Il diluvio universale inizia alle sei e mezza. Prima una pioggerella fine ma costante, poi si aprono le cataratte ed il cielo si trasforma in una cascata. Rifugiato nella mia stanza di mediocre albergo, aspetto che smetta facendo zapping. Attesa vana, fame incipiente, decido di uscire lo stesso. In un impeto di etnofilia - forse per compensare i pensieri da gringo padano della sera prima - lascio in stanza l'ombrello e seguo gli usi locali: bagnarsi. Qui la gente cammina sotto la pioggia come se niente fosse, con lo stesso lento passo strascicato. Mi rendo pero' conto che la cosa con me non puo' funzionare perche' ho troppa roba addosso: zaino, macchina fotografica, portafogli.
Alle 9.30 mi trovo assieme ad un gruppetto di vecchiette che parlano un misto di spagnolo e inglese e una coppia di turisti in una stanzetta del molo ad aspettare la barca ("panga") per la "islita", la piu' piccola delle Corn Islands. Le vecchiette mi assicurano che la panga parte con qualsiasi condizione e che quando piove c'e' una copertura. Effettivamente, una volta seduti belli schiacciati gli uni agli altri, viene srotolato un telo di nylon nero tutto bucato che viene tenuto dai passeggeri seduti ai bordi, tra cui me. Mi ritrovo presto con il braccio sinistro totalmente anchilosato e sono anche completamente bagnato visto che il telo ha un buco proprio sopra la mia testa. Ciliegina sulla torta, il telo fa effetto aspiratore ed i gas di scarico dei due motori da 200 cavalli si accumulano in gran quantita'.
Il mio vicino di posto parla italiano con accento veneto, vicentino per l'esattezza. Fa parte della troupe che sta lavorando alla versione spagnola dell'Isola dei Famosi e che ha monopolizzato i pochi alberghi decenti dell'isola. Sembra non esserci nessun paradiso tropicale che non sia infestato da un reality show.
Smette di piovere, la barca salta sulle onde come una cavalletta e la islita si avvicina velocemente. Dal mare si vede sole, spiaggia, alberi, il molo e quattro case.
Penso che per un po' non dovro' rifare lo zaino tutti i giorni.
Khorakane'
lunedì 31 maggio 2010
mercoledì 26 maggio 2010
Verso le Corn Islands 2
Sveglia alle sette. Faccio colazione in un posto che per meta' e' un comedor e per meta' un negozio di fotocopie. Gli avventori o mangiano fagioli o arrivano con la carta d'identita' da fotocopiare, alcunni fanno entrambe le cose, sfruttando una sinergia rara quanto utile.
La giornata inizia veramente con il primo (e ultimo) bus della giornata, che mi porta a El Rama in quattro ore nette. Qui la strada finisce. In compenso c'e' un bel fiume largo e lento che scorre a velocita' imercettibile verso la costa caraibica.Se Dio si e' fermato a Eboli, a Rama non ha proprio mai messo piede.
La barca parte quando si riempie e la chiamano "panga": sedili durissimi, spazio per le gambe zero, unico comfort un giubbotto di salvataggio che indosso di malavoglia causa caldo asfissiante. La panga parte lenta, ma poi prende velocita' e inizia a saltellare sulle onde del fiume, inclinandosi a destra e a sinistra seguendone le anse. Il caldo scompare per magia e tutti ci stringiamo bene il giubbotto di salvataggio, chi per precauzione e chi per il freddo.
A destra e a sinistra foresta tropicale, qualche casa sperduta sulle rive e qualche canoa spinta a remi che risale la corrente. Abbiamo anche diritto ad un bello scroscio di pioggia (la panga non e' coperta) che mi sferza la faccia come se fosse grandine. La donna che mi siede a fianco ha un bambino di qualche mese in braccio che si addormenta al primo istante. Quando inizia a piovere lei lo copre con un piccolo k-way di spiderman, di cui sono estremamente invisioso.
Quando la panga entra nella laguna di Bluefield, la citta' sulla costa, siamo tutti anchilosati e intirizziti, alcuni con un principio di mal di mare. Il fiume si allarga per ricevere il mare e l'acqua dolce si mischia all'acqua salata. Mangrovie a perdita d'occhio.
Un po' stordito, metto piede a terra: afa, polvere e casino. Bluefield e' un posto che sembra uscito da un film su bordelli, bische e contrabbando d'alchol sul Mississipi a fine ottocento. Di qui passano navi dalla Colombia che trasportano coca e sganciano il carico quando vengono avvicinate da una pattuglia. La ricerca delle 'borse bianche ' e' diventato un vero e prorpio lavoro, che puo' farti diventare ricco dal giorno alla notte. Secondo una ragazza israeliana che ci ha vissuto quattro mesi, e' un posto irrecuperabile, con niente di bello. Senza dubbio non la gente, che sembra totalmente e perennemente stordita oppure ti guarda come se ti volesse sfottere. Al molo non c'e' un cartello, non c'e' un ufficio, ne' un'indicazione che riguardi il ferry per le isole Corn. Nessuno sembra sapere nulla. Un tipo meno rincoglionito degli altri mi manda verso una bettola piena di uomini ubriachi alla ricerca di Miss X (nome dimenticato) che sarebbe l'unica a sapere qualcosa. La Miss in questione e' assente, ma una sua conoscente sembra capire le domande non poi cosi' difficili che le faccio.
- Il ferry?
- Non esiste.
- La barca?
- Non c'e'. Ovvero c'e' ma parte tra due giorni.
- Quando hanno cambiato gli orari?
- Che orari?
Qui gli orari si fanno il giorno stesso se va bene, quasi sempre il giorno dopo.
Ho due opzioni: restare due giorni a Bluefields a non fare niente oppure prendere l'aereo. Ci penso tre secondi e dopo dieci minuti sono all'aeroporto, con un biglietto in mano insultando sottovoce il capitano del ferry e l'idiota che scrive le guide Lonely Planet per il Nicaragua. Due minuti dopo passo la sicurezza che non ha neanche il metal detector e tre minuti dopo sono seduto in un ATR-42 della linea aerea La Costena, l'unica al mondo che e' operata come una compagnia di bus.
Qando metto piede a Big Corn, la piu' grande delle due isole, invece del posto con mille cose da fare e una amabile popolazione locale, appare un posto in sfacelo, in cui non c'e' una casa che non sia cadente, scrostata, con un divano sfondato in cortile. Le donne ci mettono dei secoli a muovere i loro culi enormi con agilita' da pachiderma. Gli uomini sono ancora piu' rintronati che a Bluefields: meta' camminano a zig zag e l'altra meta' non cammina affatto. Sara' per un riflusso incondizionato di eurocentrismo o per la fatica del viaggio, ma avrei voglia di tirare un paio di ceffoni a tutti quelli che passano per dargli una svegliata. E' chiaro, il ritmo del caribe non mi e' ancora entrato nel sangue.
Herschkovitz
La giornata inizia veramente con il primo (e ultimo) bus della giornata, che mi porta a El Rama in quattro ore nette. Qui la strada finisce. In compenso c'e' un bel fiume largo e lento che scorre a velocita' imercettibile verso la costa caraibica.Se Dio si e' fermato a Eboli, a Rama non ha proprio mai messo piede.
La barca parte quando si riempie e la chiamano "panga": sedili durissimi, spazio per le gambe zero, unico comfort un giubbotto di salvataggio che indosso di malavoglia causa caldo asfissiante. La panga parte lenta, ma poi prende velocita' e inizia a saltellare sulle onde del fiume, inclinandosi a destra e a sinistra seguendone le anse. Il caldo scompare per magia e tutti ci stringiamo bene il giubbotto di salvataggio, chi per precauzione e chi per il freddo.
A destra e a sinistra foresta tropicale, qualche casa sperduta sulle rive e qualche canoa spinta a remi che risale la corrente. Abbiamo anche diritto ad un bello scroscio di pioggia (la panga non e' coperta) che mi sferza la faccia come se fosse grandine. La donna che mi siede a fianco ha un bambino di qualche mese in braccio che si addormenta al primo istante. Quando inizia a piovere lei lo copre con un piccolo k-way di spiderman, di cui sono estremamente invisioso.
Quando la panga entra nella laguna di Bluefield, la citta' sulla costa, siamo tutti anchilosati e intirizziti, alcuni con un principio di mal di mare. Il fiume si allarga per ricevere il mare e l'acqua dolce si mischia all'acqua salata. Mangrovie a perdita d'occhio.
Un po' stordito, metto piede a terra: afa, polvere e casino. Bluefield e' un posto che sembra uscito da un film su bordelli, bische e contrabbando d'alchol sul Mississipi a fine ottocento. Di qui passano navi dalla Colombia che trasportano coca e sganciano il carico quando vengono avvicinate da una pattuglia. La ricerca delle 'borse bianche ' e' diventato un vero e prorpio lavoro, che puo' farti diventare ricco dal giorno alla notte. Secondo una ragazza israeliana che ci ha vissuto quattro mesi, e' un posto irrecuperabile, con niente di bello. Senza dubbio non la gente, che sembra totalmente e perennemente stordita oppure ti guarda come se ti volesse sfottere. Al molo non c'e' un cartello, non c'e' un ufficio, ne' un'indicazione che riguardi il ferry per le isole Corn. Nessuno sembra sapere nulla. Un tipo meno rincoglionito degli altri mi manda verso una bettola piena di uomini ubriachi alla ricerca di Miss X (nome dimenticato) che sarebbe l'unica a sapere qualcosa. La Miss in questione e' assente, ma una sua conoscente sembra capire le domande non poi cosi' difficili che le faccio.
