In portoghese la pubblicitá si chiama ¨propaganda¨. In questi giorni é impossibile accendere la televisione brasiliana senza imbattersi in raffiche di spot elettorali di candidati a Presidente, Governatore, Deputato federale o Deputato statale. Immagini di futuri raggianti o di presenti giá migliori si sovrappongono a vecchietti sorridenti che hanno ritrovato la felicitá grazie questo o a quel progetto. Rispetto alla vacua rumorositá della politica nostrana, qui incredibilmente si parla di programmi, si sentono parole in Italia da decenni dimenticate: sanitá, educazione, trasporto, lavoro. A differenza che da noi, non volano insulti, né provocazioni, né accuse. Sembra che oltre che a essere numericamente una delle democrazie piú grandi del mondo, il Brasile sia anche una delle migliori, qualitativamente parlando.
Di tutti gli spot preferisco quelli di candidati locali, quelli meno abituati alle telecamere, che abbozzano dei sorrisi poco convincenti e mostrano mani con il pollice alzato (tudo bem!). Lo spot piú tenero é in assoluto quello del partito comunista, che inizia sulle note dell´Internazionale e - con vero sprezzo di ogni anacronismo - parla di sfruttamento capitalistico e di borghesia parassitica (la rivoluzione appare solo in forma metaforica). I due candidati sembranno appena usciti dalla formalina, grigi e tristi come un manifesto sovietico sbiadito. In sovraimpressione una falce e martello formato famiglia. Lo spot sfuma di nuovo sulle note dell´Internazionale.
Lula é onnipresente, benché non possa ricandidarsi di nuovo. Se potesse, sarebbe rieletto in un microsecondo. Sembra essere riuscito a far contenti ricchi e poveri, destrorsi e sinistrorsi. La Dilma, la sua delfina, fa tutta la campagna elettorale nel segno della continuitá di governo e non si stacca di un millimetro dalla politica di Lula. Sembra pagare a livello di consensi perché da giugno - mese in cui era un punto sotto al suo opponente Serra - ad agosto ha preso dieci punti di vantaggio, con un divario che si fa piú grande ogni giorno di piú.
Nonostante la corruzione cronica e i disservizio del settore pubblico, a guardare la campagna elettorale brasiliana si ha l´impressione che la gente creda ancora nella politica e che abbia una genuina fiducia nel futuro. Sono contento per loro e anche molto invidioso.
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giovedì 26 agosto 2010
domenica 22 agosto 2010
Paraty, party e misticismo
A Paraty, sulla Costa Verde a sud di Rio, ci sono tre chiese principali: una costruita per i bianchi, una per i meticci liberati e la terza per gli schiavi. Un modo come un altro per sottolineare che dio é uno e trino.
In questi giorni le tre chiese e tutte le stradine di acciottolato del centro coloniale sono piene di vacanzieri della domenica venuti da Rio de Janeiro e dai dintorni per la festa della cachaça, l´acquavite locale. Dopo un´attenta comparazione tra i vari banchi, il premio qualitá va alla varietá ¨gabriela¨, dal colore ambrato e dal sapore un po´piú dolce. In realtá dopo un po´ di tempo le differenze tra marche di cachaça tendono a sparire in favore di un´amalgama dal sapore indefinito (a quel punto é meglio tornare alla pousada prima che qualcuno ti ci porti a forza).
A Paraty mi sto fermando per imparare il portoghese. Tempo previsto: cinque giorni. La prima lezione si é concentrata sul presente dei verbi regolari e irregolari, sul passato remoto e sul futuro composto. La seconda ha attaccato l´imperfetto e alla terza i congiuntivi. La tecnica é prendere lo spagnolo, qualche parola d´italiano, un po´di veneto (cadrega, fogo, fora) e sostituire le desinenze con ¨ão¨ (tempão, dragão, litrão) o ¨il¨ (facil, dificil, comprensivel). Funziona un 60-70%. Per il resto bisogna mangiarsi metá delle lettere - soprattutto la ¨r¨ - e trasformare le ¨de¨e ¨di¨in ¨ce¨e ¨ci¨. Chiaro no?
Nessuno mi capisce ma in compenso riesco a capire i programmi televisivi che si dividono in tre grandi categorie: gli spot della campagna elettorale per le politiche di ottobre, le telenovelas di soli primi piani (e zero espressivitá) e i programmi religiosi. Questi ultimi sono il vero piatto forte, soprattutto la mattina. Si va dal prete bonario che parla in modo pacato con le mani aperte come se stesse dicendo messa, al missionario che racconta della costruizione della cattedrale cattolica di Pristina e che invita a mandare donazioni, fino al delirio mistico della folla di fedeli evangelici che ripetono come un mantra - con le mani giunte sulla testa e gli occhi chiusi - le parole senza molto senso compiuto di una predicatrice esagitata. Nello schermo in basso a sinistra c´é un traduttore per sordi che continua a muovere le mani a cerchio sopra la testa (per indicare ¨lo spirito¨) mentre in didascalia passano le preghiere che i fedeli mandano via sms.
Iluminação
In questi giorni le tre chiese e tutte le stradine di acciottolato del centro coloniale sono piene di vacanzieri della domenica venuti da Rio de Janeiro e dai dintorni per la festa della cachaça, l´acquavite locale. Dopo un´attenta comparazione tra i vari banchi, il premio qualitá va alla varietá ¨gabriela¨, dal colore ambrato e dal sapore un po´piú dolce. In realtá dopo un po´ di tempo le differenze tra marche di cachaça tendono a sparire in favore di un´amalgama dal sapore indefinito (a quel punto é meglio tornare alla pousada prima che qualcuno ti ci porti a forza).
A Paraty mi sto fermando per imparare il portoghese. Tempo previsto: cinque giorni. La prima lezione si é concentrata sul presente dei verbi regolari e irregolari, sul passato remoto e sul futuro composto. La seconda ha attaccato l´imperfetto e alla terza i congiuntivi. La tecnica é prendere lo spagnolo, qualche parola d´italiano, un po´di veneto (cadrega, fogo, fora) e sostituire le desinenze con ¨ão¨ (tempão, dragão, litrão) o ¨il¨ (facil, dificil, comprensivel). Funziona un 60-70%. Per il resto bisogna mangiarsi metá delle lettere - soprattutto la ¨r¨ - e trasformare le ¨de¨e ¨di¨in ¨ce¨e ¨ci¨. Chiaro no?
Nessuno mi capisce ma in compenso riesco a capire i programmi televisivi che si dividono in tre grandi categorie: gli spot della campagna elettorale per le politiche di ottobre, le telenovelas di soli primi piani (e zero espressivitá) e i programmi religiosi. Questi ultimi sono il vero piatto forte, soprattutto la mattina. Si va dal prete bonario che parla in modo pacato con le mani aperte come se stesse dicendo messa, al missionario che racconta della costruizione della cattedrale cattolica di Pristina e che invita a mandare donazioni, fino al delirio mistico della folla di fedeli evangelici che ripetono come un mantra - con le mani giunte sulla testa e gli occhi chiusi - le parole senza molto senso compiuto di una predicatrice esagitata. Nello schermo in basso a sinistra c´é un traduttore per sordi che continua a muovere le mani a cerchio sopra la testa (per indicare ¨lo spirito¨) mentre in didascalia passano le preghiere che i fedeli mandano via sms.
