?
Il mio compagno di avventura per la scalata al Huayna Potosi è un pannocchione austriaco che durante tre giorni non riuscirà a dire una cosa divertente e/o interessante. Assieme alla guida arriviamo a 4.700 m al "campo base", nome un po' troppo pomposo visto che ci si arriva in macchina. Per fortuna arrivano altri escursionisti per cui la vita sociale si prospetta piú rosea del previsto. Il pomeriggio è dedicato ad acclimatarsi, fare un giro per il ghiacciaio e giocare un po': con imbrago, corda e picozza facciamo delle prove di scalata su una parete di ghiaccio verticale. Sarà che è da un po' che non arrampico, oppure a causa dell'altitudine, ma il primo tentativo va maluccio. Il mio stile "culo in fuori" è poco efficace e dopo qualche minuto ho le braccia che non si muovono più. Lascio il campo al pannocchione che - con molta fatica - riesce ad arrivare in cima. L'arrivo di altra gente (tra cui ben quattro ragazze) non mi lasciano scelta: bisogna arrivare in cima, costi quel che costi. Mi lego di nuovo e questa volta seguo il consiglio della guida: "cojones contra la pared". Tra varie cadute e scivolate riesco comunque ad arrivare in cima. Le braccia, però, non le sentirò per le prossime tre settimane.
La cena al campo base è, ci mancherebbe altro, molto basica. Attorno alla tavolata si incrociano conversazioni in inglese, francese e spagnolo. L'atmosfera nei rifugi è sempre speciale, permeata di un'attesa leggermente elettrizzante, ma allo steso tempo rilassata. Anche le più banali conversazioni di viaggio (il Perù, il salar di Uyuni, chi è stato al lago Titicaca?) diventano interessanti. Dopo cena dò un'occhiata alla partita di scacchi tra una guida e la figlia della padrona del rifugio, poi mi metto a leggere il libro che ho comprato a Copacabana: "Night" di Elie Wiesel, che parla dell'odissea dell'autore in vari campi di concentramento polacchi. Alla parete del rifugio c'è una carta geografica con le bandiere di tutti i paesi, il loro nome e la loro capitale. C'è una capitale che è cancellata, a proposito. Al posto di Tel Aviv, una mano sconosciuta ha scritto una parola di cui si distinguono solo le ultime lettere "alen". Avrei voglia di prendere una penna e cancellare "Jerusalem" per riscrivere "Tel Aviv", perchè un popolo che ha sofferto tanto dovrebbe avere più rispetto per il dolore degli altri.
La notte si dorme poco e la mattina si fanno degli zaini che sembrano dei grattacieli. Il mio, tra scarponi da ghiacciaio, vestiti, sacco a pelo, acqua e un po' di cibo deve pesare attorno ai venti chili. Lasciamo i 4700 metri per andare al secondo rifugio a 5200, questa volta a piedi. Pensavo che la salita mi avrebbe massacrato, ma invece salgo senza troppi problemi. Si fa una sola pausa, verso 4900, dove due donne vestite in abiti tradizionali, in una casetta di sassi senza tetto, in mezzo a roccie e neve, fanno pagare l'"entrata" alla montagna: un dollaro e mezzo.
Il rifugio "campo alto roca" ha la forma di una chiesetta di montagna. Qualche alpinista appena rientrato dalla cima sta mangiando qualcosa con faccia stravolta. Il rifugio è avvolto dalla nebbia e fa un freddo pungente. Non resta altro da fare che rimanere nel sacco a pelo ad aspettare la cena, mentre lo stanzone in cui si dorme si riempie rapidamente di gente. Quando sarà ora di andare a dormire non rimarrà un centimetro libero sul pavimento e la notte si riempirà di odori e rumori. Nessuno chiuderà occhio.
La sveglia è per mezzanotte. I sacchi a pelo si muovono come grossi vermi per far uscire braccia e gambe. Una ventina di zombie cercano vestiti e attrezzatura nella penombra attraversata dai fasci delle lampade frontali. Dopo venti minuti ho indosso tre paia di pantaloni, cinque strati tra maglie e giacca a vento, due paia di calzini, un imbrago, berretto, casco e guanti. La colazione si mangia in fretta, senza appetito. La mente è altrove. La mente è a 6088 metri.
Quando usciamo, la luna ci accoglie con una luce calda riflessa dalla neve. Orione dorme sonni tranquilli in mezzo al cielo australe. Si montano i cramponi, ci si lega con la corda, si seguono le tracce di chi è partito prima di noi. Si cammina lenti, con passo cadenzato, seguendo il fascio della torcia, la respirazione che segue i movimenti delle gambe. La salita è ripida ma non massacrante, ogni tanto si ha l'energia di guardare le montagne e le stelle. In lontananza si vedono le luci tremolanti di La Paz. Camminiamo per un'ora senza fermarci: due passi, un respiro. Poi la salita si fa più ripida: un passo, un respiro. Passiamo dei crepacci, dei piccoli pezzi più tecnici: picozza, puntare i cramponi, la corda si tende, fiatone. Via via riprendiamo quelli partiti prima di noi. Nessuno sta correndo, solo andando al suo ritmo.
Il pezzo più duro dell'ascesa sono gli ultimi venti minuti, dove la pendenza non perdona. Si vede la cima, è lì vicino, ma le gambe sono di piombo, l'aria non esiste. Respirare, respirare, respirare. Alle cinque e cinquanta siamo in cima. Il sole non è ancora sorto, ci stava aspettando. In pochi minuti l'aria diventa rossa, i profili delle montagne innevate si fanno più nitidi, si riesce a vedere tutto attorno per chilometri: laghi, ghiacciai, vallate. La cima si fa via via meno esclusiva. Non c'è più solo il francese arrogante che ha pagato per farsi portare  il suo zaino al secondo rifugio dalla moglie della sua guida. Arrivano gli altri, con le facce pietrificate in una smorfia di fatica e di vittoria. Mancano alla conta solo tre persone, che sono dovute rientrare a causa dell'altitudine o della fatica. Tempo per le foto, per le pacche sulle spalle, poi si scende.
Il sole è alto nel cielo, la luce riflessa dalla neve accecante. Una sensazione di intenso piacere mi pervade. Si scende scivolando e guardando il paesaggio. Dopo poco inizia a fare caldo. Ci si ferma a togliersi uno degli strati a cipolla. Il caldo si fa più intenso, il sole implacabile. Scendere non è più un piacere: caldo, fatica, l'austriaco che cammina lento e la corda che intralcia i passi. In poco tempo la discesa è un vero e proprio calvario. Non si riesce a credere che abbiamo camminato tanto nel buio della notte. I passi si fanno pesanti e la neve si fa pesante, attaccandosi al fondo degli scarponi. Il rifugio appare in fondo alla discesa, ma i minuti che ci separano da lui sembrano interminabili. Quando arriviamo alla fine del giacciaio e ci togliamo corda e cramponi ci sentiamo liberati. Cinquanta metri ci separano dal rifugio, ma sono in salita. Quando riesco a sedermi sulla prima sedia che trovo, il mio corpo si ferma, immobile. Dovrebbe finire di svestirsi, togliere gli scarponi, cambiare la maglietta, ma rimane  immobile, alla ricerca di qualche grammo residuo di energia.
Ad ogni salita corrisponde una discesa.

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