Con alle spalle l’imponente minareto della moschea Hassan II, decine di coppie di varie età guardano le onde dell’oceano arricciarsi una dopo l’altra sugli scogli. Il cielo è blu, al largo delle navi stanno stancamente aspettando di attraccare e la luce del sole è di un‘intensità rara, accecante. E’ un primo pomeriggio di un martedì di quasi inverno. La gente si attarda senza uno scopo preciso, camminando sugli scogli che tra breve saranno coperti dall’acqua: l’alta marea sta arrivando.
A pochi passi dalla grande moschea, inizia uno dei quartieri popolari di Casablanca. Qui non ci sono turisti e il lato esotico del Marocco lascia il posto a qualcosa di meno oleografico e più reale: la povertà. Casablanca è il posto degli opposti: ristoranti chic sulla corniche e angoli di strada in cui si mangia furtivamente e in piedi; il centro commerciale più grande d’Africa e i mercati in mezzo al fango; l’élite francofona e secolare e l’islamismo montante.
Nella vecchia medina, un dedalo di viuzze che si intersecano e girano su se stesse, si vedono barbe lunghissime, portate con un certo orgoglio. Ci sono anche vari tipi di velo, fino ad arrivare al modello estremo, quello alla Dart Vader. La gente qui non è molto abituata agli stranieri e vice versa (i due europei che incrocio mi salutano come se mi conoscessero da tempo, quasi sollevati all’idea di vedere una faccia amica).
Decido di fare un po’ di shopping, svaligiando un negozietto di olive e poi proseguendo verso i datteri, l’uvetta, i limoni canditi e le mandorle. Decido anche di investire in uno stock di mutande Calvin Klein (chiaramente originali) per non tradire la mia personale tradizione di comprare biancheria intima solo ed esclusivamente in Maghreb. Quando ho finito rientro in albergo, costeggiando il mare, mentre il cielo si tinge di rosso in attesa del tramonto.
Casa non è bella ma piace.
giovedì 22 dicembre 2011
giovedì 15 dicembre 2011
Ritorno
Quando ho messo piede sull'asfalto del parcheggio dell'aeroporto di Bole e ho annusato l'aria fresca e l'odore di montagna mi sono sentito stranamente allegro. L'aeroporto era illuminato a giorno e di fronte a me c'erano i profili irregolari di edifici cresciuti come funghi. Dopo più di cinque anni sono tornato ad Addis Abeba, la città africana in cui ho vissuto sei mesi e che più di tutte ha lasciato un segno nella mia memoria. L'Etiopia la si ama o la si odia (a volte le due cose contemporaneamente), ma di sicuro non lascia mai indifferenti.
Come in ogni ritorno, tutto è cambiato e tutto è rimasto come prima. Ho fatto un po' fatica a riconoscere certe strade, certi quartieri. Un po' perché la mania di costruzione è diventata sport nazionale, un po' perché la mia memoria non riusciva a seguire il dedalo di strade che si intersecano in maniera irregolare, senza rispetto per la geometria.
Ma basta una cena per ritrovarsi in un ambiente familiare, anche se tutte le facce attorno al tavolo sono nuove. Non serve conoscere le persone quando ci sono le classiche tipologie della cooperazione italiana. E così si ritrovano i volontari arrivati di recente, animati da un misto di idealismo e di ambizione. Non sanno ancora se vogliono fare del bene oppure aspirare ad un contratto con una grande agenzia internazionale.
C'è chi invece la decisione l'ha presa da tempo e parla di "P table", ovvero la categorizzazione standard del livello di responsabilità (e di stipendio) del personale delle Nazioni Unite. Dopo la P è sempre bene avere un numero verso il 4 o il 5. In quel caso l'invito ai ricevimenti delle ambasciate è quasi automatico, altrimenti bisogna lavorare un po' sulle amicizie trasversali che possono aprire orizzonti insperati nell'ambiente degli espatriati annoiati d'Africa.
E infine ci sono quelli che il "cooperante" lo fanno per lavoro e che non sanno se lo faranno per sempre o se è giunta ora di cambiare aria, che si chiedono cosa mai potrebbero fare in Italia e se veramente avrebbero voglia di lavorarci, o se invece non sarebbe meglio perdersi in un'altra avventura dall'altro lato del pianeta, con la paura di non ritrovarsi. I dubbi esistenziali sono le uniche certezze degli umanitari.
Mangiando in un ristorante un po' più in alto dei duemila metri di Addis, con vista sulle luci della città e sui suoi usi e abusi edilizi, mi rendo conto che sono un animale strano, con un passato ed un presente che si riconciliano a mala pena. Un quadro pentagonale oppure ovale, quelli difficili da incorniciare. Ma questo non mi pesa, anzi mi conforta un po', perché più forme si hanno e più è possibile fare parte di mondi diversi e farli propri.
Per quanto abbia passato poco tempo in Etiopia, questo posto affascinante, illeggibile e complesso è un po' mio. Riconosco parole, visi, sapori. E', nel suo piccolo, un ritorno a casa.
Come in ogni ritorno, tutto è cambiato e tutto è rimasto come prima. Ho fatto un po' fatica a riconoscere certe strade, certi quartieri. Un po' perché la mania di costruzione è diventata sport nazionale, un po' perché la mia memoria non riusciva a seguire il dedalo di strade che si intersecano in maniera irregolare, senza rispetto per la geometria.
Ma basta una cena per ritrovarsi in un ambiente familiare, anche se tutte le facce attorno al tavolo sono nuove. Non serve conoscere le persone quando ci sono le classiche tipologie della cooperazione italiana. E così si ritrovano i volontari arrivati di recente, animati da un misto di idealismo e di ambizione. Non sanno ancora se vogliono fare del bene oppure aspirare ad un contratto con una grande agenzia internazionale.
C'è chi invece la decisione l'ha presa da tempo e parla di "P table", ovvero la categorizzazione standard del livello di responsabilità (e di stipendio) del personale delle Nazioni Unite. Dopo la P è sempre bene avere un numero verso il 4 o il 5. In quel caso l'invito ai ricevimenti delle ambasciate è quasi automatico, altrimenti bisogna lavorare un po' sulle amicizie trasversali che possono aprire orizzonti insperati nell'ambiente degli espatriati annoiati d'Africa.
E infine ci sono quelli che il "cooperante" lo fanno per lavoro e che non sanno se lo faranno per sempre o se è giunta ora di cambiare aria, che si chiedono cosa mai potrebbero fare in Italia e se veramente avrebbero voglia di lavorarci, o se invece non sarebbe meglio perdersi in un'altra avventura dall'altro lato del pianeta, con la paura di non ritrovarsi. I dubbi esistenziali sono le uniche certezze degli umanitari.
Mangiando in un ristorante un po' più in alto dei duemila metri di Addis, con vista sulle luci della città e sui suoi usi e abusi edilizi, mi rendo conto che sono un animale strano, con un passato ed un presente che si riconciliano a mala pena. Un quadro pentagonale oppure ovale, quelli difficili da incorniciare. Ma questo non mi pesa, anzi mi conforta un po', perché più forme si hanno e più è possibile fare parte di mondi diversi e farli propri.
Per quanto abbia passato poco tempo in Etiopia, questo posto affascinante, illeggibile e complesso è un po' mio. Riconosco parole, visi, sapori. E', nel suo piccolo, un ritorno a casa.
mercoledì 30 novembre 2011
Sensi di colpa londinesi
Quando mi avevano parlato di "celle" invece che di "camere", avevo pensato che fosse una distinzione puramente semantica. In realtà si tratta di vere e proprie celle di pochi più di due metri per poco più di un metro e mezzo. Se si trattasse di celle carcerarie, sarebbero al di sotto dei parametri fissati dal Consiglio d'Europa (6 metri quadrati minimo in cella singola).
Mi trovo in un centro buddista a Londra. L'intero edificio è pervaso da un silenzio quasi artificiale. Sul comodino c'è il libro di un lama tibetano e in cucina c'è la faccia sorridente del Dalai Lama. Per fortuna che al collo ho la mia sciarpa cambogiana, comprata durante l'ultimo viaggio in Asia, per cui salvo almeno le apparenze. In realtà non sono qui per meditare, né per sfuggire dalla realtà materiale (anche se ci provassi la realtà mi correrebbe dietro senza lasciarmi scampo). La mia presenza a Londra - e ora me ne vergogno anche un po' - è molto terrena: sono qui per vedere la finale del torneo di tennis ATP World Finals, per vedere Federer alzare la coppa sotto una pioggia di coriandoli dorati.