- Il ferry?
- Non esiste.
- La barca?
- Non c'e'. Ovvero c'e' ma parte tra due giorni.
- Quando hanno cambiato gli orari?
- Che orari?
Qui gli orari si fanno il giorno stesso se va bene, quasi sempre il giorno dopo.
Ho due opzioni: restare due giorni a Bluefields a non fare niente oppure prendere l'aereo. Ci penso tre secondi e dopo dieci minuti sono all'aeroporto, con un biglietto in mano insultando sottovoce il capitano del ferry e l'idiota che scrive le guide Lonely Planet per il Nicaragua. Due minuti dopo passo la sicurezza che non ha neanche il metal detector e tre minuti dopo sono seduto in un ATR-42 della linea aerea La Costena, l'unica al mondo che e' operata come una compagnia di bus.
Qando metto piede a Big Corn, la piu' grande delle due isole, invece del posto con mille cose da fare e una amabile popolazione locale, appare un posto in sfacelo, in cui non c'e' una casa che non sia cadente, scrostata, con un divano sfondato in cortile. Le donne ci mettono dei secoli a muovere i loro culi enormi con agilita' da pachiderma. Gli uomini sono ancora piu' rintronati che a Bluefields: meta' camminano a zig zag e l'altra meta' non cammina affatto. Sara' per un riflusso incondizionato di eurocentrismo o per la fatica del viaggio, ma avrei voglia di tirare un paio di ceffoni a tutti quelli che passano per dargli una svegliata. E' chiaro, il ritmo del caribe non mi e' ancora entrato nel sangue.
Herschkovitz
martedì 25 maggio 2010
Verso le Corn Islands 1
Perche' andare alle Corn Islands via terra mettendoci tre giorni invece che un'ora di volo? Probabilmente per puro masochismo o per avere le chiappe modellate a forma di sedile di autobus e le vene varicose a causa della prolungata immobilita', oppure ancora per poter sudare in tutta tranquillita' per tutto il giorno. Sia come sia, essendo la stessa ragione del viaggio il viaggiare, non e' importante il dove si va, ma come ci si arriva.
Lascio Miraflor sull'ormai mitico scuolabus americano Bluebird che passa per i sentieri piu' impervi trasportando bidoni di latte e sacchi di verdura. Ad Esteli prendo un bus gemello diretto a Matagalpa dove nelle intenzioni iniziali dovevo fermarmi a dormire. Nella realta' finale, appena arrivato a Matagalpa mi viene un'inspiegabile voglia sfrenata di riprendere un bus (forse sono diventato dipendente dagli scossoni e le sgasate). Dopo rapida consulta con un paio di astanti, monto sul terzo bus gemello diretto a Managua, che mi lascia piu' morto che vivo a bordo strada in un posto che si chiama San Benito e che non e'altro che una strada con un paio di costruzioni al lato, la cui unica fortuna e' essere all'incrocio con la strada che continua per Juigalpa. Ad ogni fermata, un nugolo di venditori di qualsiasi cosa si assiepa attorno ai bus , per salire al volo e cercare di vendere pollo fritto (10 cordobas, 50 centesimo di dollaro), manghi (5), pomodori (10), banane fritte (5), patate (10), yucca (5), peperoni (prezzo non pervenuto), acqua (1), bibite (12) e qualsiasi altra cosa che i viaggiatori ormai storditi dal viaggio siano a disposti a comprare, dopo essersi gia' fatti abbindolare da agenti multimandatari che vendono spazzolini, vitamine, balsami emmollienti, caramelle al mentolo e funghicidi. Sul bus per Matagalpa, ho avuto diritto ad un pistolotto mistico di una buona mezz'ora da parte di una predicatrice-urlatrice che usa la parola "peccato" tre volte al minuto accompagnata da sguardi accusatori. Alla fine del sermone, anche lei tira fuori gli spazzolini, vendendoli a prezzo maggiorato e accompagnandoli da volantini di una chiesa evangelica. La mia vicina di posto - che aveva gia' alzato la mano alla domanda retorica "avete fatto dispiacere a Dio?" - compra lo spazzolino con grande sollievo.
Il bus per Juigalpa, con mia grande sorpresa (e un po' di tristezza), non e' uno scuolabus, ma un normale pullman. Il livello di comfort, in compenso, non cambia in nulla: sedile con stecca metallica sapientemente posizionata a meta' schiena per poter meglio inserirsi tra la ventesima e la trentesima vertebra, caldo torrido e fermate ogni pisciata di cane per far salire o scendere passeggeri, i quali non si accontentano di essere vicini a casa, ma vogliono salire e scendere a non piu' di tre millimetri dalla loro porta di casa, il che genera frenate e accelerate continue che lavorano in sintonia con la stecca metallica sopra citata.
Mentre sto decidendo se farla finita oppure tentare di resistere, Juigalpa appare come un miraggio. Chiaramente sbaglio il posto in cui scendere e mi sciroppo una bella camminata con doppio zaino sulle spalle, prima di crollare di fronte al primo albergo che trovo. Con le energie residue faccio un giro per le tranquille strade coloniali della citta' che e' ferma a godere del fresco della sera. Dopo cena, mi sideo su una panchina del Parque Central, ad ascoltare la musica anni ottanta passata in filodiffusione come al supermercato: "we are the world...we are the children..."
To be continued.
Lascio Miraflor sull'ormai mitico scuolabus americano Bluebird che passa per i sentieri piu' impervi trasportando bidoni di latte e sacchi di verdura. Ad Esteli prendo un bus gemello diretto a Matagalpa dove nelle intenzioni iniziali dovevo fermarmi a dormire. Nella realta' finale, appena arrivato a Matagalpa mi viene un'inspiegabile voglia sfrenata di riprendere un bus (forse sono diventato dipendente dagli scossoni e le sgasate). Dopo rapida consulta con un paio di astanti, monto sul terzo bus gemello diretto a Managua, che mi lascia piu' morto che vivo a bordo strada in un posto che si chiama San Benito e che non e'altro che una strada con un paio di costruzioni al lato, la cui unica fortuna e' essere all'incrocio con la strada che continua per Juigalpa. Ad ogni fermata, un nugolo di venditori di qualsiasi cosa si assiepa attorno ai bus , per salire al volo e cercare di vendere pollo fritto (10 cordobas, 50 centesimo di dollaro), manghi (5), pomodori (10), banane fritte (5), patate (10), yucca (5), peperoni (prezzo non pervenuto), acqua (1), bibite (12) e qualsiasi altra cosa che i viaggiatori ormai storditi dal viaggio siano a disposti a comprare, dopo essersi gia' fatti abbindolare da agenti multimandatari che vendono spazzolini, vitamine, balsami emmollienti, caramelle al mentolo e funghicidi. Sul bus per Matagalpa, ho avuto diritto ad un pistolotto mistico di una buona mezz'ora da parte di una predicatrice-urlatrice che usa la parola "peccato" tre volte al minuto accompagnata da sguardi accusatori. Alla fine del sermone, anche lei tira fuori gli spazzolini, vendendoli a prezzo maggiorato e accompagnandoli da volantini di una chiesa evangelica. La mia vicina di posto - che aveva gia' alzato la mano alla domanda retorica "avete fatto dispiacere a Dio?" - compra lo spazzolino con grande sollievo.
Il bus per Juigalpa, con mia grande sorpresa (e un po' di tristezza), non e' uno scuolabus, ma un normale pullman. Il livello di comfort, in compenso, non cambia in nulla: sedile con stecca metallica sapientemente posizionata a meta' schiena per poter meglio inserirsi tra la ventesima e la trentesima vertebra, caldo torrido e fermate ogni pisciata di cane per far salire o scendere passeggeri, i quali non si accontentano di essere vicini a casa, ma vogliono salire e scendere a non piu' di tre millimetri dalla loro porta di casa, il che genera frenate e accelerate continue che lavorano in sintonia con la stecca metallica sopra citata.
Mentre sto decidendo se farla finita oppure tentare di resistere, Juigalpa appare come un miraggio. Chiaramente sbaglio il posto in cui scendere e mi sciroppo una bella camminata con doppio zaino sulle spalle, prima di crollare di fronte al primo albergo che trovo. Con le energie residue faccio un giro per le tranquille strade coloniali della citta' che e' ferma a godere del fresco della sera. Dopo cena, mi sideo su una panchina del Parque Central, ad ascoltare la musica anni ottanta passata in filodiffusione come al supermercato: "we are the world...we are the children..."
To be continued.
sabato 22 maggio 2010
Esteli e il Miraflor
La Galeria Heroes y Martires di Esteli, citta' del nord del Nicaragua, e' uno stanzone semibuio dedicato ai caduti della rivoluzione sandinista. Appesi ai muri, senza ordine apparente, ci sono foto di Che Guevara e Fidel castro, pagine di giornali d'epoca, fogli dattiloscritti che riportano la cronologia della guerra, ritratti su tela, oggetti, vestiti, armi e molte foto sbiadite in bianco e nero di ragazzi con sotto il nome e in alcuni casi una data. Una signora di una sessantina d'anni entra in silenzio e si ferma davanti ad una foto, la accarezza come si fa al cimitero, poi se ne va. Su uno dei fogli dattiloscritti si fa riferimento alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia Nicaragua v. USA (1986), che e' apparsa a piu' riprese durante i miei studi. Per me era imprtante perche' stabiliva - tra varie cose - la natura consuetudinaria dei principi contenuti nell'articolo 3 comune delle Convenzioni di Ginevra (detta in altri termini "ragazzi siate umani e non fate porcate"), qui invece e' una vittoria e una rivendicazione politica, anche se un po' ingiallita dal tempo.