Iluminação
martedì 17 agosto 2010
Le mille vite di Rio
I quartieri di Rio sono dei mondi paralleli che si incrociano ai semafori di strada. Ad Ipanema sembra di essere in Francia: programmazione urbanistica, parchi, vetrine di negozi chic, ristoranti, cani. Se Parigi avesse il mare sarebbe una piccola Ipanema. Qui c'é il supermercato piú caro del mondo, é impossibile mangiare per meno di un milione di dollari e il mercatino dell'artigianato sembra quello di Ginevra. Quando piove i cani hanno degli impermeabili e quando fa freddo (18 gradi, si fa per dire...) addirittura il cappottino. Tra strade che trasudano borghesia ci si puó imbattere nel ristorante Garota de Ipanema, il posto in cui Antonio Carlos Tobim e Vinicius de Moraes scrissero la canzone di bossa nova piú famosa in assoluto, la Ragazza di Ipanema appunto. Lí vicino c'é un locale in cui tutti i giorni si sentono note di chitarre e percussioni. Alle undici di sera sale sul minuscolo palco una donna piú grassa di Britney Spears, piú scura di Madonna e piú intelligente di Laura Pausini (per tutte e tre ci vuole poco). Non ha bisogno di backstage, ballerini e spettacoli per allodole. Le basta aprire bocca, fare uscire la prima nota e la pelle d'oca appare sulle braccia, per andarsene a fine concerto. La cantante si chiama Maria Creuza e - tra un bicchiere di whiskey e l'altro - parla con finta nonchalance dei miti della bossa nova con cui ha lavorato. Le canzoni accarezzano le orecchie e sussurrano parole come "tristeza", "saudade" o "melancolia". Ad ascoltare i testi sembra di essere in novembre nella Polonia orientale, invece che nel cuore del Brasile.
Santa Teresa é un pezzo di Lisbona incastonato nel centro di Rio. Le strade di porfido costeggiate da case dell'ottocento salgono strette e sinuose. Un tram che non é cambiato dagl inizi del secolo scorso passa lentamente e la gente sale e scende senza aspettare le fermate (non ci sono porte). A metá salita si ferma. Da quello che capisco non c'é elettricitá nelle linee. Fa niente, la giornata é bella e camminare a Santa Teresa é un piacere in sé: si sale, si scende, si passano ateliers di artisti, case di ricchi, case popolari, scuole di capoeira, scuole di samba. La macchina officiale di Santa Teresa é il maggiolone. Il furgone piú diffuso il vecchio Volkswagen (Tom cerca di trattenerti!).
Scendendo verso il centro si arriva a Lapa, il quartiere che di notte scoppia di gente in festa e che di giorno é pieno di gente che si muove per lavoro (non si ferma mai). Sia di notte che di giorno Lapa emana un fascino potente, vagamente decadente. Qui un pasto completo costa due o tre euro, i ristoranti vendono tapas e cose da mangiare al volo, si beve birra in bottiglie da mezzo litro. Lapa é un quartiere che non va al risparmio e che bada al sodo.
Poco piú in lá c'é il Centro, dove l'architettura liberty e post-coloniale fa a botte con palazzoni grigi, chiese, edifici Bauhaus, grattacieli vetrati e la cattedrale piú orrida del mondo: un cono di cemento armato di una cinquantina di metri con il tetto a forma di croce. All'interno sembra un immenso alveare, se non addirittura un cimitero in formato industriale. Di fronte alla chiesa, due pulitori-acrobati si calano con delle corde dal tetto di un edificio interminabile per pulirne i vetri. Per le strade gente che cammina in tutte le direzioni, entrando e uscendo da negozi. Vicino alla strada pedonale Uruguanaina ci sono vari mercatini coperti. Sono un labirinto di piccoli banchi che vendono tutto per il cellulare e l´elettronica. Ti puoi fare assemblare un computer con pezzi di scarto o sbloccare una carta sim in qualche secondo. Al quindicesimo tentativo, dopo aver seguito indicazioni che mi fanno girare mezzo centro storico, trovo un tipo che vende un caricabatterie compatibile con la mia macchina fotografica (il mio é misteriosamente scomparso tra Ecuador e Brasile).
Verso nord c´é Maracana, il quartiere con il tempio del calcio mondiale, un ovale da ottantamila posti, casa delle quattro squadre di Rio. Sulla metropolitana che mi porta a vedere la partita chiedo indicazioni ad un gruppo che ha delle maglie rosse e nere. Vengo immediatamente cooptato nelle fila del Flamengo, la Juve brasiliana, che in questo momento viaggia a mezza classifica. L´altra squadra, il Ceará, é terzo e ha maglie bianconere. Faccio un po´ fatica a tifare per il colore sbagliato, ma non voglio deludere gli amici metropolitani, né l´intera curva del Flamengo (quando si arrabbiano é meglio girare alla larga). La partita é una noia: lenta, tattica, piena di errori, finisce uno a zero dopo un rigore sacrosanto. Il Flamengo vince, l´allenatore é salvo, i tamburi smettono di suonare, la gente si riversa in strada alla ricerca di un taxi tenendosi stretti per non perdersi.
Ancora piú a nord c´é la periferia povera di Rio: baraccopoli e favelas. Ci passo a fianco in bus per andare a Petropolis, ex-residenza dell´imperatore del Brasile nell´ottocento. Le case sono di mattoni nudi, le strade vuote di gente, cartelloni elettorali dappertutto (il successore di Lula verrá eletto tra poco). Non si ha voglia di fare una passeggiata.
Barrios
domenica 15 agosto 2010
Il battito di Rio de Janeiro
Il Cristo Redentore - la statua kitch che domina Rio de Janeiro dalla collina piú alta della cittá - ha mani di donna. L`artista che le ha disegnate ha usato le sue per il calco originale. La testa é stata disegnata in modo sa dare un´impressione di calda umanitá nonostante la taglia extra-large. L´effetto finale é tra lo ieratico e la Mona Lisa. In ogni modo, qualsiasi intenzione religiosa si é ormai persa in una marea umana di turisti in coda per fare la foto con le braccia aperte (con le persone che scattano la foto spesso letteralmente sdraiate per terra in cerca della migliore posizione prospettica). Come ogni cosa a Rio, anche la piú irritante, é uno spettacolo imperdibile: vedere la baia di Rio con il mare che entra per decine di chilometri all´interno della terra, vedere le spiagge bianchissime della cittá, il ponte infinito che attraversa la baia, i quartieri ricchi e le favelas, sentire il ronzio degli elicotteri che fanno il giro della statua; quassú si respira Rio.
Cercare di descrivere questa cittá a parole é come suonare una chitarra senza corde. Per rendere almeno in parte l´idea bisognerebbe poter mettere in attachment i rumori, la musica, la parlata della gente, la luce, la sensazione di operosa leggerezza che si sente sui bus o nella metropolitana supermoderna o sul ferry che attraversa la baia per connettere Rio a Niteroi e usata da migliaia di persone, ognuna con un colore di pelle diverso, un colore di occhi diverso, ognuna brasiliana. Qui tutti possono sentirsi a casa loro perché nessuno come i brasiliani é riuscito a racchiudere tutto il mondo in un unico luogo. Ci sono occhi azzurri, pelli africane, capelli rossi, occhi a mandorla, culi caraibici.
A Rio non serve portarsi dietro una cartina o la guida perché se si chiedono indicazioni per strada, la persona ti spiega nei minimi dettagli come arrivarci oppure ti porta direttamente a destinazione senza passare dal Via. Unico problema é riuscire a capire una lingua che é tanto immediata e semplice quando é scritta, quanto impenetrabile all´orale, almeno per il momento.
Forro
In un articolo che ho letto qualche mese fa, si spiegava come un gruppo di persone che ordinano da mangiare influenza le scelte individuali. Circondato da cinque donne che sono il ritratto del fascino appariscente della borghesia (tranne un´ inglese dai capelli paglierini che sembra Boy George), osservo come ognuna legge il menu, sceglie qualcosa, per poi cambiare idea quando sente le altre ordinare. Una sola caipirinha ha il potere di attirarne altre tre, facendo abbandonare litri d´acqua.
Siamo in un ristorante di Lapa, un giovedí sera. Ci siamo incontrati in ostello e forse non abbiamo niente in comune tranne il fatto che siamo a Rio e vogliamo vederne la vita notturna. Un amico colombiano di una di loro ci porta nel covo dell´élite brasiliana, dove una band di una decina di musicisti suona non-stop canzoni di forro (pronuncia fogo) sulle cui note bella gente - uomini e donne - ballano bevendo cocktails che valgono il salario minimo di una giornata. Le cinque ragazze fanno la felicitá di molti uomini con molto testosterone che le approcciano una dopo l´altra nel giro di tre minuti. Non sanno che la borghesia americana richiede almeno un appuntamento previo per cedere a pensieri lubrichi.