Facendo un giro per il centro della città, uscendo dalla Tate Modern e passando per il ponte sul Tamigi che credo sia stato costruito da Calatrava, mi ritrovo sotto la cattedrale di St. Paul. Tutto attorno ci sono tende e cartelli e crocicchi di gente. Mi sono imbattuto per caso in uno dei siti del movimento "Occupy", iniziato a Zuccotti Park a New York e diffusosi un po' in tutto il mondo occidentale. Mentre esploro il posto, un uomo sulla sessantina avanzata, con una specie di corona di piume in testa, legge davanti ad una telecamera quello che sembra essere un proclama. In mano ha dei fogli spiegazzati coperti da una fitta calligrafia irregolare.
Poco più in là c'è una marea di cartelli sovrapposti, ognuno invocante qualcosa di diverso: dalla liberazione dei prigionieri in Iran, ad un generico invito a salvare il pianeta; da un'invettiva contro il capitalismo ad annunci economici. Un piccolo mare di tende resiste ad un vento che viene dal mare: freddo e umido. Da una delle tende più grandi arriva l'odore di minestra calda (probabilmente liofilizzata, non dimentichiamoci che siamo in Inghilterra). Poco a lato c'è un ragazzotto un po' scalmanato che sta maltrattando una chitarra, mentre altri due giocano a palla. C'è anche un cane.
Guardando la scena mi sento in colpa per la seconda volta. Per quanto condivida molte delle idee proposte, mi sento completamente estraneo a quello che vedo. Peggio, ne vedo già l'inevitabile fallimento, prima ancora che la protesta prenda una vera forma. Perché il problema di tutte le rivoluzioni è che, o falliscono per mancanza d'organizzazione e coesione (come sarà il caso per questa qui), oppure falliscono per eccesso di organizzazione, con i leader della rivolta che diventano inesorabilmente i padroni di domani (Russia, Cuba, '68), quelli che bisogna scalzare dal potere con le bombe, perché hanno fatto del potere la loro ragione di vita.
Mentre faccio fotografie come se mi trovassi allo zoo, ripenso al recitato di De André "Sogni numero due":
E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo
più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia
martedì 22 novembre 2011
Marrakesh
A Marrakesh ci ero stato quasi venticique anni fa, durante un viaggio organizzato (il primo e ultimo) che avevo fatto con i miei. Della città mi ricordavo la piazza centrale con gli incantatori di serpenti, i venditori di succo d'arance e le veggenti.
In tutto questo tempo è cambiato poco. La piazza è sempre gremita di gente, che la sera si raggruppa attorno a dei comici oppure a dei musicisti. Vicino al souq ci sono decine di banchetti dove si può mangiare qualcosa di buono, caldo e veloce: tajin, couscous o merguezes. I camerieri corrono avanti e indietro indaffarati. Un uomo nascosto da una nuvola di fumo armeggia con mestoli e pentole. Il menu non deve essere cambiato dalla colonizzazione francese.
Il Marocco è la nazione del Nordafrica che trovo più affascinante, un punto di incontro tra Africa e Europa e tra modernità e tradizione. In nessun altro posto si vedono così tante persone vestite in modo tradizionale, con la tunica bianca e le babbucce ai piedi. E non sono marziani: parlano francese ed usano l'iPhone.
Non si tratta del paradiso chiaramente. La crisi economica colpisce tutti e una vera e propria massa di emigranti è tornata in patria dalla Spagna e dall'Italia. Quando manca il lavoro, i primi a perderlo sono i lavoratori meno specializzati. A Marrakesh sono anche scoppiate delle bombe, messe da gruppi di islamisti di ispirazione qaedista. Il sottofondo di povertà fa da terreno di coltura per gesti di ordinaria idiozia.
Nonostante tutto il Marocco è l'unico stato della regione a non aver vissuto una crisi politica: Ben Ali è stato il primo a saltare, seguito a ruota da Mubarak e infine da Gheddafi, che sembrava il più furbo e ha fatto la fine del topo. E perché il Marocco no?
La risposta non si chiama ancora democrazia (anche se non siamo lontani), ma piuttosto monarchia. La figura del re è sacra, la sua legittimità indiscussa. Un cauto processo di riconciliazione nazionale e democratizzazione è in corso dalla morte di Hassan II, il re responsabile delle violenze degli anni di piombo contro esponenti di sinistra. Mohammed VI, suo figlio, potrebbe diventare il primo monarca costituzionale del mondo arabo, aprendo una strada che dovrebbe essere seguita da latri: dalla Giordania all'Arabia Saudita.
Ma questo con la calma, bevendo té alla menta e commentando i risultati del campionato di calcio, mentre passa un carro trainato da un asino, stracarico di legna da ardere che servirà per cuocere il pane. Bisogna dare tempo al tempo.
In tutto questo tempo è cambiato poco. La piazza è sempre gremita di gente, che la sera si raggruppa attorno a dei comici oppure a dei musicisti. Vicino al souq ci sono decine di banchetti dove si può mangiare qualcosa di buono, caldo e veloce: tajin, couscous o merguezes. I camerieri corrono avanti e indietro indaffarati. Un uomo nascosto da una nuvola di fumo armeggia con mestoli e pentole. Il menu non deve essere cambiato dalla colonizzazione francese.
Il Marocco è la nazione del Nordafrica che trovo più affascinante, un punto di incontro tra Africa e Europa e tra modernità e tradizione. In nessun altro posto si vedono così tante persone vestite in modo tradizionale, con la tunica bianca e le babbucce ai piedi. E non sono marziani: parlano francese ed usano l'iPhone.
Non si tratta del paradiso chiaramente. La crisi economica colpisce tutti e una vera e propria massa di emigranti è tornata in patria dalla Spagna e dall'Italia. Quando manca il lavoro, i primi a perderlo sono i lavoratori meno specializzati. A Marrakesh sono anche scoppiate delle bombe, messe da gruppi di islamisti di ispirazione qaedista. Il sottofondo di povertà fa da terreno di coltura per gesti di ordinaria idiozia.
Nonostante tutto il Marocco è l'unico stato della regione a non aver vissuto una crisi politica: Ben Ali è stato il primo a saltare, seguito a ruota da Mubarak e infine da Gheddafi, che sembrava il più furbo e ha fatto la fine del topo. E perché il Marocco no?
La risposta non si chiama ancora democrazia (anche se non siamo lontani), ma piuttosto monarchia. La figura del re è sacra, la sua legittimità indiscussa. Un cauto processo di riconciliazione nazionale e democratizzazione è in corso dalla morte di Hassan II, il re responsabile delle violenze degli anni di piombo contro esponenti di sinistra. Mohammed VI, suo figlio, potrebbe diventare il primo monarca costituzionale del mondo arabo, aprendo una strada che dovrebbe essere seguita da latri: dalla Giordania all'Arabia Saudita.
Ma questo con la calma, bevendo té alla menta e commentando i risultati del campionato di calcio, mentre passa un carro trainato da un asino, stracarico di legna da ardere che servirà per cuocere il pane. Bisogna dare tempo al tempo.
venerdì 18 novembre 2011
Strane coppie
Quando Davide mi ha scritto che domenica si poteva fare un multipitch oppure andare ad arrampicare sul granito, la mia scelta era presto fatta: multipitch, per salire più in alto, sentirsi un po’ alpinisti (si fa per dire).
I preparativi sono stati stranamente accurati: materiale al completo, lettura della guida, sveglia all’alba, arrivo sul posto addirittura in anticipo sul previsto. Insomma sembravamo due veri scalatori. Peccato che poi ci siamo persi e ci abbiamo messo più di un’ora per trovare la falesia salendo e scendendo per vari sentieri del bosco di castagni. Quando infine siamo arrivati alla roccia eravamo rossi come dei peperoni e con un evidente fiatone.
Il sole, nel cielo nessuna nuvola, attorno a noi il silenzio, la giornata perfetta. Iniziamo a fare il primo tiro e, mentre faccio sicura a Davide dalla sosta, una coppia di sessantenni tedeschi arriva ai piedi dela falesia e si prepara a salire. Noi continuiamo per la mostra via, salendo per una parete appoggiata com più delicatezza possibile e stando attenti che non ci rimanga in mano qualche pezzo di roccia ballerina.
