domenica 6 giugno 2010

Cerro Chirripo'

L'uomo è un animale irrequieto. Appena identifica un limite cerca il modo di superarlo. Ogni ostacolo vinto sembra un gradino verso la libertà, la vittoria finale.
Non posso passare per il Costa Rica senza salire sulla vetta piu' alta, il vulcano Chirripo', a 3819 metri. La salita dal paesino di San Gerardo - composto da un campo da calcio, una chiesa, un negozio, quattro o cinque posadas e altrettante case - ha un dislivello totale di 2500 m.
Si inizia alle 5 di mattina, con il sentiero - vagamente illuminato da un chiarore mattutino - che sale rapidissimo e scivoloso nell'omnipresente foresta tropicale. Dopo mezz'ora sono già stanco e mi siedo a guardare la vallata percorsa da un torrente vorticoso e piu' lontano ancora le luci della cittadina di San Isidro. Passano senza fermarsi due terzetti di camminatori. Li ritrovero' piu' avanti, anche loro stremati dall'alzataccia, dal sentiero ripido e dall'umidità. Poco a poco mi riprendo e faccio i primi 1000 m di dislivello in poco piu' di due ore. Il sentiero si inerpica nella foresta che diventa ancora piu' densa e umida, tanto che molte delle piante non hanno bisogno di radici ma si nutrono direttamente dall'aria. Avvolto nella nebbia non capisco se sta piovendo oppure le goccie sono la condensa dell'umidità.
Dopo 1500 m di dislivllo inizio a sentire i primi sintomi di stanchezza. Lo zaino pesa sempre di piu'. Ad un certo punto trovo un cartello che dice:"Il passo si fa lento, le energie si trasformano in fatica, rimane solo la forza di volontà". Non poteva esserci frase piu' appropriata.
Gli alberi si fanno piu' radi, comincia a fare freddo, la pioggerella diventa pioggia. Tiro fuori il mio poncho giallo e arranco verso il rifugio che è solo a 1 Km di distanza, il chilometro piu' lungo e faticoso della mia vita. Sulla porta del rifugio incontro un tipo barbuto in tenuta "runner" che è venuto su correndo. Intirizzito, con le dita congelate, mangio qualcosa tentando di scaldarmi. Guardo l'orologio: sono le 11 di mattina, ci ho messo 6 ore. Il record della corsa che si organizza ogni anno è di 3 ore e 10 minuti per gli uomini e 3 ore e 50 minuti per le donne. I facchini che lavorano per i turisti ci mettono 4 ore con 14 chili sulle spalle.
Il resto della giornata si sta tutti in rifugio perchè piove in continuazione: giochi di carte e ciaccole. Alle 5 e mezza si cena, nel mio caso una minestra fatta con zuppa di funghi Knorr, sottomarca di pasta e liofilizzato di purè: una vera schifezza, ma abbondante e calda. Si va a letto alle 7.
La sveglia suona alle 2 e 45. Buio pesto, non c'è elettricità. Esco dal sacco pelo ed entro nei pantaloni e giacca a vento. Alle 3 sto camminando nel buio del sentiero fangoso con l'aiuto della mia provvidenziale lampada frontale. La luna appare e scompare da dietro le nuvole. Benchè il dislivello totale dal rifugio alla cima sia di soli 400 m, il percorso è lungo a causa di continui saliscendi. L'ultima rampa è micidiale: praticamente verticale, rocciosa e scivolosa. In compenso in cima, senza nessuno attorno, ci si sente Dio: montagne a destra, montagne a sinistra, laghetti in basso, il sole che farà capolino tra poco (sono le 4 e 40 del mattino). Arrivano i pochi altri desperados che hanno deciso di vedere l'alba come me: 3 americani e 2 canadesi.
Via via che il sole si alza, i neri profili delle montagne diventano verdi (quelle vicine) e blu (quelle lontane). Verso est si staglia la costa caraibica, mentre verso nord si vede la fumata bianca del vulcano Arenal. Il Pacifico è invece avvolto dalle nuvole che stanno scaricando acqua da due giorni. Rimaniamo tutti ipnotizzati dallo spettacolo che abbiamo di fronte, uno dei piu' belli che abbia mai visto, con in aggiunta la soddisfazione per la difficoltá dell'ascesa.
Piu' che la salita, ora temo la discesa di 2500 m che faccio in tre tappe: la prima verso il rifugio, durante la quale incontro i ritardatari che salgono sulla cima senza sapere quello che si sono persi. La seconda a 1000 m piu' in basso, dove mangio un ottimo panino al tonno con l'ultima residua carota.
Quando mancano un paio di chilometri alla fine, con le gambe ormai traballanti, i piedi doloranti nonostante il doppio calzino e dopo aver lottato per due ore con delle insopportabili mosche, inizia a piovere. Il poncho mi ripara sommariamente dalle gocce, mentre nulla puo' contro il fango, che in realtà è vera e propria argilla.
In mezzo alla foresta, completamente circondato dalla nebbia e in un silenzio totale, si aggira un fantasma giallo che sta sciando senza sci e con un grosso zaino sulle spalle.
Quando vedo il cartello che indica la fine del sentiero mi sento quasi a casa.
Reinhold Messner

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