Io tento di muovere i piedi guardando gli altri. Dopo attento studio raggiungo la conclusione che ognuno puó ballare come gli pare e la cosa mi piace molto. Esploro anche i quattro piani di morbidezza dell´edificio coloniale con un´apertura centrale cosí che si possa sentire la musica ovunque. Ogni piano é decorato in modo diverso, con un sacco di oggetti antichi o vintage. Alle due la musica finisce. Tutti a casa.
Samba
Il venerdí sera a Lapa sembra di essere in una manifestazione della CGIL a Roma. La strada é piena di gente e ci sono tamburi che suonano non-stop. Lapa é il cuore della vita notturna di Rio e il fine settimana una marea umana si riversa in strada e nelle decine di locali di samba per bere, ballare e parlare, soprattutto ballare. Il melting pot é assoluto. A parte le differenze cromatiche, qui si incontrano tutte le fascie di etá, i sessi, le classi sociali del paese. Ci sono signore sessantenni che ballano lentamente tra i tavoli di un locale, giovanissimi che si muovono a ritmo indiavolato al suono di percussioni, il gruppetto di ragazzi perbene seduto ad un tavolo un po´ in disparte, tre viados che si aprono il passo tra la folla con delle tette enormi, le turiste americane che si fanno la foto sotto l´insegna che indica il nome della strada con la faccia di chi si sta divertendo un sacco (¨can you see girls, we had great fun, it was awsome!¨), la coppia gay che si bacia senza ritegno e single - uomini e donne - in caccia di un partner. Tre ragazze mi rapiscono mentre tento di ballare una samba e vogliono fare conversazione. Tra la musica, l´accento e la caipirinha non capisco assolutamente nulla. Riesco invece a capire il complimento che mi fa un ragazzo mentre mi passa vicino. Gli piacciono i miei occhi.
Guardando le migliaia di teste multicolori muoversi per strada alle quattro di mattina mi vengono in mente quattro parole: ¨passione per la vita¨.
Sambero
mercoledì 11 agosto 2010
Quilotoa: montagne, turismo e poverta'
La strada che da Latacunga sale verso Zumbahua sembra uscita da una fiaba e ci si aspetta di vedere uscire da un momento all'altro degli elfi dalle case di paglia (sono tutte di paglia, come quella del primo dei tre porcellini). Ai birdi, piccoli campi strappati alla montagna, pecore e lama. A Zumbahua c'e' festa. Su un palco, un piccolo gruppo suona musica andina davanti a duecento cappelli e duecento ponchos, immobili. L'espressivita' e la partecipazione non sono la specialita' locale.
Seduto nel cassone di un pick up che mi porta verso Quilotoa cerco di attutire come posso le buche della strada sterrata. Sale una famiglia che parla quechua. L'uomo si rivolge a me in spagnolo facendomi le classicissime domande (da dove vengo, quando sono arrivato in Ecuador, se mi piace il posto). Mi chiede anche quanto costa l'aereo per l'Italia e se e' difficile tornare in Ecuador senza documenti. In poche parole gli spiego i problemi legati all'immigrazione (legale e non), ma sono poco convincente. Quando ho finito dice "si', mi sa che parto". Scende di fronte a casa sua - nel mezzo del nulla - e ripete "si' deve essere bello, perche' no?". Prende in braccio la figlia, aiuta la moglie a scendere dal pick up e scompare in una nuvola di polvere.
A Quilotoa ci sono quattro case e dieci hostales senza molti vezzi. Piu' in alto del paese c'e' un enorme cratere vulcanico riempito da un lago color smeraldo. Sul sentiero che sale e scende in cresta non c'e' quasi nessuno: una coppia tedesca e due uomini dall'aria stanca.
Il sentiero che da Quilotoa va Chugchilan dovrebbe essere in teoria segnalato da frecce blu. In realta' al primo bivio ci si perde e si continua perdendosi tra campi di patate, casette di campesinos, alberi e pascoli. Di tutte le persone a cui chiedo indicazioni, solo un signore seduto nell'aia a sbucciare fave mi da' l'informazione senza proporsi come guida o chiedere soldi. Questa e' una zona povera: c'e' solo montagna, freddo e agricoltura di sussistenza. In pochi traggono beneficio dal turismo, gli altri ci provano a modo loro vendendo artigianato, proponendosi come guide o semplicemente facendo la carita', diventando cosi' ancora piu' poveri. Perche' la poverta' non e' solo mancanza di soldi, la poverta' e' soprattutto la perdita di dignita'.
Chugchilan e' un micro-paesino attaccato alla montagna con una chiesetta, una piccola piazza e molte facce bruciate dal sole di bambini quechua che mi guardano passare incuriositi. Quando mi siedo nel parque, si avvicinano e la prima parola che pronunciano e' un dolar. Faccio lo stupido e chiedo se vogliono darmi un dollaro, perche' mi farebbe comodo. La cosa li spiazza, come la domanda che faccio loro "perche' dovrei darvi un dollaro?" (risposta "per comprare delle cose"). Dopo un po' smettiamo di parlare di micro-finanza e mi raccontano storie di Power Rangers, di un loro amico che ha ben 12 anni (!) e della scuola che fanno. Sono ridiventati bambini.
Un po' fuori dal paese ci sono vari cartelli di organizzazioni non governative, tra cui Terres des Hommes Italia e Operazione Mato Grosso. I cartelli della Commissione Europea parlano di acqua per consumo umano, reforestazione, ovini migliorati e rinforzo organizazionale, ovvero l'ubiquo capacity building che appare come il prezzemolo in ambito di sviluppo.
Il bus per tornare a Latacunga dovrebbe partire alle 3 di mattina. Alle 3 e mezza due figure insonnolite si alzano dal corridoio del bus, accendono le luci e fanno entrare i passeggeri intabarrati. Nel buio della notte, illuminato solo da un mare di stelle che - a 3000 metri di altitudine - sono piu' vicine, il bus scende per la strada sterrata frenando e stridendo. Sale una donna con un bimbo legato sulle schiena, un uomo carica sul tetto prodotti da vendere al mercato, sale una coppia avvolta da una coperta fino alle orecchie. Poco a poco sorge il sole, la strada si fa meno ripida, arriva l'asfalto. Alle 7 di mattina si ferma in una stazione spettralmente vuota, sotto un cielo plumbeo.
Desarrollo
lunedì 9 agosto 2010
Il passo del granchio
Uno dei piaceri di spostarsi da un posto all'altro e' anche quello di rivenire sui propri passi. Ritornare in una citta' che si e' gia' vista e' come mettersi le ciabatte quando si torna a casa. Non c'e' piu' quell'inevitabile leggera ostilita' di un posto che non si conosce. Ci si muove per le strade senza cartina, senza dover chiedere alla gente, senza quell'aria di smarrimento un po' patetica da animale zainato fuori dal suo territorio.
Latacunga secondo le guide dell'Ecuador e' un posto per passarci una notte. Invece ha un suo fascino discreto e persistente anche la seconda volta che ci passo. Senza bisogno di fare foto o guardarmi troppo intorno cammino senza fretta per le strade affollate, passando tra banchi di frutta, carne, spezie e negozi di barbieri. Ascolto le grida dei venditori di dentifrici, pennarelli per CD e addirittura vestitini decorati per cani (con tanto di barboncino bianco a fare da modello). Mangiare al mercato, tra gente che passa e gocce di pioggia mischiate a raggi di sole. Fermarsi a vedere lo spettacolino di musica tradizionale di due cantanti microfonate. Tornare a vedere la chiesa bianca e deserta. Cercare un internet cafe' per scrivere il blog.