Mentre continuiamo ad andare su, veniamo presto superati dalla coppia di sessantenni tedeschi che, a discapito dei metodi un po’ retrò (sicura facendo passare la corda sulla spalla) sembra non avere tentennamenti: dei panzer.
Si arriva in cima, si fanno le foto, ci si stringe la mano. I tedeschi non si vedono già più, sono già scesi. Anche noi ci avviamo, decidendo di calarci in corda doppia piuttosto che prendere il comodo sentiero di rientro (sono io che insisto per seguire i dettami del mio libro di arrampicata, ormai odiato da tutti).
Per scendere in corda doppia si devono beccare i punti di calata, ovvero gli anelli in cui far passare la corda. La teoria è facile, la pratica un po’ meno, soprattutto se non si legge bene la guida e si scende con una corda troppo corta di dieci metri. In aggiunta non vedo un punto di calata, mi trovo troppo in basso e sono costretto a risalire. Poi scopro che l’anello c’è ma è più a destra di dove ero io. Prime bestemmie.
Mentre noi continuiamo la discesa, rivediamo apparire i sessantenni tedeschi, ripartiti per una seconda ascesa. Compare all’orizzonte anche una coppia ticinese, dall’apparente età di mille anni. L’uomo ha una panza così grande che sembra abbia ingoiato un pallone da basket, la donna sembra un ippopotamo. Ci sembrava di aver fatto l’impresa alpina e adesso manca solo che venga su qualcuno in sedia a rotelle.
I due pachidermi stanno salendo per la nostra via e ci costringono a una deviazione ulteriore. Quando lanciamo la corda sull’ultimo tratto ci accorgiamo che manca qualche metro ala fine. Scendo per vedere se c’è un’alternativa, senza successo. Mentre Davide passa la corda ad una sosta più in basso, rimango appeso ad un chiodo a guardare il paesaggio: le montagne illuminate dagli ultimi raggi di sole, il fiume che scende tortuoso nella valle.
Poi mi arriva la corda, scendo gli ultimi metri giusto in tempo per salutare la coppia tedesca già pronta a partire verso la macchina: hanno il doppio dei nostri anni ed hanno arrampicato al doppio della nostra velocità. Dei due pachidermi invece nessuna traccia. Li vedremo dalla strada, due puntini colorati ancora intenti a scendere quando ormai il sole è scomparso all’orizzonte.
I preparativi sono stati stranamente accurati: materiale al completo, lettura della guida, sveglia all’alba, arrivo sul posto addirittura in anticipo sul previsto. Insomma sembravamo due veri scalatori. Peccato che poi ci siamo persi e ci abbiamo messo più di un’ora per trovare la falesia salendo e scendendo per vari sentieri del bosco di castagni. Quando infine siamo arrivati alla roccia eravamo rossi come dei peperoni e con un evidente fiatone.
Il sole, nel cielo nessuna nuvola, attorno a noi il silenzio, la giornata perfetta. Iniziamo a fare il primo tiro e, mentre faccio sicura a Davide dalla sosta, una coppia di sessantenni tedeschi arriva ai piedi dela falesia e si prepara a salire. Noi continuiamo per la mostra via, salendo per una parete appoggiata com più delicatezza possibile e stando attenti che non ci rimanga in mano qualche pezzo di roccia ballerina.
Mentre continuiamo ad andare su, veniamo presto superati dalla coppia di sessantenni tedeschi che, a discapito dei metodi un po’ retrò (sicura facendo passare la corda sulla spalla) sembra non avere tentennamenti: dei panzer.
Si arriva in cima, si fanno le foto, ci si stringe la mano. I tedeschi non si vedono già più, sono già scesi. Anche noi ci avviamo, decidendo di calarci in corda doppia piuttosto che prendere il comodo sentiero di rientro (sono io che insisto per seguire i dettami del mio libro di arrampicata, ormai odiato da tutti).
Per scendere in corda doppia si devono beccare i punti di calata, ovvero gli anelli in cui far passare la corda. La teoria è facile, la pratica un po’ meno, soprattutto se non si legge bene la guida e si scende con una corda troppo corta di dieci metri. In aggiunta non vedo un punto di calata, mi trovo troppo in basso e sono costretto a risalire. Poi scopro che l’anello c’è ma è più a destra di dove ero io. Prime bestemmie.
Mentre noi continuiamo la discesa, rivediamo apparire i sessantenni tedeschi, ripartiti per una seconda ascesa. Compare all’orizzonte anche una coppia ticinese, dall’apparente età di mille anni. L’uomo ha una panza così grande che sembra abbia ingoiato un pallone da basket, la donna sembra un ippopotamo. Ci sembrava di aver fatto l’impresa alpina e adesso manca solo che venga su qualcuno in sedia a rotelle.
I due pachidermi stanno salendo per la nostra via e ci costringono a una deviazione ulteriore. Quando lanciamo la corda sull’ultimo tratto ci accorgiamo che manca qualche metro ala fine. Scendo per vedere se c’è un’alternativa, senza successo. Mentre Davide passa la corda ad una sosta più in basso, rimango appeso ad un chiodo a guardare il paesaggio: le montagne illuminate dagli ultimi raggi di sole, il fiume che scende tortuoso nella valle.
Poi mi arriva la corda, scendo gli ultimi metri giusto in tempo per salutare la coppia tedesca già pronta a partire verso la macchina: hanno il doppio dei nostri anni ed hanno arrampicato al doppio della nostra velocità. Dei due pachidermi invece nessuna traccia. Li vedremo dalla strada, due puntini colorati ancora intenti a scendere quando ormai il sole è scomparso all’orizzonte.
mercoledì 9 novembre 2011
Là dove c'erano gli elefanti
L'arrivo in ogni aeroporto africano è un ritorno allo stato di natura, di pura lotta per la sopravvivenza. Chi esce per primo dall'aereo parte con un certo margine di vantaggio, ma non deve sedersi sugli allori ed è obbligato a mantenere il passo per non lasciarsi sopravvanzare dalla concorrenza, che magari ha più esperienza e conosce i corridoi a memoria, oppure sa che ci sono delle scale per cui non incastra la borsa del computer sopra il trolley, per poter essere più agile e scattante.
A causa di una porta aperta con un po' di ritardo, mi sono ritrovato nella risacca della massa di passeggeri appena sbarcati dal Boeing777 dell'Airfrance. Ho preso al volo un formulario della dogana e mi sono messo in una lunga (e probabilmente lentissima) coda, con l'idea di sfruttare il tempo d'attesa per riempirlo in modo sufficientemente legittimo per non essere rispedito indietro. Avevo già scritto il numero di volo e anche quello di passaporto quando ho sentito un pingue poliziotto chiamare ad alta voce "Fransesco", "Fransesco". In mezzo agli sguardi di odio e di invidia degli altri passeggeri sono uscito dai ranghi e l'ho seguito assieme a due altri privilegiati verso il controllo VIP: niente coda, niente formulario d'ingresso, niente faccia scorbutica da doganiere frustrato. Abidjian, mi sono detto, non è poi così male, soprattutto se conosci un mito del calcio locale.
La città mi ha accolto con un caldo soffocante. Come ad Accra, anche qui c'è un traffico infernale, che si snoda a destra e a sinistra della laguna che penetra profondamente nell'abitato dalla costa. Bella Abidjian non lo è proprio, ma si capisce subito perchè così tanti francesi l'avevano scelta come luogo dove vivere, prosperare e fare una vita da privilegiati cronici: il verde, il caldo, una certa aria da vecchio paradiso coloniale.
C'è calma adesso in Costa d'Avorio, più apparente che reale, ma almeno non si spara più. Tutti parlano ancora della "crisi", l'eufemismo per descrivere la guerra civile che ha opposto Gbabo a Ouattara e ha diviso il paese fin nei singoli quartieri delle città. Per strada ci sono ancora dei caschi blu annoiati e dei militari ivoriani che fanno la pennichella dietro a delle mistragliatrici. Il Golf Hotel, quartier generale dell'ex-oppositore Ouattara ha riaperto le porte, le garritte erette a sua protezione sono ancora lì benché ormai vuote, la città ha recuperato i cocci e ha ripreso a vivere.