Vicino ad Esteli c'e' Miraflor, una zona agricola che e' anche zona protetta. Attraverso i servizi della cooperativa di produttori trovo un posto per dormire (casetta di legno, letti distruggi-schiena, latrina nel cortile, secchio d'acqua gelida per lavarsi). Trovo anche una guida che -oltre a farmi vedere un fiume marrone e due cascate con poca acqua - mi parla dei "mojados", ovvero gli immigrati clandestini negli Stati Uniti, l'ex nemico tanto agognato. Dalla zona di Miraflor sono partiti in tanti in cerca di fortuna, molti vendendo o impegnando la terra per pagarsi il viaggio e sperare di trovare un lavoro in nero nell'edilizia, molti respinti alla frontiera e tornati indietro senza niente.
La sera, dopo cena, la signora che mi ospita si siede a chiaccherare. Parla degli uomini che sono partiti a lavorare e che non possono tornare. Non mi dice che non vede suo marito da cinque anni. In compenso mi parla di come la sua famiglia (padre salvadoregno e madre honduregna) sia arrivata in Nicaragua nel 1969, anno della "Guerra del Futbol" tra Honduras e San Salvador, ovvero il breve conflitto scoppiato in seguito ad una partita di qualificazione al mondiale finita male. Non potendo restare in Honduras a causa della nazionalita' del padre, hanno dovuto scegliere tra il Guatemala e il Nicaragua. Scegliendo il secondo hanno avuto diritto ad assistere, senza pagare il biglietto, a qualche incursione dei Contras negli anni '80.
El Gato Diaz
Vicino ad Esteli c'e' Miraflor, una zona agricola che e' anche zona protetta. Attraverso i servizi della cooperativa di produttori trovo un posto per dormire (casetta di legno, letti distruggi-schiena, latrina nel cortile, secchio d'acqua gelida per lavarsi). Trovo anche una guida che -oltre a farmi vedere un fiume marrone e due cascate con poca acqua - mi parla dei "mojados", ovvero gli immigrati clandestini negli Stati Uniti, l'ex nemico tanto agognato. Dalla zona di Miraflor sono partiti in tanti in cerca di fortuna, molti vendendo o impegnando la terra per pagarsi il viaggio e sperare di trovare un lavoro in nero nell'edilizia, molti respinti alla frontiera e tornati indietro senza niente.
La sera, dopo cena, la signora che mi ospita si siede a chiaccherare. Parla degli uomini che sono partiti a lavorare e che non possono tornare. Non mi dice che non vede suo marito da cinque anni. In compenso mi parla di come la sua famiglia (padre salvadoregno e madre honduregna) sia arrivata in Nicaragua nel 1969, anno della "Guerra del Futbol" tra Honduras e San Salvador, ovvero il breve conflitto scoppiato in seguito ad una partita di qualificazione al mondiale finita male. Non potendo restare in Honduras a causa della nazionalita' del padre, hanno dovuto scegliere tra il Guatemala e il Nicaragua. Scegliendo il secondo hanno avuto diritto ad assistere, senza pagare il biglietto, a qualche incursione dei Contras negli anni '80.
El Gato Diaz
giovedì 20 maggio 2010
Granada e dintorni
Granada, la perla coloniale del Nicaragua e' una citta' irritante. Nonostante i verdi e ombrosi cortili interni in cui gli abitanti sonnecchiano su sedie a donodolo, la presenza costante del vulcano Mombacho circondato da nuvole o del lago Cocibolca, c'e' qualcosa che stona nel quadro idilliaco di palazzi coloniali restaurati, della cattedrale dipinta di fresco o dei begli alberghi per l'alta borghesia della capitale. Troppa gente ti chiama "amigo" per strada - di giorno principalmente uomini, di notte donne - offrendo tutto tranne che amicizia ("tengo cocaina, muy buena, muy barata hermano"). Ai lati del Parque, la piazza centrale, dormono per terra sbandati e senza casa, mentre il mercato coperto li' vicino e' il piu' triste, scarno e tetro che abbia visto in Nicaragua. Granada sintetizza molte della contraddizioni del paese, spesso ignorate da turisti frettolosi o distratti.
Nei dintorni di Granada, serviti da decine di scuolabus americani, ci sono dei paesi carini e sonnacchiosi, quasi tutti tappezzati di scritte e cartelli inneggianti il sandinismo. C'e' San Juan del Oriente dove si producono terracotte, Caterina con i suoi vivai e il panorama sul cratere della laguna de Apoyo (dove sono diventato l'attrazione principale di 200 ragazzini in gita scolastica da Managua) e la cittadina di Masaya, nella cui piazza centrale - con circa 35 gradi all'ombra - ho sfidato la sorte mangiando un brodo di manzo con yucca e patate.
El gordo
Nei dintorni di Granada, serviti da decine di scuolabus americani, ci sono dei paesi carini e sonnacchiosi, quasi tutti tappezzati di scritte e cartelli inneggianti il sandinismo. C'e' San Juan del Oriente dove si producono terracotte, Caterina con i suoi vivai e il panorama sul cratere della laguna de Apoyo (dove sono diventato l'attrazione principale di 200 ragazzini in gita scolastica da Managua) e la cittadina di Masaya, nella cui piazza centrale - con circa 35 gradi all'ombra - ho sfidato la sorte mangiando un brodo di manzo con yucca e patate.
El gordo
martedì 18 maggio 2010
Verso Granada
Il ritorno dall'isola di Ometepe e' un susseguirsi di mezzi di trasporto. Si inizia con un minibus spenna-turisti (costa ben quattro volte il prezzo normale), per poi continuare su un ferry con cabina refrigerata e proiezione di video gruppi di locali specialisti di merengue (te amo, te adoro, mi amor, cariño, etc...), seguito da un taxi a tariffa normale (quindici minuti di strada, un dollaro), da un riscio' a pedali con conducente ansimante e infine l'ormai classico scuolabus americano strapieno tappezzato da scritte "no botar basura" (non gettare immondizia), completamente ignorate dai passeggeri che sembrano gioire al buttare dal finestrino bottiglie di plastica e sacchetti.
Sull'ultimo bus, la radio passa la radiocronaca della partita di baseball Rivas-Esteli. In mezzo alla descrizione della partita, il cronista inserisce della pubblicita' locale e trasmette gli auguri di compleanno degli ascoltatori. Il risultato finale e' un casino. Non si capisce se Ramirez sia il giocatore in prima base, o sia una farmacia vicino alla chiesa che fa prezzi scontati, o abbia appena compiuto 80 anni oppure le tre cose assieme. Per la storia, Estreli ha vinto 8 a 6 rendendo inutile un "imparable" a basi piene di un battitore non identificato.
Alla radiocronica fa seguito il programma musicale "Romantica: directo al corazon" con uno sproposito di musica melodica. L'Italia e' valorosamente rappresentata dal suo figlio prediletto Tiziano Ferro che biascica parole melense in uno spagnolo un po' troppo meccanico. Forse stufo di tanto romanticismo, l'autista decide di tagliare la testa al toro mettendo un CD di musica religiosa rock, pregevole nell'impianto ritmico e originale nei testi. La mia canzone preferita e' "Jesus Cristo es el autor de mi salvacion", sia per il messaggio profondo che per un assolo di chitarra da Guns'N Roses.
Nek
Sull'ultimo bus, la radio passa la radiocronaca della partita di baseball Rivas-Esteli. In mezzo alla descrizione della partita, il cronista inserisce della pubblicita' locale e trasmette gli auguri di compleanno degli ascoltatori. Il risultato finale e' un casino. Non si capisce se Ramirez sia il giocatore in prima base, o sia una farmacia vicino alla chiesa che fa prezzi scontati, o abbia appena compiuto 80 anni oppure le tre cose assieme. Per la storia, Estreli ha vinto 8 a 6 rendendo inutile un "imparable" a basi piene di un battitore non identificato.
Alla radiocronica fa seguito il programma musicale "Romantica: directo al corazon" con uno sproposito di musica melodica. L'Italia e' valorosamente rappresentata dal suo figlio prediletto Tiziano Ferro che biascica parole melense in uno spagnolo un po' troppo meccanico. Forse stufo di tanto romanticismo, l'autista decide di tagliare la testa al toro mettendo un CD di musica religiosa rock, pregevole nell'impianto ritmico e originale nei testi. La mia canzone preferita e' "Jesus Cristo es el autor de mi salvacion", sia per il messaggio profondo che per un assolo di chitarra da Guns'N Roses.
Nek
Isla de Ometepe
Manzoni prima di scrivere i Promessi Sposi deve essere passato per l'isola di Ometepe, dove monti sorgenti dall'acque formano un'isola nel mezzo del lago Cocibolga, il piu' grande dell'America Centrale.
A Ometepe mi sono sentito un privilegiato. Per la prima volta in una settimana sono riuscito a farmi una doccia calda e anche a vedere la semifinale del torneo di tennis di Madrid. Ma il vero privilegio e' stato cenare a base di maigret de canard (seche et au poivre) preparato dal Presidente del Tribunale del Commercio di Tarbes, Francia, alias Papi Michel, nonno della mia amica Marine che mi ha raggiunto in Nicaragua dal Costa Rica. Con se' ha portato altre leccornie francesi, come delle terrines de fois, una bottiglia di Bordeaux, della crema di marroni e la marmellata di albicocche di nonna Eloina, alias Mami Elo. Per non perdere l'abitudine, il giorno dopo ho mangiato pollo con riso, frijoles e banane fritte (non bisogna esagerare con i privilegi).