Flashback
Latacunga secondo le guide dell'Ecuador e' un posto per passarci una notte. Invece ha un suo fascino discreto e persistente anche la seconda volta che ci passo. Senza bisogno di fare foto o guardarmi troppo intorno cammino senza fretta per le strade affollate, passando tra banchi di frutta, carne, spezie e negozi di barbieri. Ascolto le grida dei venditori di dentifrici, pennarelli per CD e addirittura vestitini decorati per cani (con tanto di barboncino bianco a fare da modello). Mangiare al mercato, tra gente che passa e gocce di pioggia mischiate a raggi di sole. Fermarsi a vedere lo spettacolino di musica tradizionale di due cantanti microfonate. Tornare a vedere la chiesa bianca e deserta. Cercare un internet cafe' per scrivere il blog.
Flashback
sabato 7 agosto 2010
Compagni di viaggio
Muoversi in bus e' il paradigma del viaggio. Ho perso il conto di quanti ne ho presi da quando sono arrivato in Guatemala l'otto aprile di mille anni fa. Nel frattempo il mio culo ha subito una metamorfosi radicale ed e' diventato a forma di sedile.
La giornata di oggi prevede 11-12 ore di viaggio, con tre cambi. Partenza dal Pacifico e arrivo sulle Ande. Il primo "compagno di viaggio" che mi capita alle 7 di mattina sul bus della Cooperativa de Transportes Jipijapa e' uno dei miei preferiti: modello bassissimo e magrissimo, occupa il minimo spazio possibile del suo sedile e nessuno del mio. Va meno bene con il seguente, un uomo che deve essere convinto che il mio sedile sia il suo divano di casa. Per di piu' puzza cosi' tanto di pesce che sembra di avere a fianco un tonno con camicia, baffi e pantaloni. Salgono venditori di mais, pollo, ceviche, fritada. Sale un venditore di manteca de culebra (burro di serpente), versione locale del balsamo tigre. Lo segue un venditore di un libello su piante medicinali che possono curare dall'insonnia al cancro, passando per l'ipertensione e il "fegato grasso" (la cui cura migliore - a mio avviso - sarebbe smettere di mangiare maiale fritto ogni giorno).
Il bus che prendo a Guayaquil - dopo attenta comparazione di prezzi e orari tra una deicna di compagnie che mi assicurano tutte di essere le uniche ad andare dove voglio io (ma veramente le uniche !) - ha come logo il profilo di una india e si chiama Trasandina. Quando salgo sul bus scopro che il mio posto, quello vicino al finestrino, e' occupato da un uomo che non vuole mollare l'osso. Anche lui e' del modello basso e magro, ma - per proteggere una borsa che ha tra la gamba e il finestrino - si mette di sbieco toccandomi romanticamente il ginocchio ad ogni curva. L'uomo parla poco e manda un forte odore di speck. Per sua fortuna sto ancora digerendo un pesantissimo piatto di riso cinese trangugiato a forza tra un bus e l'altro, senno' gli addenterei un avambraccio. Scende in un posto dimenticato da dio, in un paramo a piu' di 3700 metri, dove ci sono un paio di mucche e tre case. La vita sociale non deve essere un gran che. Una donna che sembra la sosia del logo della Trasandina (cappello, poncho e naso adunco) si siede al suo posto. Cambia il genere, ma l'odore rimane invariato. Anche lei usa eau de fume'.
Ci sono giorni in cui ore di bus mi distruggono fisicamente e scendo incazzato e nervoso. Altri giorni posso stare ore a farmi sballottolare e a prendere buche senza perdere il sorriso. Oggi e' uno di quei giorni. Ad Ambato, a las cinco de la tarde, vengo scaricato ad un incrocio aspettanto il terzo e ultimo bus della giornata. E' l'imbrunire, a fianco a me ci sono decine di persone in attesa. Non ho fretta. Un bus si ferma, ma non e' quello giusto. Ne passa un altro, un ragazzo a fianco a me mi fa cenno che questa volta ci siamo. Mi siedo a fianco all'autista che non sembra cosciente di avere una sessantina di passeggeri e parla al cellulare e manda sms mentre la strada scende a serpentina tra le montagne. E' bello vedere guidare un bus. Tutti gli ostacoli ti vengono addosso senza farti del male. Ad ogni curva sembra che si vada fuori strada, che ci si schianti contro un cartello stradale. Invece niente. Una telefonata, un sms, gente che sale, gente che scende davanti a casa propria (non ci sono stazioni, non ci sono fermate ufficiali). Un'altra giornata di trasporto.
Easy Rider
giovedì 5 agosto 2010
Nel grigio del mare
Sembra una legge universale che piu' un posto e' caldo piu' e' incasinato. La costa dell'Ecuador, soprattutto se comparata con la zona delle montagne, conferma lo stereotipo. Salire sul bus alla stazione di Guayaquil e' un assalto alla diligenza dove i piu' deboli soccombono ai piu' forti. L'aiuto autista urla ai passeggeri di salire mentre il bus e' gia' in movimento "dele dele adelante papito!".
Per ottenere qualche attimo di pace da merenguite cronica mi metto ad ascoltare la mia musica. Visto che il lettore mp3 funziona male e non posso scegliere le canzoni, ascolto "Amore che vieni, amore che vai" cantanta da Battiato. Solo le Quattro Stagioni di Vivaldi avrebbero creato maggiore contrasto con il vento caldo che entra agitando le tendine luride, le grida dei venditori ambulanti che salgono e scendono dal bus, le pistolettate sparate a tutto volume del film tailandese di serie Z che tiene tutti gli occhi incollati ed il cellulare della mia vicina cicciona che suona in continuazione e la costringe ogni volta a delle incredibili acrobazie per toglierlo dalla tasca dei jeans attillatissimi, il che implica inserire il suo gomito nel mio costato ad ogni drin.
Puerto Lopez e' un paesotto brutto e costruito male vicino ad un mare grigio e senza sole. Case dal cui tetto spuntano tondini di ferro (non si sa mai magari costruiamo un altro piano), strade piene di fango, immondizia. Anche la stanza d'albergo e' squallida, con una collezione di capelli di ogni lunghezza e colore a decorare il pavimento e la doccia. Si stenta a credere che Puerto Lopez sia la seconda destinazione di turismo marino dell'Ecuador dopo le Galapagos. Per scoprirlo bisogna avere un po' di pazienza.
Otto di mattina, cielo plumbeo, leggera pioggerellina. Wiston, ex pescatore riciclato nel turismo, sta facendo improbabili preparativi in un posto che e' per meta' agenzia turistica e per meta' casa, asilo, ristoro e luogo di passaggio e cazzeggio per amici e parenti. Alle nove siamo su una barca che solca onde piu' grandi di lei. Si sale e si scende, con secchiate d'acqua che ci arrivano in faccia. Non fa caldo. Inizio a pensare di aver commesso un gigantesco errore a non affidarmi ad un'agenzia ufficiale. "Bisogna aver pazienza" ci dicono due ragazzini che si definiscono rispettivamente "el capitan" e "el marinero". Avranno trent'anni in due ed il fatto che la costa non sia piu' a vista d'occhio non mi rassicura per niente. A parte un giubbotto di salvataggio che si chiude male non vedo in giro altra attrezzatura di sicurezza. Il marinaio sta a prua scrutando l'orizzonte. Ogni tanto fa un movimento con un dito che fa accellerare, rallentare o cambiare di direzione al capitano. Passano i munuti. Niente. Solo acqua, acqua e neanche una goccia da bere. Gli uccelli attorno a noi si tuffano per fare colazione.
All'improvviso il marinaio urla "delfines!" e decine di sagome nere si avvicinano alla barca affiorando dall'acqua. Le girano attorno, sotto, tornano indietro, si fanno fotografare. Uno un po' piu' lontano esce completamente dall'acqua varie volte, come un bambino che vuole fare vedere ai genitori quanto e' bravo.