Sono anche arrivati i cosiddetti "investitori". A fianco a me, a colazione, ne avevo due che parlavano tra di loro. Non ho capito in che ramo lavorassero (cacao? caffé? olio di palma? oro? telefonia?), ma dal loro piano di volo (New York, Iraq, Parigi, Singapore) ho dedotto che appartenessero più al famoso 1% che al resto del 99%.
E' sbarcato anche il Fondo Monetario Internazionale assieme alla Banca Mondiale. Erano a pranzo nel mio stesso ristorante, assieme ad una delegazione della Banca degli Stati dell'Africa Occidentale. Le nostre traiettorie si sono divise: loro sono andati a discutere di prestiti, finanza e investimenti, io invece sono andato a dare un'occhiata ad uno stadio in cui dei ragazzoni di 16-17 anni si dannavano l'anima per impressionare un allenatore norvegese venuto alla caccia di nuovi talenti da esportazione.
A causa di una porta aperta con un po' di ritardo, mi sono ritrovato nella risacca della massa di passeggeri appena sbarcati dal Boeing777 dell'Airfrance. Ho preso al volo un formulario della dogana e mi sono messo in una lunga (e probabilmente lentissima) coda, con l'idea di sfruttare il tempo d'attesa per riempirlo in modo sufficientemente legittimo per non essere rispedito indietro. Avevo già scritto il numero di volo e anche quello di passaporto quando ho sentito un pingue poliziotto chiamare ad alta voce "Fransesco", "Fransesco". In mezzo agli sguardi di odio e di invidia degli altri passeggeri sono uscito dai ranghi e l'ho seguito assieme a due altri privilegiati verso il controllo VIP: niente coda, niente formulario d'ingresso, niente faccia scorbutica da doganiere frustrato. Abidjian, mi sono detto, non è poi così male, soprattutto se conosci un mito del calcio locale.
La città mi ha accolto con un caldo soffocante. Come ad Accra, anche qui c'è un traffico infernale, che si snoda a destra e a sinistra della laguna che penetra profondamente nell'abitato dalla costa. Bella Abidjian non lo è proprio, ma si capisce subito perchè così tanti francesi l'avevano scelta come luogo dove vivere, prosperare e fare una vita da privilegiati cronici: il verde, il caldo, una certa aria da vecchio paradiso coloniale.
C'è calma adesso in Costa d'Avorio, più apparente che reale, ma almeno non si spara più. Tutti parlano ancora della "crisi", l'eufemismo per descrivere la guerra civile che ha opposto Gbabo a Ouattara e ha diviso il paese fin nei singoli quartieri delle città. Per strada ci sono ancora dei caschi blu annoiati e dei militari ivoriani che fanno la pennichella dietro a delle mistragliatrici. Il Golf Hotel, quartier generale dell'ex-oppositore Ouattara ha riaperto le porte, le garritte erette a sua protezione sono ancora lì benché ormai vuote, la città ha recuperato i cocci e ha ripreso a vivere.
Sono anche arrivati i cosiddetti "investitori". A fianco a me, a colazione, ne avevo due che parlavano tra di loro. Non ho capito in che ramo lavorassero (cacao? caffé? olio di palma? oro? telefonia?), ma dal loro piano di volo (New York, Iraq, Parigi, Singapore) ho dedotto che appartenessero più al famoso 1% che al resto del 99%.
E' sbarcato anche il Fondo Monetario Internazionale assieme alla Banca Mondiale. Erano a pranzo nel mio stesso ristorante, assieme ad una delegazione della Banca degli Stati dell'Africa Occidentale. Le nostre traiettorie si sono divise: loro sono andati a discutere di prestiti, finanza e investimenti, io invece sono andato a dare un'occhiata ad uno stadio in cui dei ragazzoni di 16-17 anni si dannavano l'anima per impressionare un allenatore norvegese venuto alla caccia di nuovi talenti da esportazione.
sabato 29 ottobre 2011
Ghana la riscossa
Non ero mai salito sul bus di una nazionale di calcio. Mentre salivo i gradini di quello delle Black Stars, mi sono sentito come un calciatore vero, un misto tra il gladiatore e la pop star. La gente in strada ci guardava attraverso i finestrini opachi, pensando che seduti gli uni dietro agli altri ci fossero Essien o Gyan.
Il bus si è fermato nel parcheggio dello stadio di Accra e siamo scesi in fila indiana. Non c'erano auricolari o iPod, giacche con lo stemma della federazione e occhiali scuri (perché i giocatori di calcio portano gli occhiali anche di notte?).
Le due squadre si sono schierate una di fronte all'altra: da una parte i rossi, dall'altra i blu. Io sono partito titolare, non tanto per meriti propri, ma perché nessuno ha avuto il coraggio di opporsi alla decisione del capo: quello che non può il talento, può il potere.
Lo stadio era vuoto, le migliaia di sedie di plastica ad osservare la partita più patetica della sua illustre storia. La media d'età sopra i sessant'anni, quella del girovita ben al di sopra del metro e mezzo. Il vantaggio di giocare con gente che ha trent'anni più di te è che non si vede che sei una pippa: basta correre un po'. Ed è così che sono stato nomino d'ufficio erede di Pippo Inzaghi, forse non per il numero di gol segnati, quanto piuttosto per il numero di fuorigioco che mi sono stati fischiati contro da un arbitro inflessibile, probabilmente pagato dai nostri avversari.
Abbiamo perso 2 a 1, nonostante noi avessimo nei nostri ranghi un ex-pallone d'oro africano e l'ex capitano della nazionale svizzera (entrambi negli anni settanta). Un mio compagno di squadra ha anche identificato nella mia sostituzione prematura la causa della disfatta. Poi tutti a casa.
La sera, a cena, ho scoperto che il nome Kofi - uno dei più comuni del Ghana - viene dato a chi è nato il sabato, mentre Kwame - come il padre della patria e del movimento di decolonizzazione - a chi è nato il venerdì. Robinson Crusoe in fondo non aveva inventato niente.
Il bus si è fermato nel parcheggio dello stadio di Accra e siamo scesi in fila indiana. Non c'erano auricolari o iPod, giacche con lo stemma della federazione e occhiali scuri (perché i giocatori di calcio portano gli occhiali anche di notte?).
Le due squadre si sono schierate una di fronte all'altra: da una parte i rossi, dall'altra i blu. Io sono partito titolare, non tanto per meriti propri, ma perché nessuno ha avuto il coraggio di opporsi alla decisione del capo: quello che non può il talento, può il potere.
Lo stadio era vuoto, le migliaia di sedie di plastica ad osservare la partita più patetica della sua illustre storia. La media d'età sopra i sessant'anni, quella del girovita ben al di sopra del metro e mezzo. Il vantaggio di giocare con gente che ha trent'anni più di te è che non si vede che sei una pippa: basta correre un po'. Ed è così che sono stato nomino d'ufficio erede di Pippo Inzaghi, forse non per il numero di gol segnati, quanto piuttosto per il numero di fuorigioco che mi sono stati fischiati contro da un arbitro inflessibile, probabilmente pagato dai nostri avversari.
Abbiamo perso 2 a 1, nonostante noi avessimo nei nostri ranghi un ex-pallone d'oro africano e l'ex capitano della nazionale svizzera (entrambi negli anni settanta). Un mio compagno di squadra ha anche identificato nella mia sostituzione prematura la causa della disfatta. Poi tutti a casa.
La sera, a cena, ho scoperto che il nome Kofi - uno dei più comuni del Ghana - viene dato a chi è nato il sabato, mentre Kwame - come il padre della patria e del movimento di decolonizzazione - a chi è nato il venerdì. Robinson Crusoe in fondo non aveva inventato niente.
martedì 18 ottobre 2011
Musica (e senza maestro)
Per qualcuno comprare uno stereo è un'esperienza mistica, un progetto che inizia un giorno e non finisce mai più: sono gli audiofili, una setta estremamente ideologizzata ma fondalmente innocua. Per altri comprare uno stereo è un'attività corrente, benché piuttosto rara: sono la maggioranza che considera la musica un passatempo e non una religione. Per me comprare lo stereo è stata un'odissea: è iniziata mesi fa ed è finita solo ora.