Il modo migliore per girare l'isola di Ometepe e' in moto. Quella che ho noleggiato era un 150cc, cinque marce, con freno anteriore puramente decorativo e quello posteriore che faceva funzione di "rallentatore" (evitava di spiaccicarsi contro le rocce vulcaniche a fine discesa ma per fermarsi bisognava fare una pianificazione di medio-lungo etermine). Ad Ometepe non c'e' bisogno di autovelox, perche' la strada e' cosi' disastrata che e' un miracolo se si riesce a mettere la terza: buche, sassi, monticelli di sabbia si alternano a brevissimi tratti di cemento in corrispondenza di piccoli ruscelli. Si passa per minuscoli villaggi, scuole, finche dove si coltivano banane e fagioli. Per strada ci sono delle mucche che sembra stiano passeggiando senza fretta e maiali di ogni taglia e colore. Da un lato della strada c'e' il vulcano coperto da foresta tropicale, dall'altro il lago. Il vulcano Madera e' inattivo. All'interno del cratere c'e' un piccolo lago pluviale e il sentiero per salire e' piuttosto semplice. Il vulcano Concepcion, invece, ogni tanto da' una fumata, qualche scossa e anche delle uscite di lava. L'ascesa al Concepcion e' faticosa, lunga, lenta e piena di imprevisti. Si inizia per un sentiero largo che attraversa campi coltivati, per poi diventare stretto e ripido ed entrare nella foresta dove le scimmie urlatrici e delle cicale scatenate danno il loro concerto mattutino. Si inizia poi a salire per un canale formato dalle colate laviche, arrampicandosi tra rocce e alberi. Gia' alle sei di mattina fa caldissimo e dopo na mezz'ora la maglietta e' completamente bagnata. Un'altra mezz'ora e il paesaggio scompare completamente, rimpiazzato da una nebbia fitta che ci accompagnera' per il resto dell'ascesa. Lavorando di fantasia si puo' immaginare al di la' della foresta il lago e poi la riva est e anche la costa caraibica. Nella realta' tutto e' bianco e verde. La discesa si fa su pietre bagnate da una pioggerella intermittente.
Arrivati alla strada principale ci si incammina verso l'albergo, passando a fianco di uno spiazzo sterrato avvolto in una nuvola di polvere da cui emergono guanti di cuoio, mazze da baseball e palle lanciate a tutta forza verso il catcher. A differenza delle grandi lighe, qui non si mastica tabacco, non si sputa per terra, i lanciatori non hanno tic isterici, non si fanno ammiccamenti, non si tira alla prima base, non ci si gratta i genitali. Come conseguenza il gioco procede velocissimo e in un minuto il primo battitore e' eliminato.
Salinger
A Ometepe mi sono sentito un privilegiato. Per la prima volta in una settimana sono riuscito a farmi una doccia calda e anche a vedere la semifinale del torneo di tennis di Madrid. Ma il vero privilegio e' stato cenare a base di maigret de canard (seche et au poivre) preparato dal Presidente del Tribunale del Commercio di Tarbes, Francia, alias Papi Michel, nonno della mia amica Marine che mi ha raggiunto in Nicaragua dal Costa Rica. Con se' ha portato altre leccornie francesi, come delle terrines de fois, una bottiglia di Bordeaux, della crema di marroni e la marmellata di albicocche di nonna Eloina, alias Mami Elo. Per non perdere l'abitudine, il giorno dopo ho mangiato pollo con riso, frijoles e banane fritte (non bisogna esagerare con i privilegi).
Il modo migliore per girare l'isola di Ometepe e' in moto. Quella che ho noleggiato era un 150cc, cinque marce, con freno anteriore puramente decorativo e quello posteriore che faceva funzione di "rallentatore" (evitava di spiaccicarsi contro le rocce vulcaniche a fine discesa ma per fermarsi bisognava fare una pianificazione di medio-lungo etermine). Ad Ometepe non c'e' bisogno di autovelox, perche' la strada e' cosi' disastrata che e' un miracolo se si riesce a mettere la terza: buche, sassi, monticelli di sabbia si alternano a brevissimi tratti di cemento in corrispondenza di piccoli ruscelli. Si passa per minuscoli villaggi, scuole, finche dove si coltivano banane e fagioli. Per strada ci sono delle mucche che sembra stiano passeggiando senza fretta e maiali di ogni taglia e colore. Da un lato della strada c'e' il vulcano coperto da foresta tropicale, dall'altro il lago. Il vulcano Madera e' inattivo. All'interno del cratere c'e' un piccolo lago pluviale e il sentiero per salire e' piuttosto semplice. Il vulcano Concepcion, invece, ogni tanto da' una fumata, qualche scossa e anche delle uscite di lava. L'ascesa al Concepcion e' faticosa, lunga, lenta e piena di imprevisti. Si inizia per un sentiero largo che attraversa campi coltivati, per poi diventare stretto e ripido ed entrare nella foresta dove le scimmie urlatrici e delle cicale scatenate danno il loro concerto mattutino. Si inizia poi a salire per un canale formato dalle colate laviche, arrampicandosi tra rocce e alberi. Gia' alle sei di mattina fa caldissimo e dopo na mezz'ora la maglietta e' completamente bagnata. Un'altra mezz'ora e il paesaggio scompare completamente, rimpiazzato da una nebbia fitta che ci accompagnera' per il resto dell'ascesa. Lavorando di fantasia si puo' immaginare al di la' della foresta il lago e poi la riva est e anche la costa caraibica. Nella realta' tutto e' bianco e verde. La discesa si fa su pietre bagnate da una pioggerella intermittente.
Arrivati alla strada principale ci si incammina verso l'albergo, passando a fianco di uno spiazzo sterrato avvolto in una nuvola di polvere da cui emergono guanti di cuoio, mazze da baseball e palle lanciate a tutta forza verso il catcher. A differenza delle grandi lighe, qui non si mastica tabacco, non si sputa per terra, i lanciatori non hanno tic isterici, non si fanno ammiccamenti, non si tira alla prima base, non ci si gratta i genitali. Come conseguenza il gioco procede velocissimo e in un minuto il primo battitore e' eliminato.
Salinger
domenica 16 maggio 2010
Leon
Da piu' di un mese sto combattendo una battaglia quasi quotidiana. Il mio nemico e' blu e grigio e ha varie tasche e zip. La sera estraggo vestiti, scarpe, shampoo, spazzolino e altre cose con una facilita' e naturalezza estrema. La mattina, rimettere tutto dentro diventa un processo sempre piu' lento e laborioso, anche se gli oggetti sono sempre gli stessi.
Alle otto lo zaino e' pronto ed esco in strada per un ultimo rapido giro di Leon, citta' che traspira fascino come poche altre. Sara' per gli edifici coloniali che non vengono toccati da decenni, oppure per le chiese disorne con gli uccellini che passano per le porte e le finiestre aperte, oppure per i murales iper-realistici che parlano della guerra civile e di massacri di studenti nel 1959 (Leon e' il feudo del movimento sandinista). Leon e' una bella donna che non sa di esserlo e non fa nulla per rendersi piu' attraente perche' in fondo non ne ha bisogno. I turisti in giro si contano a fine giornata sulle dita di una mano e la gente li tratta come persone e non come portafogli ambulanti. Passeggiando per il mercato coperto il mio look gringo non attira molti sguardi e la signora che vende iguane vive per la minestra della cena accenna un sorriso quando le chiedo se posso fotografarle.
Lascio Leon sull'ormai classico minubus, diretto a Managua. La strada attraversa le campagne, passa vicino ad un vulcano, poi ad un lago, infine si immerge nella citta', che in realta' e' meno caotica di quanto mi immaginassi. Sui ponti e sui muri appaiono frequenti scritte inneggianti la rivoluzione, oppure sandino, oppure il FSLN (Frente Sandinista de Liberacion Nacional), poi si alternano schizofrenicamente a concessionarie di automobili e a grandi catene americane (Kentuky Fried Chiken, Thanks God Is Friday, Mc Donald's). Ci sono un po' ovunque dei cartelli che informano dell'arrivo della ¨Brigada de Salud Cuba-Nicaragua¨ ovvero del programma medico gestito da medici cubani. Il nome Daniel appare spesso a fianco delle scritte rivoluzionarie, appare a fianco a quello del Che, oppure a quello di Sandino. Si tatta di Daniel Ortega, padre della rivoluzione del 1979 che - dopo un purgatorio di una quindicina d'anni - e' tornato al potere con un'agenda populista in stile Chavez. Ora parla di pace e amore e, dopo decenni di ateismo professato, ha riscoperto una vocazione cattolica che le malelingue giudicano tanto tardiva quanto improbabile.
Hasta la victoria ad ogni costo
Alle otto lo zaino e' pronto ed esco in strada per un ultimo rapido giro di Leon, citta' che traspira fascino come poche altre. Sara' per gli edifici coloniali che non vengono toccati da decenni, oppure per le chiese disorne con gli uccellini che passano per le porte e le finiestre aperte, oppure per i murales iper-realistici che parlano della guerra civile e di massacri di studenti nel 1959 (Leon e' il feudo del movimento sandinista). Leon e' una bella donna che non sa di esserlo e non fa nulla per rendersi piu' attraente perche' in fondo non ne ha bisogno. I turisti in giro si contano a fine giornata sulle dita di una mano e la gente li tratta come persone e non come portafogli ambulanti. Passeggiando per il mercato coperto il mio look gringo non attira molti sguardi e la signora che vende iguane vive per la minestra della cena accenna un sorriso quando le chiedo se posso fotografarle.