Dopo un po' continuiamo finche' vediamo degli sbuffi d'acqua. Sono tutt'intorno. Seguiamo gli sbuffi e vediamo dei grossi corpi uscire d'improvviso dal mare. Saltano. Ci avviciniamo. L'acqua si fa piu' scura. La schiena sale in superficie, si vede la pinna dorsale, la schiena si solleva: e' Moby Dick! Il dorso della balena rientra i acqua. Prima di scomparire nel mare scuro ci fa vedere la coda. Si porta nel suo ventre Pinocchio e Giona e chissa' chi altro ancora. Se ne va senza salutare. Ne incontreremo altre, sono decine le balene venute qui a riprodursi di fronte agli occhi voyeristici di turisti fotomuniti.
Ahab
mercoledì 4 agosto 2010
Cuenca
Cuenca non sara' piu' bella di Cuzco o Cartagena, ma in compenso ha il miglior barbiere dell'America Latina. Come vuole lo stereotipo e' super-gay e mi fa un taglio con cui trovero' difficilmente una moglie, ma sicuramente molti mariti. Forse per i miei occhi chiari ho avuto un servizio personalizzatissimo (capelli, barba, sopracciglia) ed economicissimo (2 dollari).
Fuori dal negozio del barbiere Cuenca vive la sua bellezza con noncuranza. La gente cammina senza curarsi troppo di palazzi e strade coloniali, ne' dei pochi turisti che gironzolano con il naso all'aria. E' valsa la pena venire qui, anche se con un tragitto in bus tra i piu' orrendi dall'inizio del viaggio: due ore seduto praticamente sulle ginocchia dell'autista, seguite da un'ora di attesa su un marciapiede lurido tra cani randagi e umanita' in lotta per la sopravvivenza (il week end si muovono tutti e qui il concetto di "coda" o "precedenza" e' rimpiazzato da puro darwinismo sociale). Un poliziotto e' in vena di conversazione. Ha famiglia a Napoli, ma non sa che la citta' e' sul mare. Quando vede il mio bus arrivare lo ferma con gesto marziale facendomi salire. Il bus e' pero' pieno e mi attendono tre ore e mezza in piedi, tra curve e inchiodate di un autista in erba che ha paura anche delle mosche che si spiaccicano sul parabrezza. Altre quattro ore seduto e sono finalmente a Cuenca, giusto in tempo per un piccolo concerto di salsa e un letto non troppo scomodo.
Ghiro
Fuori dal negozio del barbiere Cuenca vive la sua bellezza con noncuranza. La gente cammina senza curarsi troppo di palazzi e strade coloniali, ne' dei pochi turisti che gironzolano con il naso all'aria. E' valsa la pena venire qui, anche se con un tragitto in bus tra i piu' orrendi dall'inizio del viaggio: due ore seduto praticamente sulle ginocchia dell'autista, seguite da un'ora di attesa su un marciapiede lurido tra cani randagi e umanita' in lotta per la sopravvivenza (il week end si muovono tutti e qui il concetto di "coda" o "precedenza" e' rimpiazzato da puro darwinismo sociale). Un poliziotto e' in vena di conversazione. Ha famiglia a Napoli, ma non sa che la citta' e' sul mare. Quando vede il mio bus arrivare lo ferma con gesto marziale facendomi salire. Il bus e' pero' pieno e mi attendono tre ore e mezza in piedi, tra curve e inchiodate di un autista in erba che ha paura anche delle mosche che si spiaccicano sul parabrezza. Altre quattro ore seduto e sono finalmente a Cuenca, giusto in tempo per un piccolo concerto di salsa e un letto non troppo scomodo.
Ghiro
martedì 3 agosto 2010
La domenica del villaggio
La gente cammina piu' lentamente, in piccoli gruppi. Le donne indossano vestiti tradizionali, con in testa un cappello bianco e un po' troppo piccolo che ricorda vagamente quelli di Stanlio e Ollio. I bambini si guardano attorno divertiti. La domenica e' sempre un giorno speciale, lo si sente appena si scende in strada: il ritmo rallentato, la rottura della routine, avere il tempo di perdere un po' di tempo.
A Gualaceo domenica vuol dire mercato. Chi non vende compra e chi non compra si fa una passeggiata guardando gli altri. E' un mercato silenzioso, di pelli scure e nasi ricurvi, dove si vende molto mais, in tutte le sue forme. E' un mercato sparpigliato per il paese. Nella parte coperta, quella permanente, faccio colazione con una specie di crepe di mais. Al mio tavolo sono sedute tre studentesse che mostrano con malcelato orgoglio dei libri di sociologia dell'educazione. I loro vestiti tradiscono un'origine borghese, i loro visi tratti spagnoli. Anche loro stanno facendo colazione, afferrando con dita dalla manicure perfetta patate, cipolle, maiale fritto e frattaglie di animale sconosciuto.
Il mercato della frutta e' vicino alla chiesa, a fianco ad una piazzetta con fontana e panchine. Le due anziane che mi siedono vicino parlano con tutti i venditori ambulanti. Rifiutano delle noccioline pralinate ma discutono a lungo sul prezzo dei fermagli per capelli e ancora di piu' su quello degli orecchini (2 dollari e 25 e' il prezzo finale).
Poco lontano c'e' un altro pezzo di mercato, in cui si vende dai reggiseni ai detersivi. Su un banco trovo delle scarpe da bambini marca "Nokia" e copie di All Stars marca "Aventura".
The king of taroc
A Gualaceo domenica vuol dire mercato. Chi non vende compra e chi non compra si fa una passeggiata guardando gli altri. E' un mercato silenzioso, di pelli scure e nasi ricurvi, dove si vende molto mais, in tutte le sue forme. E' un mercato sparpigliato per il paese. Nella parte coperta, quella permanente, faccio colazione con una specie di crepe di mais. Al mio tavolo sono sedute tre studentesse che mostrano con malcelato orgoglio dei libri di sociologia dell'educazione. I loro vestiti tradiscono un'origine borghese, i loro visi tratti spagnoli. Anche loro stanno facendo colazione, afferrando con dita dalla manicure perfetta patate, cipolle, maiale fritto e frattaglie di animale sconosciuto.
Il mercato della frutta e' vicino alla chiesa, a fianco ad una piazzetta con fontana e panchine. Le due anziane che mi siedono vicino parlano con tutti i venditori ambulanti. Rifiutano delle noccioline pralinate ma discutono a lungo sul prezzo dei fermagli per capelli e ancora di piu' su quello degli orecchini (2 dollari e 25 e' il prezzo finale).
Poco lontano c'e' un altro pezzo di mercato, in cui si vende dai reggiseni ai detersivi. Su un banco trovo delle scarpe da bambini marca "Nokia" e copie di All Stars marca "Aventura".
The king of taroc
lunedì 2 agosto 2010
Nei bagni di Baños
Bambini che sguazzano e schiamazzano, adulti seduti con l'acqua alla pancia che conversano, anziani che vengono immersi controvoglia perche' fa bene alle ossa. Queste sono le terme di Baños, le piu' popolari e ruomorose del loro genere (ossessionati dall'igiene astenersi).
Nel centro di Baños c'e' una chiesa che, invece di immagini devozionali, e' piena di quadri che descrivono miracoli compiuti dalla "Madre de Agua Santa", ovvero la versione sincretica della Vergine, identificata con la cascata e le acque termali. Tra le tante, si racconta la storia di Paulino, caduto nel giugno del 1889 da un'altezza di 70 metri nel fiume e che fu preso da una mano misteriosa dopo aver invocato l'aiuto della "Madre de Agua Santa". Non e' dato di sapere cosa avvenne in casi meno fortunati: "forse era stanca o forse troppo occupata e non ascolto' il mio dolore".
Per organizzare un giro nell'Oriente - cosi' si chiama l'alto bacino amazzonico in Ecuador - contatto un'agenzia gestita da uno Shouar, una delle tribu' originarie della zona. Quando entro, due uomini dai lunghi capelli neri alzano gli occhi dalle carte che tengono in mano. Con gesto automatico, uno dei due si mette a spiegarmi il tour mostrandomi delle foto sullo schermo del suo computer: una donna bionda che si disegna delle strisce rosse sul viso, un banco di perline chiamate "articgianato", una scimmia che sembra uscita dallo zoo e turisti che fanno il bagno in un lago. Con tono monocorde, l'uomo parla di una visita ad una "comunita' indigena" (segue foto) e di una cascata che - spiega con poca convinzione - "rappresentava un luogo sacro per i nostri padri". Il tour e' in tutto e per tutto identico a quelli proposti da altre agenzie gestite da creoli o da quechua, solo il prezzo e' di poco piu' alto.