Se l'invenzione del mp3 è stata una rivoluzione per l'umanità, per me è stata una benedizione. Muovendomi per dieci anni tra Africa, Medio Oriente e America Latina, il mio iPod mi ha risparmiato il trasporto di decine di chili di CD. Piccolo problema è che poi diventi schiavo di quel piccolo pezzo di tecnologia e design, che non è dotato di interruttore e soprattutto dipende da iTunes come un bambino della madre. Il cavo USB è il cordone ombelicale e il cibo si chiama "sincronizzazione". Se poi iTunes ha un bug e si incanta come una beghina di fronte alla Madonna sei fregato. Ancora peggio se i supermegastereo disegnati apposta per gli mp3 non comunicano con il tuo iPod. Questo vuol dire settimane di pellegrinazioni tra i migliori negozi di HiFi di Zurigo, dove esperti mondiali dell'alta tecnologia iniziano a sgranare gli occhi, grattarsi i capelli e a prometterti che contatteranno i servizi tecnici di tutte le migliori marche mondiali, i quali o non rispondono oppure alzano bandiera bianca implorando pietà.
Dopo tante lotte contro il tempo (i negozi chiudono alle 18.30 e arrivarci dopo il lavoro richiede doti da centometrista) ce l'ho fatta. Ho comprato due casse che valgono quanto un'utilitaria usata e ho anche scovato l'unico amplificatore che accetta di parlare con il mio iPod.
E' un martedì sera. Non c'è nessuno in casa (come sempre). Sono seduto sul divano, che si trova ad un rapporto di 1,5 rispetto alla distanza delle casse tra di loro. C'è silenzio, le finestre sono chiuse, le porte anche. Metto "Falando de amor" di Stefano Bollani, bevo un Pastis. Poche volte in vita mia mi sono sentito tanto privilegiato. La musica e il cinema sono i due piaceri per cui non hai bisogno di un partner.
mercoledì 12 ottobre 2011
Misteri di Zurigo
Il vero sport estremo, invece, è organizzare una cena tra amici.
Inanzitutto bisogna gettare nel cestino dell'immondizia la spontaneità. Svegliarsi la mattina con la voglia di cucinare e invitare qualcuno a cena non solo è praticamente impossibile, ma quasi insultante. Organizzare una cena è un'attività di lungo terminne, che richiede attenta e precisa preparazione. E' obbligatorio fissare la data con almeno una settimana d'anticipo, meglio ancora se due. La gente qui è sempre, costantemente, terribilmente occupata (non si sa se per davvero oppure perché così si deve essere per essere socialmente accettati).
Poi bisogna fare gli inviti e qui la cosa si complica ancora di più, perché se per caso avevi intenzione di invitare uno svizzero, devi assicurarti che la cosa non lo destabilizzi. "Ma come, ci conosciamo solo da sei mesi e già mi inviti a cena? Dove andrà il mondo di questo passo...". Penso che tra non molto verrà stabilita una patente di amicizia, emessa dall'autorità competente e sottomessa ad una rigida e dettagliata regolamentazione. Senza patente d'amicizia tutti a letto senza cena. Punto.
Infine bisogna essere sicuri che tutti si sentano a proprio agio, perché invitare qualcuno senza che questi conosca gli altri sarebbe l'equivalente di tirargli un pugno sul muso.
E' chiaro che se conosci poca gente e fare una cena è il tuo modo per conoscerne di più, il progetto è un fallimento in partenza. Ma visto che è impossibile conoscere gente in altro modo (lo svizzero è refrattario al contatto casuale, soprattutto se in luogo pubblico), la domanda è semplice: ma come cazzo si socializza in questo posto?
Non mi resta che fare un salto all'Erotik Factory sotto casa e chiederlo al gestore.
domenica 18 settembre 2011
Svizzera: un pezzo di puzzle in più
Vabbé tutti sanno che la Svizzera è un paese efficiente, fin qui nessuna novità. Ma anche se ci si aspetta che tutto funzioni alla perfezione - quando effettivamente succede - si continua a esserne stupiti, soprattutto se si è nati e cresciuti in Italia.
L'altro giorno ho fatto l'abbonamento annuale per i trasporti pubblici di Zurigo, per la modica cifra di 700 euro (efficienti sì, ma non a buon mercato). Con 20 euro ho avuto anche l'abbonamento a Mobility, il car sharing che ti permette di prendere una macchina in affitto per qualche ora, in qualsiasi parte della città e in qualsiasi momento, così che puoi evitare di comprarla.
La signora che mi ha fatto l'abbonamento mi ha detto che nel giro di due giorni mi sarebbe arrivata la tessera a casa assieme al contratto Mobility. Due giorni dopo avevo effettivamente l'abbonamento, con tanto di foto (che avevano già nel sistema). Ho anche rispedito il contratto Mobility. Ho dovuto aspettare altri due giorni per ricevere conferma che tutto era a posto.
Sono poi andato a cambiare la mia patente italiana per quella svizzera (che i ticinesi, traducendo dal francese, chiamano "permesso di condurre"). Sono arrivato alla motorizzazione con un filobus, ho camminato due minuti, ho consegnato la documentazione che mi ero scaricato da internet e dopo altri due minuti avevo finito. "Tra due giorni le arriverà la patente svizzera" mi ha detto l'impiegato. La Svizzera funziona con il sistema binario. Purtroppo in mezzo c'è un week end, ma non avrò dubbi che domani mattina, nella buca delle lettere, ci sarà una busta della motorizzazione civile.
Questo per quanto riguarda la precisione. Poi per quanto riguarda la condivisione c'è ancora qualche margine di miglioramento.
Ieri sono andato con un gruppo di gente che non conoscevo a fare un corso di roccia (multipitch per la precisione). Dopo essere saliti sulla parete accompagnati dallo scampanare di centinaia di mucche ed esserne scesi indenni, abbiamo pranzato sotto un albero. Tutti si sono messi a mangiare quello che avevano portato da casa. La guida alpina aveva solo un paio di brioches. Nessuno gli ha offerto nulla. Sarà che in un passato non tanto lontano sono stato scout, ma per me la montagna è sinonimo di condivisione di quello che ti sei portato dietro con tanta fatica: un pezzo di pane, del formaggio, quello che c'è. Qui non solo non si offre, ma tutti sono imbarazzatissimi ad accettare una semplice offerta: un pezzo di cioccolato o un biscotto.
Nel paese dell'autosufficienza c'è poco spazio per l'interdipendenza.
giovedì 8 settembre 2011
Cairo: la città eternit
Il Cairo dall’alto è una città di lego. Torri di diverse altezze – tutte sistematicamente a forma di parallelepipedo – si affastellano l’una all’altra a perdita d’occhio. Cairo non è grigia come Parigi. E’ completamente marrone, il colore die mattoni nudi. Non c’è un albero in vista, non un rettangolo di verde. Le strade scompaiono tra un edificio e l’altro.
Il Cairo dal basso è un enorme parcheggio. Le macchine sono ovunque, i marciapiedi non esistono. Uno dei lavori più diffusi è quelli del parcheggiatore. Non si tratta – come Roma – del tipo un po’ losco che scrocca qualche spicciolo per indicare un posto libero (o meglio perché il propietario ha paura che gli sfregi la carrozzeria). Qui fare il parcheggiatore abusivo è un lavoro di provata utilità pubblica, perchè si parcheggia sistematicamente in seconda e terza fila per cui c’è constante bisogno di qualcuno che sposti le macchine. Il parcheggiatore ha una borsa piena di chiavi che riconosce solo lui ed è occupatissimo. La strada gli appartiene e lo si può pagare per un giorno oppure mensilmente.
Al Cairo la notte e il giorno sono fenomeni irrilevanti, perché la città vive a tutte le ore. I clacson suonano costantemente, il traffico è eterno, la gente riempie i mercati e cammina per strada senza interruzione: quelli che tornano a casa a dormire si incontrano con quelli appena usciti per andare a lavorare.
Appena il sole scende all’orizzonte ed il caldo lascia spazio ad una brezza un po’ più fresca, l’intera popolazione del Cairo scende in strada. Visto che non ci sono parchi, la gente si siede un po’ ovunque: gli uomini a bere caffé, fumare narghilé e guardare il calcio in televisione, le donne a fare spesa, le coppiette a tenersi per mano a bordo del Nilo. Sul marciapiede, in mezzo a pedoni, moto e anche dei temerari ragazzetti con i rolleblades, c’è un’intera famiglia seduta per terra, sopra una coperta. Sta facendo il pic nic in mezzo al traffico.