Lascio Leon sull'ormai classico minubus, diretto a Managua. La strada attraversa le campagne, passa vicino ad un vulcano, poi ad un lago, infine si immerge nella citta', che in realta' e' meno caotica di quanto mi immaginassi. Sui ponti e sui muri appaiono frequenti scritte inneggianti la rivoluzione, oppure sandino, oppure il FSLN (Frente Sandinista de Liberacion Nacional), poi si alternano schizofrenicamente a concessionarie di automobili e a grandi catene americane (Kentuky Fried Chiken, Thanks God Is Friday, Mc Donald's). Ci sono un po' ovunque dei cartelli che informano dell'arrivo della ¨Brigada de Salud Cuba-Nicaragua¨ ovvero del programma medico gestito da medici cubani. Il nome Daniel appare spesso a fianco delle scritte rivoluzionarie, appare a fianco a quello del Che, oppure a quello di Sandino. Si tatta di Daniel Ortega, padre della rivoluzione del 1979 che - dopo un purgatorio di una quindicina d'anni - e' tornato al potere con un'agenda populista in stile Chavez. Ora parla di pace e amore e, dopo decenni di ateismo professato, ha riscoperto una vocazione cattolica che le malelingue giudicano tanto tardiva quanto improbabile.
Hasta la victoria ad ogni costo
mercoledì 12 maggio 2010
Glossario di viaggio
Inizia qui un piccolo glossario di viaggio che contiene espressioni di uso frequente da parte dei "backpackers", gli uomini zainati.
Chickenbus: letteralmente "bus per polli", e' una parola usata dai turisti e da persone che lavorano nel turismo per distinguerli dagli shuttle piu' veloci e chiaramente costosi. Il nome deriva dal fatto che i passeggeri salgono con ogni tipo di mercanzia, tra cui - si mormora - anche le galline. Benche' non abbia visto l'ombra di un pollo, non posso smentirlo. Di solito ci si riferisce al "chickenbus" con epiteti di scherno o con malcelato senso di fierezza ("io sono un vero duro e viaggio in chickenbus anche se ci metto sette ore in piu' e un bambino mi vomita addosso").
Locals: sono gli abitanti del posto, utilizzatori abituali dei chickenbus, nonche' proprietari degli eventuali polli. Per i turisti piu' avventurosi i "locals" sono quelle figure folkloristiche che gestiscono i baracchini a bordo strada o che vendono frutta alle fermate del bus. Visto che parlano una lingua strana e che vestono in modo buffo, i contatti vanno mantenuti al minimo, tranne nel caso degli etno-entusiasti che vantano con chi capiti a tiro le infinite qualita' dei locals.
Off the beaten track: letteralmente "fuori dal sentiero battuto", e' l'espressione che usa il turista scafato che non sopporta neanche l'ombra di uno zaino o di un paio di sandali. Utilizzando la stessa guida omnipresente di tutti gli altri, il turista "off the beaten track" sceglie semplicemente delle pagine diverse e - una volta uscito dal sentiero - vi rientra inevitabilmente, volente o nolente, se non altro per farsi una doccia calda.
Media ora: unita' di tempo utilizzata in America Latina che indica periodi che vanno da una a dieci ore (i minuti qui hanno settecento secondi come minimo). Spesso usata per tranquillizzare i turisti o per totale incapacita' a misurare il tempo, la "media ora" e' un'assidua compagna di viaggio.
In Messico e' sostituita dall'espressione "ahorita" (proprio adesso) che fu usata dagli Aztechi per indicare il momento in cui avrebbero scacciato gli spagnoli.
Comedor: specie di ristorante frequentato da "locals" e turisti "off the beaten track". Non si distingue in nulla da qualsiasi altra casa. Spesso si mangia sul tavolo della famiglia e il menu' e' fisso dal 1812: uova strapazzate, fagioli e tortillas. Il pasto puo' essere accompagnato da te' al gusto di caffe' o di caffe' al gusto di te'. Nei comedor piu' avanzati e moderni esiste anche l'opzione bibita fresca.
Chickenbus: letteralmente "bus per polli", e' una parola usata dai turisti e da persone che lavorano nel turismo per distinguerli dagli shuttle piu' veloci e chiaramente costosi. Il nome deriva dal fatto che i passeggeri salgono con ogni tipo di mercanzia, tra cui - si mormora - anche le galline. Benche' non abbia visto l'ombra di un pollo, non posso smentirlo. Di solito ci si riferisce al "chickenbus" con epiteti di scherno o con malcelato senso di fierezza ("io sono un vero duro e viaggio in chickenbus anche se ci metto sette ore in piu' e un bambino mi vomita addosso").
Locals: sono gli abitanti del posto, utilizzatori abituali dei chickenbus, nonche' proprietari degli eventuali polli. Per i turisti piu' avventurosi i "locals" sono quelle figure folkloristiche che gestiscono i baracchini a bordo strada o che vendono frutta alle fermate del bus. Visto che parlano una lingua strana e che vestono in modo buffo, i contatti vanno mantenuti al minimo, tranne nel caso degli etno-entusiasti che vantano con chi capiti a tiro le infinite qualita' dei locals.
Off the beaten track: letteralmente "fuori dal sentiero battuto", e' l'espressione che usa il turista scafato che non sopporta neanche l'ombra di uno zaino o di un paio di sandali. Utilizzando la stessa guida omnipresente di tutti gli altri, il turista "off the beaten track" sceglie semplicemente delle pagine diverse e - una volta uscito dal sentiero - vi rientra inevitabilmente, volente o nolente, se non altro per farsi una doccia calda.
Media ora: unita' di tempo utilizzata in America Latina che indica periodi che vanno da una a dieci ore (i minuti qui hanno settecento secondi come minimo). Spesso usata per tranquillizzare i turisti o per totale incapacita' a misurare il tempo, la "media ora" e' un'assidua compagna di viaggio.
In Messico e' sostituita dall'espressione "ahorita" (proprio adesso) che fu usata dagli Aztechi per indicare il momento in cui avrebbero scacciato gli spagnoli.
Comedor: specie di ristorante frequentato da "locals" e turisti "off the beaten track". Non si distingue in nulla da qualsiasi altra casa. Spesso si mangia sul tavolo della famiglia e il menu' e' fisso dal 1812: uova strapazzate, fagioli e tortillas. Il pasto puo' essere accompagnato da te' al gusto di caffe' o di caffe' al gusto di te'. Nei comedor piu' avanzati e moderni esiste anche l'opzione bibita fresca.
martedì 11 maggio 2010
La Ceiba - Comayagua - Leon
Sveglia alle 6. IL bus per San Pedro Sula e' torrido gia' all'alba. Come colazione mangiamo dei saccottini ripieni di pollo che sembrano fritti in olio di mor}tore di camion. A San Pedro prendiamo un altro bus che e' stato parcheggiato in un altoforno per tutta la mattinata. Il caldo e le franate dell'autista hanno un effetto esilarante sulla mia compagna di viaggio Eveline che viene affetta da ridarola prorompente per le due ultime ore, senza che riesca a fare niente per farla smettere di ridere. Arriviamo a Comayagua, cittadina che viene di solito ignorata dai turisti, allo stremo delle forze. Il primo hotel che troviamo sembra un angolo di paradiso, con addirittura una vera e propria reception, il bagno in camera e la televisione, ma viene giudicato troppo costoso da Eveline, che invece approva la seconda scelta che ci costa solo sette dollari in due. In compenso la stanza non e' piu' grande di cinque metri quadrati, con due letti sfasciati messi a L, che lasciano un po' di spazio per un tavolino scrostato su cui ci sono due ventilatori dell'ottocento che funzionano a targhe alterne. La stanza non ha finestre e il bagno (meglio non descriverlo) e' in fondo al corridoio. L'albergo viene ribattezato all'istante 'Shithole' (buco di merda).
Dopo una rapida doccia che ci rida' un po' di motivazione, facciamo un giro per Comayagua approffittando degli ultimi minuti di luce. Personaggi bizzarri girano per le strade semi-deserte di questa domenica pomeriggio e decidiamo che a Comayagua la gente o e' pazza oppure gentile. Facciamo a gara a indovinare da lontano in quale categoria rientri il prossimo passante.
Per dovere di cronaca, bisogna dire che la cattedrale di Comayagua e' l'edificio coloniale piu' grande dell'Hondurasn e che la sua campana e' la piu' antica di tutta l'America e una delle piu' antiche al mondo. Fatti storici a parte, la piazza antistante la chiesa e' uno spettacolo di alberi e calma. La sera, una piccola banda suona melodie orecchiabili in un gazebo di legno.
Noi si va a letto con le galline per essere svegliati verso le cinque dagli spasmi di vomito di un ospite dello 'Shithole'. La sveglia definitiva e' alle 5.45, per prendere la corriera per Tegucigalpa, che e' un vecchio scuolabus americano giallo e nero che si riempie all'inverosimile per poi svuotarsi due ore dopo nel quartiere piu' malfamato di Tegucigalpa.