Anche questa e' Baños, la micro-capitale del turismo d'avventura dell'Ecuador, probabilmente il posto con la piu' alta densita' pro-capite al mondo di internet cafes, hostales, ristoranti e negozi di souvenir. Nelle dozzine di agenzie si possono organizzare giri a cavallo, bungee jumping, rafting, parapendio, rock climbing oppure noleggiare quads.
Adventure business
Nel centro di Baños c'e' una chiesa che, invece di immagini devozionali, e' piena di quadri che descrivono miracoli compiuti dalla "Madre de Agua Santa", ovvero la versione sincretica della Vergine, identificata con la cascata e le acque termali. Tra le tante, si racconta la storia di Paulino, caduto nel giugno del 1889 da un'altezza di 70 metri nel fiume e che fu preso da una mano misteriosa dopo aver invocato l'aiuto della "Madre de Agua Santa". Non e' dato di sapere cosa avvenne in casi meno fortunati: "forse era stanca o forse troppo occupata e non ascolto' il mio dolore".
Per organizzare un giro nell'Oriente - cosi' si chiama l'alto bacino amazzonico in Ecuador - contatto un'agenzia gestita da uno Shouar, una delle tribu' originarie della zona. Quando entro, due uomini dai lunghi capelli neri alzano gli occhi dalle carte che tengono in mano. Con gesto automatico, uno dei due si mette a spiegarmi il tour mostrandomi delle foto sullo schermo del suo computer: una donna bionda che si disegna delle strisce rosse sul viso, un banco di perline chiamate "articgianato", una scimmia che sembra uscita dallo zoo e turisti che fanno il bagno in un lago. Con tono monocorde, l'uomo parla di una visita ad una "comunita' indigena" (segue foto) e di una cascata che - spiega con poca convinzione - "rappresentava un luogo sacro per i nostri padri". Il tour e' in tutto e per tutto identico a quelli proposti da altre agenzie gestite da creoli o da quechua, solo il prezzo e' di poco piu' alto.
Anche questa e' Baños, la micro-capitale del turismo d'avventura dell'Ecuador, probabilmente il posto con la piu' alta densita' pro-capite al mondo di internet cafes, hostales, ristoranti e negozi di souvenir. Nelle dozzine di agenzie si possono organizzare giri a cavallo, bungee jumping, rafting, parapendio, rock climbing oppure noleggiare quads.
Adventure business
domenica 1 agosto 2010
Cotopaxi: sul tetto dell'Ecuador
5897 e' un numero primo composto da quattro cifre che vogliono dire fatica, freddo, neve, nebbia, speranza, paura. 5897 sono i metri che separano il vulcano Cotopaxi, il secondo posto al mondo piu' lontano dal centro della terra (il primo e' il Chimburazo, poco distante) dalla linea del mare. Dal basso appare come un mostro di lava solidificata e ghiaccio, un cono circondato dal nulla: solo qualche filo d'erba, poi solo roccia.
La sveglia e' prevista per mezzanotte, ma in realta' siamo gia' tutti svegli. Al rifugio di partenza, a 4800 m, e' impossibile dormire. Trenta persone in una camerata fanno rumore involontario e continuo per tutta la notte: fruscii di sacchi a pelo, respiri pesanti, toc toc di scarponi da ghiacciaio di chi affronta il gelo polare per andare al bagno. La mattina occhi assonnati, abbigliamento da alta montagna, crema solare. In piccoli gruppi partiamo verso l'una, torcia frontale sopra il passamontagna, zaino in spalla, doppio pantalone, con ai piedi dei grossi scarponi pesantissimi e rigidissimi: piu' che un proto-alpinista mi sento un palombaro.
Capisco fin dal primo momento che non sara' un'ascesa come le altre. Il sentiero di terra sale verticale e si scivola ad ogni passo. Mi sembra di respirare come se stessi correndo una maratona, ma in realta' cammino al rallenatore. Dopo un'oretta sono gia' in ritardo dal mio gruppo assieme a Sebastien, fotografo e cameraman francese, che si sente male da ieri sera a causa dell'altitudine.
All'inizio del ghiacciaio ci si ferma a a montare i cramponi e a legarsi con la corda. Tra i cinque compagni formiamo due cordate, oltre a quella dell'alpinista solitario (e un po' autistico) che ha pagato per salire da solo. Una guida va con Sebastien, per paura che debba tornare indietro, mentre io divento l'anello debole (quello subito dopo la guida) dell'altra cordata composta da David, un inglese appassionato di alpi e di Cristopher, giovanissimo svizzero. Si va al mio passo, ovvero lenti. Camminare su un ghiacciaio e' come muoversi con dei mattoni legati ai piedi, ogni movimento e' una fatica, soprattutto se si e' dei neofiti come me. La corda che mi lega alla guida si tende e si allenta ad ogni passo. Tento di mantenere un ritmo, ma la respirazione lo sopravanza. Dopo un'ora la guida si immerge in una grotta glaciale e lo seguiamo tutti a ripararci dal freddo e a riposarci un po'. Quando arriva Sebastien, un po' in ritardo rispetto a noi, si fa un cambio di cordata. Mi mettono assieme a Sebastien dicendomi che abbiamo un ritmo simile. In realta' pensano che ne' lui ne' io ce la faremo ad arrivare in cima. Dovremo tornare indietro prima, come succede con circa la meta' di chi parte.
Quando usciamo dalla grotta una forte folata di vento ci annuncia che il tempo non ci risparmiera' la minima fatica. Nella nuova cordata sono ultimo e si va all'andatura di Sebastien, ancora piu' lenta della mia. Poco male, non ho fretta. Saliamo poco a poco, un passo alla volta, seguendo le tracce della guida e di quelli che hanno camminato nella neve prima di noi. Passiamo dei crepacci camminando su ponti di ghiaccio. La pendenza e' quasi accettabile ed il vento e' laterale, per cui a parte sbilanciarci ogni tanto non da' troppo fastidio. Ad un certo punto gira e ci spinge avanti con forza, sembra di volare. La fortuna sembra durare poco perche' uno dei cramponi di Sebastien si rompe. Ci fermiamo al riparo di un muro di stalagtiti di ghiaccio per vedere il da farsi. L'altitudine deve essere attorno ai 5200 o 5300 metri. Tiro fuori dal mio zaino il kit da bravo boy scout e con coltellino svizzero e cordino ripariamo il crampone. Quando ripartiamo il vento ha girato (oppure abbiamo girato noi) e il pendio si fa ripidissimo. Ben presto sono attaccato piedi e mani al ghiaccio e la mia sola prospettiva e' la corda che mi lega a Sebastien, che lo lega a Paulo, la guida. Socchiudo gli occhi per evitare la neve che il vento mi spara in faccia e aspetto che la corda che ho legata in vita si muova lentamente come un lento serpente infreddolito. Da curva si fa un po' piu' tesa: Sebastian ha fatto un passo. Lo seguo: picozza, piede destro, piede sinistro, mano. La corda si fa un po' piu' floscia, poi risale: un altro passo. Anch'io ripeto la sequenza una, due , tre, per non so quante volte. Sebastien si ferma, respira, poi riparte. La corda si fa piu' tesa, Paulo e Sebastien vanno piu' veloci. La salita piu' dura e' terminata, posso alzarmi in piedi e camminare, sempre lentamente.
Il vento si fa sempre piu' forte, raffiche che ci fanno fare due passi avanti e uno indietro, puntando la picozza per non cadere. Mancano ancora due o trecento metri di dislivello che, a questa altitudine, significano il triplo del tempo normalmente necessario. Paulo continua a camminare, si sale ancora di traverso sul ghiaccio e la neve, la corda tocca per terra, sto camminando piu' veloce di Sebastien, la arrotolo in una mano e la lascio quando si fa piu' tesa.