Il Nilo è scuro ed è attraversato da barche piene di luci colorate. Sembrano tanti alberi di Natale semoventi. I passeggeri sono seduti ed ascoltano indifferenti musica araba sparata a tutto volume, mentre guardano i profili dei grandi alberghi del centro.
Su uno dei ponti che collegano le due rive del filme, un uomo ha parcheggiato la sua vecchia Trabant sulla destra, mentre otto corsie di macchine gli sfrecciano a fianco. Ha tirato fuori una sedia di plastica e si è seduto a prendere un po’ d’aria. Poco più in là c’è un gruppo di ragazzi che stanno ballando al suono di musica che esce da un’autoradio. La musica si sente appena, completamente coperta dal rombo dele macchine e dai clacson. Una coppia si è appena sposata ed il ponte è il posto migliore per festeggiare. Quale metafora migliore?
Di Mubarak non parlerò. Il processo continua e all’ultima seduta ci sono stati scontri tra i pro e gli anti-Mubarak. Nessuno sa cosa succederà. Le ipotesi che si leggono sui giornali sono inutili, perché mai come in questo momento fare previsioni azzeccate è come vincere alla lotteria senza neanche comprarei l biglietto. Bisogna aspettare e vedere, l’unica cosa da fare. Quello che è certo è che prima che le cose migliorino, sicuramente peggioreranno, ma gli egiziano sembrano avere uma certa abitudine al peggio (come al meglio d’altronde).
Il Cairo dal basso è un enorme parcheggio. Le macchine sono ovunque, i marciapiedi non esistono. Uno dei lavori più diffusi è quelli del parcheggiatore. Non si tratta – come Roma – del tipo un po’ losco che scrocca qualche spicciolo per indicare un posto libero (o meglio perché il propietario ha paura che gli sfregi la carrozzeria). Qui fare il parcheggiatore abusivo è un lavoro di provata utilità pubblica, perchè si parcheggia sistematicamente in seconda e terza fila per cui c’è constante bisogno di qualcuno che sposti le macchine. Il parcheggiatore ha una borsa piena di chiavi che riconosce solo lui ed è occupatissimo. La strada gli appartiene e lo si può pagare per un giorno oppure mensilmente.
Al Cairo la notte e il giorno sono fenomeni irrilevanti, perché la città vive a tutte le ore. I clacson suonano costantemente, il traffico è eterno, la gente riempie i mercati e cammina per strada senza interruzione: quelli che tornano a casa a dormire si incontrano con quelli appena usciti per andare a lavorare.
Appena il sole scende all’orizzonte ed il caldo lascia spazio ad una brezza un po’ più fresca, l’intera popolazione del Cairo scende in strada. Visto che non ci sono parchi, la gente si siede un po’ ovunque: gli uomini a bere caffé, fumare narghilé e guardare il calcio in televisione, le donne a fare spesa, le coppiette a tenersi per mano a bordo del Nilo. Sul marciapiede, in mezzo a pedoni, moto e anche dei temerari ragazzetti con i rolleblades, c’è un’intera famiglia seduta per terra, sopra una coperta. Sta facendo il pic nic in mezzo al traffico.
Il Nilo è scuro ed è attraversato da barche piene di luci colorate. Sembrano tanti alberi di Natale semoventi. I passeggeri sono seduti ed ascoltano indifferenti musica araba sparata a tutto volume, mentre guardano i profili dei grandi alberghi del centro.
Su uno dei ponti che collegano le due rive del filme, un uomo ha parcheggiato la sua vecchia Trabant sulla destra, mentre otto corsie di macchine gli sfrecciano a fianco. Ha tirato fuori una sedia di plastica e si è seduto a prendere un po’ d’aria. Poco più in là c’è un gruppo di ragazzi che stanno ballando al suono di musica che esce da un’autoradio. La musica si sente appena, completamente coperta dal rombo dele macchine e dai clacson. Una coppia si è appena sposata ed il ponte è il posto migliore per festeggiare. Quale metafora migliore?
Di Mubarak non parlerò. Il processo continua e all’ultima seduta ci sono stati scontri tra i pro e gli anti-Mubarak. Nessuno sa cosa succederà. Le ipotesi che si leggono sui giornali sono inutili, perché mai come in questo momento fare previsioni azzeccate è come vincere alla lotteria senza neanche comprarei l biglietto. Bisogna aspettare e vedere, l’unica cosa da fare. Quello che è certo è che prima che le cose migliorino, sicuramente peggioreranno, ma gli egiziano sembrano avere uma certa abitudine al peggio (come al meglio d’altronde).
martedì 6 settembre 2011
Associazioni, nomi e dialoghi
Alessandro Baricco ha creato un personaggio che rideva a crepapelle ogni volta che leggeva i nomi dei cavalli nel giornale. E quell'attività era la sua preferita, se non addirittura l'unica.
Non sono solo i cavalli ad avere dei nomi senza moltzo senso (il mio preferito era Pocket Coffee), ci sono anche i brani jazz, soprattutto quelli strumentali. A patre quelli che tentano di descrivere a parole l'andamento della musica, tipo 'Un sasso nello stagno', 'Dissonanze'o 'Improvisation 13 en la mineur', gli altri hanno titoli un po' a caso come 'Jocker in the Village', senza contare le canzoni semplicemente identificate con un numero progressivo: semplice e diretto, anche se un po' meccanico.
Qualcosa di simile avviene con le vie d'arrampicata. Alcune hanno nomi che richiamano la tecnica necessaria per salire tipo 'Solo con i piedi', 'Zig Zag', oppure 'Appigli ridicoli', la mitica via aperta sulle dolomiti da Maurizio 'Manolo' Zanolla. Ma la maggior parte ha un nome di fantasia, spesso un po' idiota, il primo che passava per la testa del tracciatore, come 'Paglia secca', 'Prurito' o 'Perché no?'.
Ieri, in una falesia al lato del lago di Lucerna, mentre il sole stava tramontando e il cervello stava più pensando alla birra messa in fresco nell'acqua che a soffrire un altro po', ho scoperto che c'era una via che si chiamava 'Wursch und Brot' (pane e salsiccia), seguita da una che si chiamava 'Sänf' (senape). Ho deciso che avrei fatto la via senape, rimandando pane e salsiccia ad un momento migliore.
Da un paio di mesi sto usando la mezz'ora di tram per andare al lavoro per leggere libri d'arrampicata che parlano estensivamente della paura: quella di cadere, quella di farsi male o dimorire, quella di fallire. Vincere la paura è la prima necessità di chi arrampica. Sembra che l'uomo sia l'unico animale a poter vincere la paura, a reprimere l'istinto di scappare per affrontare con razionalità un evento terrorizzante. Questa è la teoria. Nella pratica ho passato gran parte della giornata aggrappato alla roccia stringendo gli appigli più forte del necessario, con le gambe tremanti e il fiatone. Un diaologo si sviluppava silente a mezza via:
- Mente: "devi razionalizzare la paura"
- Corpo: "ma vai a cagare intellettuale del cazzo"
- Mente: "adesso mettiamo i piedi in alto e spingiamo"
- Corpo: "fallo tu se ci tieni tanto"
- Mente: "siamo solo un metro sopra al rinvio, anche se cadiamo non ci facciamo male"
- Corpo: "francamente preferisco rimanere incastrato in questa crepa"
- Mente: "ma fa caldo"
- Corpo: "chissenefrega"
- Voce fuori campo: "Francesco ci sei? Stai bene? Vuoi scendere? La può finire Andrea se non ci riesci"
- Mente: "vedi, quella poveraccia ti sta facendo sicura da mezz'ora datti una mossa!"
- Corpo: "tanto poi tocca a lei venire su e rimarrà bloccata proprio qui"
- Mente: "adesso basta! Al mio tre: uno due...tre!
[nessun movimento]
- Mente: "sei uno stronzo"
- Corpo: "guarda che è colpa tua, sei tu che sei in panico"
- Voce fuori campo: "Francesco canta questa canzone dello Zecchino d'Oro che ti rilassa: il lungo, il basso, il pacioccone..."
- Mente: "per colpa tua tutti penseranno che siamo dei cretini"
- Corpo: "io non mi preoccupo di quello che pensa la gente di me"
- Mente: "allora perchè contrai gli addominali in spiaggia?"