Parte della mattinata e' dedicata a rinnovare il visto in scadenza di Eveline. Per chi volesse avere un assaggio di burocrazia honduregna, consiglio un passaggio dall'ufficio immigrazione di TegucigalpaÑ alla normale lentezza burocratica si aggiunge l'estrema flemma locale, a parte una segretaria ipercinetica che pero' non ha il potere di mettere il fatidico timbro e ripete che bisogna aspettare solo cinque minuti. Nel resto della mattinata riusciamo a dare un'occhiata alla citta', di cui mi rimangono solo immagini sovrapposte di un McDonald's, bus sferraglianti, un'agenzia funebre con camera ardente aperta 24 ore su 24, un centro commerciali stile americano, venditori di frutta in strada, un Domino's Pizza, traffico e gente ferma alle fermate. A differenza di Guate, il centro di Tegucigalpa e' pieno di gente che passegia e chiacchiera. Un paio di belle chiese coloniali sono incastonate in modo stridente ma quasi armonico tra edifici cubii di cemento armato anni 70, la cui bruttezza senza appello riesca quasi gradevole dopo il primo impatto.
Dopo una rapida doccia che ci rida' un po' di motivazione, facciamo un giro per Comayagua approffittando degli ultimi minuti di luce. Personaggi bizzarri girano per le strade semi-deserte di questa domenica pomeriggio e decidiamo che a Comayagua la gente o e' pazza oppure gentile. Facciamo a gara a indovinare da lontano in quale categoria rientri il prossimo passante.
Per dovere di cronaca, bisogna dire che la cattedrale di Comayagua e' l'edificio coloniale piu' grande dell'Hondurasn e che la sua campana e' la piu' antica di tutta l'America e una delle piu' antiche al mondo. Fatti storici a parte, la piazza antistante la chiesa e' uno spettacolo di alberi e calma. La sera, una piccola banda suona melodie orecchiabili in un gazebo di legno.
Noi si va a letto con le galline per essere svegliati verso le cinque dagli spasmi di vomito di un ospite dello 'Shithole'. La sveglia definitiva e' alle 5.45, per prendere la corriera per Tegucigalpa, che e' un vecchio scuolabus americano giallo e nero che si riempie all'inverosimile per poi svuotarsi due ore dopo nel quartiere piu' malfamato di Tegucigalpa.
Parte della mattinata e' dedicata a rinnovare il visto in scadenza di Eveline. Per chi volesse avere un assaggio di burocrazia honduregna, consiglio un passaggio dall'ufficio immigrazione di TegucigalpaÑ alla normale lentezza burocratica si aggiunge l'estrema flemma locale, a parte una segretaria ipercinetica che pero' non ha il potere di mettere il fatidico timbro e ripete che bisogna aspettare solo cinque minuti. Nel resto della mattinata riusciamo a dare un'occhiata alla citta', di cui mi rimangono solo immagini sovrapposte di un McDonald's, bus sferraglianti, un'agenzia funebre con camera ardente aperta 24 ore su 24, un centro commerciali stile americano, venditori di frutta in strada, un Domino's Pizza, traffico e gente ferma alle fermate. A differenza di Guate, il centro di Tegucigalpa e' pieno di gente che passegia e chiacchiera. Un paio di belle chiese coloniali sono incastonate in modo stridente ma quasi armonico tra edifici cubii di cemento armato anni 70, la cui bruttezza senza appello riesca quasi gradevole dopo il primo impatto.
L'elezione di Miss La Ceiba
La piazza centrale di La Ceiba e' addormentata come il resto della citta', ma vicino alla chiesa c'e' gia' un palco addobbato con delle grandi maschere colorate. Verso le sette di sera salgono sul palco due presentatori che fanno passare, uno dopo l'altro senza una logica apparente, ballerini e cantanti locali, tutti stonati come delle campane. Si inizia con un'imitazione di Micheal Jackson, per continuare con un duetto di musica ranchera tra due donne che si contendono lo stesso uomo. Viene poi il turno del rapper e del gruppo reggatton: dei ragazzotti con dei berretti da baseball dicono in continuazione "yo yo" e urlano parole incomprensibili su una base che contiene gia' la delle voci. La parte informale della serata finisce quando il Pippo Baudo e la Raffaella Carra' di La Ceiba fanno la loro entrata facendo una lista della spesa dettagliatissima di tutti gli sponsor e i patrocinatori della fiera di San Isidro, altrimenti conosciuta come il Carneval de La Ceiba. Il presentatore uomo, in giacca e cravatta nonostante il caldo, riesce ad addormentare tutti con la sua voce impostata. La gente si sveglia solo quando un brusio di fondo annuncia l'arrivo di una bambina che indossa un abito blu da principessa delle fiabe, con una coroncina di cristalli in testa. Pippo Baudo la presenta come la "Reina Infantil 2009", che e' seguita dalla "Reina 2009", ovvero Miss La Ceiba dell'anno scorso. L'eccitazione serpeggia quando iniziano a sfilare le concorrenti di quest'anno: prima le bambine tra i 6 e gli 8 anni, poi le ragazze. Ognuna si ferma davanti a una selva di telecamere delle televisioni locali, per poi camminare sul tappeto rosso salutando la folla. La regina 2010 e' addirittura accompagnata da otto ufficiali dell'aeronautica in uniforme, che le tengono lo strascico.
Entrata la Miss, e' il momento dei discorsi pallosissimi, di cui il premio principale e' vinto dal sindaco che Pippo Baudo definisce "uomo del fare vicino ai poveri". Il suo discortso riesce incredibilmente a conciliare la coerenza, la struttura e il rispetto delle regole grammaticali di Di Pietro, con la fantasia di Casini. Il tutto culmina inesorabilmente con l'esaltazione dei valori della famiglia.
E' poi il turno della Miss, definita dal presentatore "la nostra sovrana", che prende il microfono poco prima che una salva di fuochi d'artificio sparati da dietro l'angolo faccia apparire la piazza di La Ceiba come la Zona Verde di Baghdad. Il frastuono copre quasi interamente il discorso della Miss, di cui riesco solo a carprire i ringraziamenti, nell'ordine: all'ufficio per la promozione del turismo, alle autorita' civili, alle autorita' militari, a Dio, alla sua famiglia e alla sua estetista (!).
Si apre poi ufficialmente la fiera sul lungomare tra baracchini che vendono cibo e palchi che trasmettono musica dal vivo o registrata senza soluzione di continuita'. I due metri di gambe di Eveline, l'olandese che mi accompagna - che indossa un mini-pantaloncino da "Cugina Daisy" di Hazard con scarpe col tacco - hanno un effetto devastante sulla popolazione maschile locale a causa di una reazione chimica immediata tra il livello di testosteronoe nell'aria e i fiumi di birra che scorrono dal pomeriggio. Per evitare sommosse, decidiamo di rinunciare al bagno di folla e andiamo a ballare in una discoteca del quartiere notturno di La Ceiba, il piu' famoso dell'Honduras secondo la guida. Si balla fino alle tre di mattina tra la media borghesia honduregna tra musica da discoteca latina e l'immancabile raggeton.
Salsero
Entrata la Miss, e' il momento dei discorsi pallosissimi, di cui il premio principale e' vinto dal sindaco che Pippo Baudo definisce "uomo del fare vicino ai poveri". Il suo discortso riesce incredibilmente a conciliare la coerenza, la struttura e il rispetto delle regole grammaticali di Di Pietro, con la fantasia di Casini. Il tutto culmina inesorabilmente con l'esaltazione dei valori della famiglia.
E' poi il turno della Miss, definita dal presentatore "la nostra sovrana", che prende il microfono poco prima che una salva di fuochi d'artificio sparati da dietro l'angolo faccia apparire la piazza di La Ceiba come la Zona Verde di Baghdad. Il frastuono copre quasi interamente il discorso della Miss, di cui riesco solo a carprire i ringraziamenti, nell'ordine: all'ufficio per la promozione del turismo, alle autorita' civili, alle autorita' militari, a Dio, alla sua famiglia e alla sua estetista (!).
Si apre poi ufficialmente la fiera sul lungomare tra baracchini che vendono cibo e palchi che trasmettono musica dal vivo o registrata senza soluzione di continuita'. I due metri di gambe di Eveline, l'olandese che mi accompagna - che indossa un mini-pantaloncino da "Cugina Daisy" di Hazard con scarpe col tacco - hanno un effetto devastante sulla popolazione maschile locale a causa di una reazione chimica immediata tra il livello di testosteronoe nell'aria e i fiumi di birra che scorrono dal pomeriggio. Per evitare sommosse, decidiamo di rinunciare al bagno di folla e andiamo a ballare in una discoteca del quartiere notturno di La Ceiba, il piu' famoso dell'Honduras secondo la guida. Si balla fino alle tre di mattina tra la media borghesia honduregna tra musica da discoteca latina e l'immancabile raggeton.
Salsero
sabato 8 maggio 2010
Rio Cangrejal
Alle sei di mattina mi ritrovo sul molo di Utila con la faccia di un agnello mandato al macello in previsione del viaggio di ritorno. Contro la paura mia e di tutti gli altri passeggeri, il mare e' calmo e nessuno irrora i sacchetti di nylon con la colazione appena mangiata.
Arrivato sulla terra ferma prendo un taxi assieme a tre altri ragazzi, con l'idea di andare alla stazione dei bus e poi muovermi verso San Pedro Sula e avvicinarmi poi al Nicaragua. Parlando con una ragazza olandese che vuole andare a fare rafting nel Rio Cangrejal, mi dico che non ho voglia di farmi sei ore di bus. Scendo con lei presso una pensione che organizza escursioni verso il fiume e dieci minuti dopo ci ritroviamo sballottati in una scassatissima macchina 4x4 senza vetri che non supera i 30 chilometri l'ora e alza nuvoloni di polvere dietro di se'. Dopo dieci minuti ci lasciamo dietro la rumorosa e polverosa La Ceiba ed entriamo in una valle verdissima. Ci fermiamo nel Jungle Lodge, una struttura in legno che da' sulla vallata percosa dal torrente Cangrejal: qualche tavolo e qualche sedia, una stanza con dei letti e una ragazzina svedesi con capelli rasta fino al culo (sette anni di pazienza ci spiega) che ci accoglie.