Fin dall'inizio ho pensato che forse non ce l'avrei fatta a salire in cima. Troppe cose si accumulavano: era la prima volta che salivo su un ghiacciaio, non ero mai stato cosi' in alto, il tempo era inclemente ed ero partito con un po' di raffredore e qualche sintomo di influenza. Dopo la partenza, ciclicamente, ho iniziato a pensare che potevo farcela e, poco dopo, sentendo il mio cuore battere troppo forte e la respirazione farsi pesante e veloce allo stesso tempo, pensare il contrario. Vedendo Sebastien rallentare mi rendo conto che siamo in due a dovercela fare, oltre alla guida Paulo. Stranamente il pensiero di fallire non mi fa paura. Arrivare dove siamo ora, a 5600 metri, non puo' esserlo. In fondo sono io che decido cosa e' un fallimento e cosa e' un successo, nessun altro.
Paulo continua con passo di metronomo: cinque respiri e un passo, cinque respiri e un passo, cinque respiri e un passo. Raggiungiamo uno spiazzo, si puo' bere qualcosa, con l'acqua che ha iniziato a gelare nella bottiglia. Un po' di cioccolata e poi si riparte per il pezzo piu' duro, quello piu' ripido.
Presto mi ritrovo con la faccia contro la parete, il vento e' troppo forte per guardare in alto, il respiro mi manca. Cerco di concentrarmi su me stesso: "Respira. Fai un passo. Pausa. La corda non si muove. La corda sale. Pausa. Fai un passo. Non pensare. Ce la puoi fare. Pausa. Non pensare al vento. Pausa. Non pensare a quando finisce la salita. Fai un passo. Non pensare ad un posto caldo e accogliente. Pausa. Respira forte. Pausa. Respira piu' forte. Non avere paura. Ancora un passo. Muovi la picozza, muovi il piede, muovi la mano. Pausa. Ripeti il movimento".
Mancano un centinaio di metri di dislivello. Paulo annuncia che la vetta e' a venti minuti. Non gli credo. Sebastien non lo so, ha smesso di parlare da un po'. Poco importa il tempo o la fatica, a questo punto ho deciso che arrivero' in cima, costi quel che costi. Riprendiamo il cammino e - come un miraggio - vedo quelli della cordata salita prima di noi. Stanno scendendo a buona andatura. Hanno facce sorridenti. Ancora quindici minuti mi dice David, coraggio. Vedere delle facce conosciute (anche se il giorno prima) in mezzo alla neve e' come una tazza di caffe' la mattina. Per la prima volta dall'inizio della salita sono di buon umore, il mio passo si fa piu' veloce. L'euforia dura lo spazio di un secondo, la salita - quella piu' dura - la uccide sul nascere. Solo la consapevolezza che ci siamo quasi ci fa andare avanti. Perdo la nozione del tempo. Incontriamo altre due persone che stanno scendendo: ancora cinque minuti. I passi sono ancora piu' lenti e pesanti. Per la fatica mi ritrovo a ginocchio, aspettando che davanti si muovano. Ancora due passi e di nuovo in ginocchio. Respirare. Respirare. Manca poco. Alzarsi, respirare, camminare. Ancora qualcuno che sta scendendo: due minuti alla cima. Inizio a contare i passi: uno, due, tre. Arrivo a 178, probabilmente in quattro o cinque minuti. La montagna e' finita. Non c'e' nessun cartello con la cifre 5897, solo tre nuvole a formare tre onde nel cielo blu. Di sotto solo nebbia e un vento cosi' forte che mi si gelano le mani nei pochi secondi che le tolgo dai guanti per fare una foto. Ci abbracciamo. Abbracciamo anche i tre alpinisti che ci seguono. Hanno le facce stravolte, probabilmente come la mia, illuminate da ragi fortissimi.
Nel salire non mi sono reso conto che e' sorto il sole. Il vento e' cosi' forte che si fa fatica a stare in piedi. Sotto di noi un mare di nuvole.
Devo mettermi la crema solare, ma si e' ghiacciata nel tubo. La discesa inizia piu' presto del previsto. Scendo per primo, con la corda dietro di me che si tende a indicarmi che sto andando troppo veloce. Anche scendere, a questa andatura, e' faticoso. Al vento si aggiunge la nebbia. Tutto e' bianco. Si fa fatica a riconoscere le orme nella neve. Provo a mettermi degli occhiali da sole ma si appannano all'istante. Stessa cosa succede con la maschera da sci. Scendo a tentoni, puntando la picozza a monte.
La corda si fa piu' tesa, Sebastien si e' fermato. Mi giro. Anche l'altro crampone si e' rotto. Ci fermiamo a ripararlo con un altro pezzo di cordino. Si riparte, con le gambe che traballano un po'. All'ultima pausa tiro fuori la bottiglia di Gatorade che e' diventato una granatina. La discesa sembra non finire mai, finche' la neve si fa piu' morbida, il piede scivola verso il basso, quasi sciando. Alla neve subentra la terra, il rifugio non e' lontano. Via le corde, via i cramponi, via l'imbrago. Scendiamo ognuno per conto suo, finalmente alla velocita' che ci aggrada.
Il rifugio adesso e' come una casa: caldo, accogliente, pieno di facce sorridenti. Per alcuni e' stata una mattinata normale. Sono abituati a ghiacciai come questo. Per altri e' un'impresa mitica, se non addirittura mistica. Per il resto del tempo di rientro non riesco a credere di avercela fatta. La fatica fa ancora male, ma inizio gia' a chiedermi cosa ci sara' dopo. Dov'e' il limite?
Hillary
La sveglia e' prevista per mezzanotte, ma in realta' siamo gia' tutti svegli. Al rifugio di partenza, a 4800 m, e' impossibile dormire. Trenta persone in una camerata fanno rumore involontario e continuo per tutta la notte: fruscii di sacchi a pelo, respiri pesanti, toc toc di scarponi da ghiacciaio di chi affronta il gelo polare per andare al bagno. La mattina occhi assonnati, abbigliamento da alta montagna, crema solare. In piccoli gruppi partiamo verso l'una, torcia frontale sopra il passamontagna, zaino in spalla, doppio pantalone, con ai piedi dei grossi scarponi pesantissimi e rigidissimi: piu' che un proto-alpinista mi sento un palombaro.
Capisco fin dal primo momento che non sara' un'ascesa come le altre. Il sentiero di terra sale verticale e si scivola ad ogni passo. Mi sembra di respirare come se stessi correndo una maratona, ma in realta' cammino al rallenatore. Dopo un'oretta sono gia' in ritardo dal mio gruppo assieme a Sebastien, fotografo e cameraman francese, che si sente male da ieri sera a causa dell'altitudine.
All'inizio del ghiacciaio ci si ferma a a montare i cramponi e a legarsi con la corda. Tra i cinque compagni formiamo due cordate, oltre a quella dell'alpinista solitario (e un po' autistico) che ha pagato per salire da solo. Una guida va con Sebastien, per paura che debba tornare indietro, mentre io divento l'anello debole (quello subito dopo la guida) dell'altra cordata composta da David, un inglese appassionato di alpi e di Cristopher, giovanissimo svizzero. Si va al mio passo, ovvero lenti. Camminare su un ghiacciaio e' come muoversi con dei mattoni legati ai piedi, ogni movimento e' una fatica, soprattutto se si e' dei neofiti come me. La corda che mi lega alla guida si tende e si allenta ad ogni passo. Tento di mantenere un ritmo, ma la respirazione lo sopravanza. Dopo un'ora la guida si immerge in una grotta glaciale e lo seguiamo tutti a ripararci dal freddo e a riposarci un po'. Quando arriva Sebastien, un po' in ritardo rispetto a noi, si fa un cambio di cordata. Mi mettono assieme a Sebastien dicendomi che abbiamo un ritmo simile. In realta' pensano che ne' lui ne' io ce la faremo ad arrivare in cima. Dovremo tornare indietro prima, come succede con circa la meta' di chi parte.