- Corpo: "mi hai rotto, non lo faccio per te, ma adesso vado"
[entrambi cadono di un paio di metri]
- Mente e Corpo: "ops siamo caduti"
- Mente: "e non ci siamo fatti male"
- Corpo: "dai un occhio al passaggio che ci riproviamo"
- Mente: "non sembra difficile, ci sono dei buoni piedi"
- Corpo: "allora vado"
- Mente: "io ti lascio fare, ci vediamo in cima"
Non sono solo i cavalli ad avere dei nomi senza moltzo senso (il mio preferito era Pocket Coffee), ci sono anche i brani jazz, soprattutto quelli strumentali. A patre quelli che tentano di descrivere a parole l'andamento della musica, tipo 'Un sasso nello stagno', 'Dissonanze'o 'Improvisation 13 en la mineur', gli altri hanno titoli un po' a caso come 'Jocker in the Village', senza contare le canzoni semplicemente identificate con un numero progressivo: semplice e diretto, anche se un po' meccanico.
Qualcosa di simile avviene con le vie d'arrampicata. Alcune hanno nomi che richiamano la tecnica necessaria per salire tipo 'Solo con i piedi', 'Zig Zag', oppure 'Appigli ridicoli', la mitica via aperta sulle dolomiti da Maurizio 'Manolo' Zanolla. Ma la maggior parte ha un nome di fantasia, spesso un po' idiota, il primo che passava per la testa del tracciatore, come 'Paglia secca', 'Prurito' o 'Perché no?'.
Ieri, in una falesia al lato del lago di Lucerna, mentre il sole stava tramontando e il cervello stava più pensando alla birra messa in fresco nell'acqua che a soffrire un altro po', ho scoperto che c'era una via che si chiamava 'Wursch und Brot' (pane e salsiccia), seguita da una che si chiamava 'Sänf' (senape). Ho deciso che avrei fatto la via senape, rimandando pane e salsiccia ad un momento migliore.
Da un paio di mesi sto usando la mezz'ora di tram per andare al lavoro per leggere libri d'arrampicata che parlano estensivamente della paura: quella di cadere, quella di farsi male o dimorire, quella di fallire. Vincere la paura è la prima necessità di chi arrampica. Sembra che l'uomo sia l'unico animale a poter vincere la paura, a reprimere l'istinto di scappare per affrontare con razionalità un evento terrorizzante. Questa è la teoria. Nella pratica ho passato gran parte della giornata aggrappato alla roccia stringendo gli appigli più forte del necessario, con le gambe tremanti e il fiatone. Un diaologo si sviluppava silente a mezza via:
- Mente: "devi razionalizzare la paura"
- Corpo: "ma vai a cagare intellettuale del cazzo"
- Mente: "adesso mettiamo i piedi in alto e spingiamo"
- Corpo: "fallo tu se ci tieni tanto"
- Mente: "siamo solo un metro sopra al rinvio, anche se cadiamo non ci facciamo male"
- Corpo: "francamente preferisco rimanere incastrato in questa crepa"
- Mente: "ma fa caldo"
- Corpo: "chissenefrega"
- Voce fuori campo: "Francesco ci sei? Stai bene? Vuoi scendere? La può finire Andrea se non ci riesci"
- Mente: "vedi, quella poveraccia ti sta facendo sicura da mezz'ora datti una mossa!"
- Corpo: "tanto poi tocca a lei venire su e rimarrà bloccata proprio qui"
- Mente: "adesso basta! Al mio tre: uno due...tre!
[nessun movimento]
- Mente: "sei uno stronzo"
- Corpo: "guarda che è colpa tua, sei tu che sei in panico"
- Voce fuori campo: "Francesco canta questa canzone dello Zecchino d'Oro che ti rilassa: il lungo, il basso, il pacioccone..."
- Mente: "per colpa tua tutti penseranno che siamo dei cretini"
- Corpo: "io non mi preoccupo di quello che pensa la gente di me"
- Mente: "allora perchè contrai gli addominali in spiaggia?"
- Corpo: "mi hai rotto, non lo faccio per te, ma adesso vado"
[entrambi cadono di un paio di metri]
- Mente e Corpo: "ops siamo caduti"
- Mente: "e non ci siamo fatti male"
- Corpo: "dai un occhio al passaggio che ci riproviamo"
- Mente: "non sembra difficile, ci sono dei buoni piedi"
- Corpo: "allora vado"
- Mente: "io ti lascio fare, ci vediamo in cima"
giovedì 1 settembre 2011
Immagini da Tripoli (e qualche pensiero)
Ho seguito la guerra in Libia da un letto d'albergo, mezzo appisolato, aspettando che fosse abbastanza tardi per spegnere la luce e dormire.
Ho visto una giornalista vestita da marine (giubbotto antiproiettile e elmetto ultimo grido) entrare a Tripoli in mezzo ad una folla festante: uomini barbuti che urlavano parole incomprensibili sparando in aria come dei deficienti. Qualcuno urlava "freedom freedom" e la giornalista - che non parlava una parola d'arabo ed era l'unica cosa che riusciva a capire - si è aggrappata a quel grido come una scimmia sull'albero: il popolo voleva libertà, spiegava con grande enfasi. Immagino non si sia chiesta cos'altro dicevano quelli che non sapevano neanche quella parola d'inglese.
Quando mi sono svegliato, poche ore dopo, la stessa giornalista aveva l'aria molto meno festiva (ma sempre con l'elmetto d'ordinanza in testa). Mi informava che nella notte c'erano state centinaia di morti, ma non sapeva dire dove, né come, né perché. Non aveva neanche delle immagini da mostrare e in studio si sono affacendati a mettere delle frecce sopra una cartina di Tripoli, fondamentalmente a caso.
La sera, la stessa giornalista (sempre bardata come Robocop) intervistava un garrulo ribelle che aveva in testa il cappello di Gheddafi. Spiegava in un inglese approssimativo che era entrato nella stanza da letto del dittatore e l'aveva trovato. Dallo studio confermavano attraverso foto di repertorio che il cappello era effettivamente quello del raìs. La giornalista dichiarava che il cappello era veramente quello. Tutti erano festanti.
La mattina dopo altri morti. Gheddafi non si sapeva dov'era, in compenso c'erano cecchini d'appertutto. Il cappello riappariva sulle prime pagine dei principali quotidiani che erano stati lesti a riprendere la notizia dalla televisione con grande senso dell'immaginazione. Nessuno però spiegava cosa cazzo stava succedendo a Tripoli.
Un altro giorno è passato e questa volta c'era un giornalista uomo, anche lui in versione Rambo. Si trovava in mezzo ad una battaglia e parlava sottovoce, come se qualcuno potesse sentirlo in mezzo al casino dei kalashnikov. Benché fosse in piena Tripoli, era incapace di spiegare chi sparasse contro chi e perché.
I servizi si sono accavallati per giorni: la piscina della figlia di Gheddafi, il bambino che ha perso lo zio, il ribelle che parla un po' d'inglese, il medico disperato. Ad un certo punto - in mezzo alla massa di barbe, kalashnikov e "Allah Akbar" - è apparsa anche una donna (l'unica che ho visto in giorni e giorni). Ha anche detto qualcosa di sensato, ma la giornalista non le ha fatto caso.
Dalla prospettiva di un telespettatore con una discreta conoscenza del Nordafrica (che tutti si ostinano a chiamare Medio Oriente) ho una sola domanda: a cosa serve mandare decine di giornalisti vestiti da militari e ricevere ore e ore di filmati se nessuno è in grado di dare la minima spiegazione di quello che succede?
Ho visto una giornalista vestita da marine (giubbotto antiproiettile e elmetto ultimo grido) entrare a Tripoli in mezzo ad una folla festante: uomini barbuti che urlavano parole incomprensibili sparando in aria come dei deficienti. Qualcuno urlava "freedom freedom" e la giornalista - che non parlava una parola d'arabo ed era l'unica cosa che riusciva a capire - si è aggrappata a quel grido come una scimmia sull'albero: il popolo voleva libertà, spiegava con grande enfasi. Immagino non si sia chiesta cos'altro dicevano quelli che non sapevano neanche quella parola d'inglese.