La ragazza con cui sono arrivato e' invece olandese, si chiama Eveline, alias Chiquin, ha 22 anni, studia arte ed e' in giro da tre mesi per l'America Centrale. Diventiamo all'istante dei grandi esperti di rafting, sotto la guida di Darwin, il nostro nuovo guru, che ci addobba come degli alberi di Natale: casco in testa, giubbotto salvagente e remo. Impariamo ad obbedire come degli automi ai comandi "paddle" (remare in avanti), "back paddle" (remare indietro), "right back" (io spingo in avanti e lei indietro) e "left back" (il contrario). In breve ci ritroviamo a scendere per il torrente completamente bagnati e sballottato contro le rocce. Alla prima ripida ce la facciamo sotto di fifa, mentre verso la fine ci sembra una roba da principianti anche la ripida piu' difficile (categoria 4 per chi ci capisce qualcosa).
Il pomeriggio, dopo esserci asciugati, decidiamo di fare una camminata di un paio d'ore verso una cascata nel mezzo della foresta, attraversando il rio su un ponte sospeso gentilemente costruito da UsAid, l'agenzia di cooperazione del governo americano. Alla fine del giro la mia camicia sara' madida come se l'avessi immersa in un secchio d'acqua. Sulla strada verso il lodge, la mia compagna di avvenbture Chiquin mi spiega che la favola di Cappuccetto Rosso - su cui ha scritto una ricerca - e' molto diversa da paese in paese e ha avuto molte evoluzioni nel corso del tempo. In alcune versioni Cappuccetto Rosso si tromba il lupo che le da' da mangiare pezzi della nonna. Secondo la sua teoria, le differenti varianti della storia sono indicative delle specificita´ della societa' in cui la versione viene sviluppata. Non andro' mai piu' da solo nella foresta.
La mattina dopo e' dedicata al cazzeggio: una nuotata nel rio, qualche partita a carte ad un gioco che si chiama "shitface" (faccia di merda) in cui mi scopro improvvisamente un genio (sara' un caso?). Ci muoviamo verso La Ceiba, dove questa sera dovrebbe iniziare la festa piu' importante dell'anno, una specie di carnevale che dovrebbe culminare il 15 di maggio. Verso le sette di pomeriggio ci sara' l'incoronazione della regina nella piazza centrale, ma per il momento in strada c'e' solo molta gente che fa acquisti alla solita velocita' rallentata di ogni buon honduregno. Mi sa che aspetteremo la regina giocando a carte.
Facciadimerda
Arrivato sulla terra ferma prendo un taxi assieme a tre altri ragazzi, con l'idea di andare alla stazione dei bus e poi muovermi verso San Pedro Sula e avvicinarmi poi al Nicaragua. Parlando con una ragazza olandese che vuole andare a fare rafting nel Rio Cangrejal, mi dico che non ho voglia di farmi sei ore di bus. Scendo con lei presso una pensione che organizza escursioni verso il fiume e dieci minuti dopo ci ritroviamo sballottati in una scassatissima macchina 4x4 senza vetri che non supera i 30 chilometri l'ora e alza nuvoloni di polvere dietro di se'. Dopo dieci minuti ci lasciamo dietro la rumorosa e polverosa La Ceiba ed entriamo in una valle verdissima. Ci fermiamo nel Jungle Lodge, una struttura in legno che da' sulla vallata percosa dal torrente Cangrejal: qualche tavolo e qualche sedia, una stanza con dei letti e una ragazzina svedesi con capelli rasta fino al culo (sette anni di pazienza ci spiega) che ci accoglie.
La ragazza con cui sono arrivato e' invece olandese, si chiama Eveline, alias Chiquin, ha 22 anni, studia arte ed e' in giro da tre mesi per l'America Centrale. Diventiamo all'istante dei grandi esperti di rafting, sotto la guida di Darwin, il nostro nuovo guru, che ci addobba come degli alberi di Natale: casco in testa, giubbotto salvagente e remo. Impariamo ad obbedire come degli automi ai comandi "paddle" (remare in avanti), "back paddle" (remare indietro), "right back" (io spingo in avanti e lei indietro) e "left back" (il contrario). In breve ci ritroviamo a scendere per il torrente completamente bagnati e sballottato contro le rocce. Alla prima ripida ce la facciamo sotto di fifa, mentre verso la fine ci sembra una roba da principianti anche la ripida piu' difficile (categoria 4 per chi ci capisce qualcosa).
Il pomeriggio, dopo esserci asciugati, decidiamo di fare una camminata di un paio d'ore verso una cascata nel mezzo della foresta, attraversando il rio su un ponte sospeso gentilemente costruito da UsAid, l'agenzia di cooperazione del governo americano. Alla fine del giro la mia camicia sara' madida come se l'avessi immersa in un secchio d'acqua. Sulla strada verso il lodge, la mia compagna di avvenbture Chiquin mi spiega che la favola di Cappuccetto Rosso - su cui ha scritto una ricerca - e' molto diversa da paese in paese e ha avuto molte evoluzioni nel corso del tempo. In alcune versioni Cappuccetto Rosso si tromba il lupo che le da' da mangiare pezzi della nonna. Secondo la sua teoria, le differenti varianti della storia sono indicative delle specificita´ della societa' in cui la versione viene sviluppata. Non andro' mai piu' da solo nella foresta.
La mattina dopo e' dedicata al cazzeggio: una nuotata nel rio, qualche partita a carte ad un gioco che si chiama "shitface" (faccia di merda) in cui mi scopro improvvisamente un genio (sara' un caso?). Ci muoviamo verso La Ceiba, dove questa sera dovrebbe iniziare la festa piu' importante dell'anno, una specie di carnevale che dovrebbe culminare il 15 di maggio. Verso le sette di pomeriggio ci sara' l'incoronazione della regina nella piazza centrale, ma per il momento in strada c'e' solo molta gente che fa acquisti alla solita velocita' rallentata di ogni buon honduregno. Mi sa che aspetteremo la regina giocando a carte.
Facciadimerda
giovedì 6 maggio 2010
Cinema Utila
Dopo il cinema Iluzjion di Varsiavia e la Cineteque di Gerusalemme, il cinema Utila e' il mio preferito (il cinema Edera e' in una categoria a parte). La sala e' al primo piano di una casa di legno, con poltrone di legno costruite artigianalmente (con tanto di buco per il bicchiere) e coperte da enormi cuscini a fiori. Al soffitto girano dei ventilatori. C'e' anche una specie di aria condizionata, ma piu' simbolica che tangibile. In sala c'erano cinque spettatori, compreso il proprietario del cinema, che era anche l'unico a ridere durante la proiezione della commedia "Crazy Outside", di cui non salverei niente. Alle nove e mezza ero a letto completamente distrutto da una giornata di snorkeling con tanto di mal di mare (sia sulla barca che in acqua).
La giornata di oggi e' stata invece dedicata all'esplorazione della laguna di mangrovie, assieme a Zoe, una ragazza inglese che di lavoro ha fatto la baby sitter per una famiglia straricca inglese. Siamo arrivati in kayak fino alla spiaggia nord dell'isola. Nessuno in giro a parte una coppia di americani anche loro in kayak.
Domani mi aspetta la traversata in ferry con lo stomaco al posto dei piedi.
Marinaio di terra
La giornata di oggi e' stata invece dedicata all'esplorazione della laguna di mangrovie, assieme a Zoe, una ragazza inglese che di lavoro ha fatto la baby sitter per una famiglia straricca inglese. Siamo arrivati in kayak fino alla spiaggia nord dell'isola. Nessuno in giro a parte una coppia di americani anche loro in kayak.
Domani mi aspetta la traversata in ferry con lo stomaco al posto dei piedi.
Marinaio di terra
mercoledì 5 maggio 2010
L'isola dei non famosi
A pochi chilometri dal posto in cui Aldo Busi, Vladimir Luxuria, Alessandro Cecchi Paone ed il resto del sottobosco televisivo che tenta - con fortune alterne - di rinvigorire la propria esposizione mediatica, c'e' l'isola dei non famosi. Ad Utila potrebbe reincarnarsi Michael Jackson in persona uscendo dalle acque come Gesu' Cristo, accompagnato da John Lennon e Ghandi che non gliene fregherebbe niente a nessuno (forse con Bob Marley le cose andrebbero diversamente).