Quando usciamo dalla grotta una forte folata di vento ci annuncia che il tempo non ci risparmiera' la minima fatica. Nella nuova cordata sono ultimo e si va all'andatura di Sebastien, ancora piu' lenta della mia. Poco male, non ho fretta. Saliamo poco a poco, un passo alla volta, seguendo le tracce della guida e di quelli che hanno camminato nella neve prima di noi. Passiamo dei crepacci camminando su ponti di ghiaccio. La pendenza e' quasi accettabile ed il vento e' laterale, per cui a parte sbilanciarci ogni tanto non da' troppo fastidio. Ad un certo punto gira e ci spinge avanti con forza, sembra di volare. La fortuna sembra durare poco perche' uno dei cramponi di Sebastien si rompe. Ci fermiamo al riparo di un muro di stalagtiti di ghiaccio per vedere il da farsi. L'altitudine deve essere attorno ai 5200 o 5300 metri. Tiro fuori dal mio zaino il kit da bravo boy scout e con coltellino svizzero e cordino ripariamo il crampone. Quando ripartiamo il vento ha girato (oppure abbiamo girato noi) e il pendio si fa ripidissimo. Ben presto sono attaccato piedi e mani al ghiaccio e la mia sola prospettiva e' la corda che mi lega a Sebastien, che lo lega a Paulo, la guida. Socchiudo gli occhi per evitare la neve che il vento mi spara in faccia e aspetto che la corda che ho legata in vita si muova lentamente come un lento serpente infreddolito. Da curva si fa un po' piu' tesa: Sebastian ha fatto un passo. Lo seguo: picozza, piede destro, piede sinistro, mano. La corda si fa un po' piu' floscia, poi risale: un altro passo. Anch'io ripeto la sequenza una, due , tre, per non so quante volte. Sebastien si ferma, respira, poi riparte. La corda si fa piu' tesa, Paulo e Sebastien vanno piu' veloci. La salita piu' dura e' terminata, posso alzarmi in piedi e camminare, sempre lentamente.
Il vento si fa sempre piu' forte, raffiche che ci fanno fare due passi avanti e uno indietro, puntando la picozza per non cadere. Mancano ancora due o trecento metri di dislivello che, a questa altitudine, significano il triplo del tempo normalmente necessario. Paulo continua a camminare, si sale ancora di traverso sul ghiaccio e la neve, la corda tocca per terra, sto camminando piu' veloce di Sebastien, la arrotolo in una mano e la lascio quando si fa piu' tesa.
Fin dall'inizio ho pensato che forse non ce l'avrei fatta a salire in cima. Troppe cose si accumulavano: era la prima volta che salivo su un ghiacciaio, non ero mai stato cosi' in alto, il tempo era inclemente ed ero partito con un po' di raffredore e qualche sintomo di influenza. Dopo la partenza, ciclicamente, ho iniziato a pensare che potevo farcela e, poco dopo, sentendo il mio cuore battere troppo forte e la respirazione farsi pesante e veloce allo stesso tempo, pensare il contrario. Vedendo Sebastien rallentare mi rendo conto che siamo in due a dovercela fare, oltre alla guida Paulo. Stranamente il pensiero di fallire non mi fa paura. Arrivare dove siamo ora, a 5600 metri, non puo' esserlo. In fondo sono io che decido cosa e' un fallimento e cosa e' un successo, nessun altro.
Paulo continua con passo di metronomo: cinque respiri e un passo, cinque respiri e un passo, cinque respiri e un passo. Raggiungiamo uno spiazzo, si puo' bere qualcosa, con l'acqua che ha iniziato a gelare nella bottiglia. Un po' di cioccolata e poi si riparte per il pezzo piu' duro, quello piu' ripido.
Presto mi ritrovo con la faccia contro la parete, il vento e' troppo forte per guardare in alto, il respiro mi manca. Cerco di concentrarmi su me stesso: "Respira. Fai un passo. Pausa. La corda non si muove. La corda sale. Pausa. Fai un passo. Non pensare. Ce la puoi fare. Pausa. Non pensare al vento. Pausa. Non pensare a quando finisce la salita. Fai un passo. Non pensare ad un posto caldo e accogliente. Pausa. Respira forte. Pausa. Respira piu' forte. Non avere paura. Ancora un passo. Muovi la picozza, muovi il piede, muovi la mano. Pausa. Ripeti il movimento".
Mancano un centinaio di metri di dislivello. Paulo annuncia che la vetta e' a venti minuti. Non gli credo. Sebastien non lo so, ha smesso di parlare da un po'. Poco importa il tempo o la fatica, a questo punto ho deciso che arrivero' in cima, costi quel che costi. Riprendiamo il cammino e - come un miraggio - vedo quelli della cordata salita prima di noi. Stanno scendendo a buona andatura. Hanno facce sorridenti. Ancora quindici minuti mi dice David, coraggio. Vedere delle facce conosciute (anche se il giorno prima) in mezzo alla neve e' come una tazza di caffe' la mattina. Per la prima volta dall'inizio della salita sono di buon umore, il mio passo si fa piu' veloce. L'euforia dura lo spazio di un secondo, la salita - quella piu' dura - la uccide sul nascere. Solo la consapevolezza che ci siamo quasi ci fa andare avanti. Perdo la nozione del tempo. Incontriamo altre due persone che stanno scendendo: ancora cinque minuti. I passi sono ancora piu' lenti e pesanti. Per la fatica mi ritrovo a ginocchio, aspettando che davanti si muovano. Ancora due passi e di nuovo in ginocchio. Respirare. Respirare. Manca poco. Alzarsi, respirare, camminare. Ancora qualcuno che sta scendendo: due minuti alla cima. Inizio a contare i passi: uno, due, tre. Arrivo a 178, probabilmente in quattro o cinque minuti. La montagna e' finita. Non c'e' nessun cartello con la cifre 5897, solo tre nuvole a formare tre onde nel cielo blu. Di sotto solo nebbia e un vento cosi' forte che mi si gelano le mani nei pochi secondi che le tolgo dai guanti per fare una foto. Ci abbracciamo. Abbracciamo anche i tre alpinisti che ci seguono. Hanno le facce stravolte, probabilmente come la mia, illuminate da ragi fortissimi.
Nel salire non mi sono reso conto che e' sorto il sole. Il vento e' cosi' forte che si fa fatica a stare in piedi. Sotto di noi un mare di nuvole.
Devo mettermi la crema solare, ma si e' ghiacciata nel tubo. La discesa inizia piu' presto del previsto. Scendo per primo, con la corda dietro di me che si tende a indicarmi che sto andando troppo veloce. Anche scendere, a questa andatura, e' faticoso. Al vento si aggiunge la nebbia. Tutto e' bianco. Si fa fatica a riconoscere le orme nella neve. Provo a mettermi degli occhiali da sole ma si appannano all'istante. Stessa cosa succede con la maschera da sci. Scendo a tentoni, puntando la picozza a monte.
La corda si fa piu' tesa, Sebastien si e' fermato. Mi giro. Anche l'altro crampone si e' rotto. Ci fermiamo a ripararlo con un altro pezzo di cordino. Si riparte, con le gambe che traballano un po'. All'ultima pausa tiro fuori la bottiglia di Gatorade che e' diventato una granatina. La discesa sembra non finire mai, finche' la neve si fa piu' morbida, il piede scivola verso il basso, quasi sciando. Alla neve subentra la terra, il rifugio non e' lontano. Via le corde, via i cramponi, via l'imbrago. Scendiamo ognuno per conto suo, finalmente alla velocita' che ci aggrada.
Il rifugio adesso e' come una casa: caldo, accogliente, pieno di facce sorridenti. Per alcuni e' stata una mattinata normale. Sono abituati a ghiacciai come questo. Per altri e' un'impresa mitica, se non addirittura mistica. Per il resto del tempo di rientro non riesco a credere di avercela fatta. La fatica fa ancora male, ma inizio gia' a chiedermi cosa ci sara' dopo. Dov'e' il limite?
Hillary
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