Con la mia bici noleggiata mi sono lanciato alla scoperta dell'isola, cosa che e' durata poco visto che l'isola e' piccola e soprattutto non ha strade. Ma per vedere veramente le meraviglie di questo posto ci vuole una barca, pinne e occhiali, per immergersi nel sottomondo marino, dove i pesci giocano a rincorrersi tra i coralli. Ci sono pesci a strisce verticali, altri a strisce orizzontali. Quelli piu' grandi con quelli piu' piccoli che fanno da pulitori, altri che se ne vanno solitari, mentre branchi si muovono a volte lenti, a volte veloci, senza un disegno apparente. Ci sono quelli con un punto nero sulla coda che sembra un occhio, quelli blu elettrico o con le pinne gialle. C'e' il pesce trombetta, lungo e affusolato che cerca cibo in mezzo ai coralli, senza pinne che non si capisce come faccia a nuotare. Ci sono pesci con facce da umani, altri che sembrano preistorici, altri lunghi e affusolati. I coralli fanno da casa e rifugio, con forme che vanno dal cactus, all'albero spinoso, alla felce, al ventaglio, alla palla medica, al fungo. Ogni tanto si vedono delle bollicine salire e uno strano animale palmato apparire con una grossa bombola d'ossigeno sulla schiena. Si chiama "diver" ed e' una specie antropoligica a se' stante: passa settimane o mesi su isole caraibiche a fare brevetti di immersione, senza altro scopo apparente. Vagamente rallentato nei movimenti, sia dentro che fuori dall'acqua, il "diver" parla poco. Alcuni soggetti sono ornati da tatuaggi multiformi e multicolori, altri da orecchini che dilatano le orecchie. Alcuni parlano inglese, altri solo spagnolo, come il gruppo con cui sono andato a cena ieri sera. Gli spagnoli escono tra di loro perche' conoscono solo tre parole di inglese che di solito gli altri non capiscono. Con loro c'era anche un italiano, con cane al seguito che sta viaggiando da tre anni (ma tu che lavoro fai? faccio cose, vedo gente...).
La vita notturna nell'isola dei non famosi inizia in uno dei piccoli ristoranti al lato della strada principale. Bandalu e' un posto con una specie di terrazza di legno che finisce sul mare e puoi mangiare mentre ti passano dei pesci sotto i piedi. Se sei fortunato puoi anche vedere la timida ma feroce murena, terrore di tutti i mari. Non e' chiaro se la murena esista per davvero oppure sia un mito trasmesso da generazioni di avventori che devono trovare il modo di aspettare l'ora e mezzo di rito prima che arrivi il cibo ordinato.
Dopo mangiato si va al TreeTanic, un bar costruito in cima ad un albero e decorato con oggetti di vetro, con uno stile che dal kitsch sfocia nell'originale. I coctails costano poco, in compenso non sono un gran che. Si raccontano storie di "divers" e di turismo. C'e' l'americano logorroico, il neozelandese silenzioso, la biondona olandese innamorata del barista, l'israeliano rasta.
Ritornando a casa, per la strada semi-deserta, si sente leggero lo sciabordio del mare.
Venerdi'
Con la mia bici noleggiata mi sono lanciato alla scoperta dell'isola, cosa che e' durata poco visto che l'isola e' piccola e soprattutto non ha strade. Ma per vedere veramente le meraviglie di questo posto ci vuole una barca, pinne e occhiali, per immergersi nel sottomondo marino, dove i pesci giocano a rincorrersi tra i coralli. Ci sono pesci a strisce verticali, altri a strisce orizzontali. Quelli piu' grandi con quelli piu' piccoli che fanno da pulitori, altri che se ne vanno solitari, mentre branchi si muovono a volte lenti, a volte veloci, senza un disegno apparente. Ci sono quelli con un punto nero sulla coda che sembra un occhio, quelli blu elettrico o con le pinne gialle. C'e' il pesce trombetta, lungo e affusolato che cerca cibo in mezzo ai coralli, senza pinne che non si capisce come faccia a nuotare. Ci sono pesci con facce da umani, altri che sembrano preistorici, altri lunghi e affusolati. I coralli fanno da casa e rifugio, con forme che vanno dal cactus, all'albero spinoso, alla felce, al ventaglio, alla palla medica, al fungo. Ogni tanto si vedono delle bollicine salire e uno strano animale palmato apparire con una grossa bombola d'ossigeno sulla schiena. Si chiama "diver" ed e' una specie antropoligica a se' stante: passa settimane o mesi su isole caraibiche a fare brevetti di immersione, senza altro scopo apparente. Vagamente rallentato nei movimenti, sia dentro che fuori dall'acqua, il "diver" parla poco. Alcuni soggetti sono ornati da tatuaggi multiformi e multicolori, altri da orecchini che dilatano le orecchie. Alcuni parlano inglese, altri solo spagnolo, come il gruppo con cui sono andato a cena ieri sera. Gli spagnoli escono tra di loro perche' conoscono solo tre parole di inglese che di solito gli altri non capiscono. Con loro c'era anche un italiano, con cane al seguito che sta viaggiando da tre anni (ma tu che lavoro fai? faccio cose, vedo gente...).
La vita notturna nell'isola dei non famosi inizia in uno dei piccoli ristoranti al lato della strada principale. Bandalu e' un posto con una specie di terrazza di legno che finisce sul mare e puoi mangiare mentre ti passano dei pesci sotto i piedi. Se sei fortunato puoi anche vedere la timida ma feroce murena, terrore di tutti i mari. Non e' chiaro se la murena esista per davvero oppure sia un mito trasmesso da generazioni di avventori che devono trovare il modo di aspettare l'ora e mezzo di rito prima che arrivi il cibo ordinato.
Dopo mangiato si va al TreeTanic, un bar costruito in cima ad un albero e decorato con oggetti di vetro, con uno stile che dal kitsch sfocia nell'originale. I coctails costano poco, in compenso non sono un gran che. Si raccontano storie di "divers" e di turismo. C'e' l'americano logorroico, il neozelandese silenzioso, la biondona olandese innamorata del barista, l'israeliano rasta.
Ritornando a casa, per la strada semi-deserta, si sente leggero lo sciabordio del mare.
Venerdi'
domenica 2 maggio 2010
Verso Utila
Secondo l'orario, due bus dovevano partire da Copan per San Pedro Sula, uno alle sette e uno alle sei. Il bus parte invece alle sei e mezza ed arriva quattro ore dopo in una stazione dei bus strapiena di gente. E' il primo maggio e la gente si muove per fare la gita fuori porta o andare a trovare la famiglia. Per riuscire ad arrivare in tempo a La ceiba e prendere la barca per l'isola di Utila, decido di prendere un bus di extra-lusso, al triplo del prezzo normale. Fuori ci sono 35 gradi e nel bus mi danno una copertina di lana per proteggermi dall'aria condizionata. Non basterebbe abbassarla un po'? Sul video passano immagini di cantanti degli anni ottanta di cui i migliori sono i Village People che cantano YMCA vestiti da poliziotto, indiano, operaio e cow boy. Poi inizia un film su un uomo che diventa invisibile e anche cattivissimo e vuole uccidere tutti, ma viene ucciso lui stesso dai due superstiti, uno dei quali ha uno squarcio nella pancia.
All'imbarcadero per Utila aspettano una cinquantina di persone in ciabatte e con zaino al seguito. La barca e' un po' scrostata ed inizia subito a muoversi paurosamente in tutti i sensi, con le onde che spazzano la prua. L'australiana seduta a fianco a me mi tranquillizza dicendomi che bisogna iniziare ad avere paura solo quando il capitano inizia ad innervosirsi. Il problema e' che il capitano ha la faccia di uno che non si e' mai incazzato in vita sua.
Dopo poco tempo la gente inizia ad avere mal di mare, ovviamente me incluso, nonostante il rimedio ayurvedico comprato un paio d'anni fa (due braccialetti che mettono pressione a livello del polso). Un signore addetto al vomito inizia a distribuire sacchetti un po' a tutti. L'amica dell'australiana inizia a canticchiare una canzone e a masticare una caramella. Sembra che il metodo funzioni e ci ritroviamo a cantare "I will survive" ad alta voce. La barca si ferma due secondi prima che il sacchetto del vomito mi sia necessario. Quando metto i piedi a terra tutto gira vorticosamente.
Utila e' un'isola caraibica molto diversa dal resto dell'Honduras. La popolazione parla un inglese biascicato incomprensibile, e' fanatica di baseball e non ha mai saputo cosa sia lo stress. Tutto funziona al rallentatore e anche se non funziona non ci sono grossi problemi. La signora che mi da' la stanza sembra il prototipo dell'abitante di Utila, la donna senza fretta. Scopro che sua figlia vive in Italia, a Bassano del Grappa. Spero riesca a vivere allo stesso modo nel nordest produttivo.
Slow motion
All'imbarcadero per Utila aspettano una cinquantina di persone in ciabatte e con zaino al seguito. La barca e' un po' scrostata ed inizia subito a muoversi paurosamente in tutti i sensi, con le onde che spazzano la prua. L'australiana seduta a fianco a me mi tranquillizza dicendomi che bisogna iniziare ad avere paura solo quando il capitano inizia ad innervosirsi. Il problema e' che il capitano ha la faccia di uno che non si e' mai incazzato in vita sua.
Dopo poco tempo la gente inizia ad avere mal di mare, ovviamente me incluso, nonostante il rimedio ayurvedico comprato un paio d'anni fa (due braccialetti che mettono pressione a livello del polso). Un signore addetto al vomito inizia a distribuire sacchetti un po' a tutti. L'amica dell'australiana inizia a canticchiare una canzone e a masticare una caramella. Sembra che il metodo funzioni e ci ritroviamo a cantare "I will survive" ad alta voce. La barca si ferma due secondi prima che il sacchetto del vomito mi sia necessario. Quando metto i piedi a terra tutto gira vorticosamente.
Utila e' un'isola caraibica molto diversa dal resto dell'Honduras. La popolazione parla un inglese biascicato incomprensibile, e' fanatica di baseball e non ha mai saputo cosa sia lo stress. Tutto funziona al rallentatore e anche se non funziona non ci sono grossi problemi. La signora che mi da' la stanza sembra il prototipo dell'abitante di Utila, la donna senza fretta. Scopro che sua figlia vive in Italia, a Bassano del Grappa. Spero riesca a vivere allo stesso modo nel nordest produttivo.
Slow motion
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