Quando mi sono svegliato, poche ore dopo, la stessa giornalista aveva l'aria molto meno festiva (ma sempre con l'elmetto d'ordinanza in testa). Mi informava che nella notte c'erano state centinaia di morti, ma non sapeva dire dove, né come, né perché. Non aveva neanche delle immagini da mostrare e in studio si sono affacendati a mettere delle frecce sopra una cartina di Tripoli, fondamentalmente a caso.
La sera, la stessa giornalista (sempre bardata come Robocop) intervistava un garrulo ribelle che aveva in testa il cappello di Gheddafi. Spiegava in un inglese approssimativo che era entrato nella stanza da letto del dittatore e l'aveva trovato. Dallo studio confermavano attraverso foto di repertorio che il cappello era effettivamente quello del raìs. La giornalista dichiarava che il cappello era veramente quello. Tutti erano festanti.
La mattina dopo altri morti. Gheddafi non si sapeva dov'era, in compenso c'erano cecchini d'appertutto. Il cappello riappariva sulle prime pagine dei principali quotidiani che erano stati lesti a riprendere la notizia dalla televisione con grande senso dell'immaginazione. Nessuno però spiegava cosa cazzo stava succedendo a Tripoli.
Un altro giorno è passato e questa volta c'era un giornalista uomo, anche lui in versione Rambo. Si trovava in mezzo ad una battaglia e parlava sottovoce, come se qualcuno potesse sentirlo in mezzo al casino dei kalashnikov. Benché fosse in piena Tripoli, era incapace di spiegare chi sparasse contro chi e perché.
I servizi si sono accavallati per giorni: la piscina della figlia di Gheddafi, il bambino che ha perso lo zio, il ribelle che parla un po' d'inglese, il medico disperato. Ad un certo punto - in mezzo alla massa di barbe, kalashnikov e "Allah Akbar" - è apparsa anche una donna (l'unica che ho visto in giorni e giorni). Ha anche detto qualcosa di sensato, ma la giornalista non le ha fatto caso.
Dalla prospettiva di un telespettatore con una discreta conoscenza del Nordafrica (che tutti si ostinano a chiamare Medio Oriente) ho una sola domanda: a cosa serve mandare decine di giornalisti vestiti da militari e ricevere ore e ore di filmati se nessuno è in grado di dare la minima spiegazione di quello che succede?
domenica 28 agosto 2011
Big game
Il campo non è quello della finale della coppa del mondo. L'erba è secca, ci sono un paio di pozzanghere piene di fango, buche, escrementi di impala. Ci sono una decina di spettatori della specie homo sapiens sapiens e qualche dozzina di altre specie: scimmie, facoceri e bufali, più concentrati a bere lontano dai predatori che sul risultato della partita. Una porta è formata dalle ciabatte del segretario generale della federazione di calcio della Namibia (ex portiere della nazionale per la cronaca). L'altra è formata dalla borsa del suo collega dello Zimbabwe. In mezzo giocatori di varie razze e colori: dal quasi rosa al quasi nero. L'unica cosa che richiama una vera partita di calcio è il pallone: Adidas, nuovo di fabbrica. Per il resto c'è gente che gioca in calzini, altri in pantofole, qualcuno con dei mocassini. Chiaramente i pochi che hanno delle scarpe da calcio hano un certo vantaggio, come quelli che pesano meno di cento chili e quelli che hanno meno di settant'anni.
Il mio ruolo, come sempre - dal Rwanda alle Galapagos - è quello del giocatore di quantità (si fa per dire). Corro in lungo e in largo, scivolando nel fango e coprendomi di polvere passando per le buche scavate dai facoceri. Faccio anche un gol, convalidato dal compiacente arbitro-collega.
La partita finisce sul 2 a 2 (anche qui grazie all'arbitro). Poi tutti negli spogliatoi. A cena c'è chi zoppica, mentre c'è addirittura chi arriva in sedia a rotelle causa strappo muscolare.
Il mio ruolo, come sempre - dal Rwanda alle Galapagos - è quello del giocatore di quantità (si fa per dire). Corro in lungo e in largo, scivolando nel fango e coprendomi di polvere passando per le buche scavate dai facoceri. Faccio anche un gol, convalidato dal compiacente arbitro-collega.
La partita finisce sul 2 a 2 (anche qui grazie all'arbitro). Poi tutti negli spogliatoi. A cena c'è chi zoppica, mentre c'è addirittura chi arriva in sedia a rotelle causa strappo muscolare.
sabato 13 agosto 2011
Street Parade
Una volta all'anno Zurigo impazzisce. Succede in un fine settimana di mezza estate, nel periodo più sonnolento dell'anno. A prima vista non sembra esserci nulla di strano. Le strade sono poco frequentate come tutti i sabati, i tram girano regolari, poco traffico. Ma più ci si avvicina al lago più ci si rende conto che non è un giorno come gli altri. Iniziano ad esserci transenne, poilizia, traffico bloccato. Si inizia anche a vedere gente, sbucata da chissà dove, che cammina tutta nella stessa direzione, chi in gruppo chi da solo. E la gente è vestita in modo strano. Le ragazze sono in minigonna oppure hanno dei jeans attillati e indossano la parte sopra del bikini. Ci sono parrucche rosso fuoco, o verdi, o blu.
Oggi a Zurigo c'è la Street Parade, il festival di musica techno più conosciuto e frequantato d'Europa. Una sfilata di carri pieni gente che balla alla musica di dj famosi. La carovana si muove a lentezza di lumaca a bordo del lago, in mezzo ad una folla oceanica, vestita strana, che balla e beve e che si sfoga nei modi più assurdi e kitch. Centinaia di migliaia di persone si ritrovano ad ostentare corpi mezzi nudi - alcuni accuratamente scolpiti con estenuanti sedute di palestra, altri pateticamente flaccidi e bianchicci. L'ostentazione e la provocazione sono così sistematiche da risultare conformismo, ripetizione banale e senza fantasia di clichés visti milioni di volte. Ii tatuaggio di rigore e il piercing diventano l'anello di congliunzione tra la destra e la sinistra, tra gli svizzeri tedeschi e i gruppi di lombardi con zaino Invicta in spalla.
Ma come dicevano i latini, semel in anno licet insanire, e la funzione sociale della Street Parade è chiara. Dopo il panem tocca ai circenses. E se serve a far sfogare qualche banchiere un po' troppo rigido va bene anche questo. Nella folla si osa di più, la musica a palla dà coraggio, la birra o qualche pillola ancora di più. E così la gente si parla, i ragazzi rimorchiano le ragazze, che rispondono, sorridono e magari ballano anche . Poi domani ritorneranno tutti nelle loro divise ufficiali e non alzeranno gli occhi dal loro giornale mentre prendono il tram, senza il rischio di incrociare lo sguardo di uno sconosciuto e ancore meno di dovergli parlare.
Mentre faccio foto ad un uomo vestito da donna e ad una donna vestita da troia con lo sguardo scientifico di un antropologo, mi viene in menta l'aneddoto che mi aveva raccontato un ex-collega. Si trovava in Afghanistan all'epoca ancora controllato dai Talebani che avevano vietato la musica perché contraria al Corano. Ad un posto di blocco gli avevano trovato dei CD e gli avevano chiesto se si trattava di musica. Lui aveva mentito dicendo di no. I Talebani avevano preso i CD ed erano andati ad ascoltarli per vedere se era vero. Quando sono tornati hanno restituito i CD scusandosi e aggiungendo "avevi ragione, è solo rumore". I CD contenevano musica techno.
venerdì 5 agosto 2011
Scampoli di Namibia
Non potevo pensare – sorvolando i fuochi d’artificio che scoppiavano nel cielo di Zurigo mentre l’hostess del volo Swiss per Johannesburg annunciava un menu speciale per il giorno dell’indipendenza svizzera – che un paio di giorni dopo mi sarei ritrovato a Whindoek, seduto di fronte a Frank Frederics (quattro medaglie d’argento alle olimpiadi nei 100 e 200) e a Michelle McLean (Miss Universo 1992).
Era la festa di compleanno di Hage, primo ministro della Namibia indipendente, attuale ministro del commercio e papabile per le prossime presidenziali. Ci ero finito in virtù della mia qualità di improvvisato VIP di secondo piano, dopo essere stato intervistato dalla televisione di stato e aver ascoltato il mio nome alla radio, associato a tutta una serie di competenze e di esperienze professionali che mi erano del tutto sconosciute.
C’erano sessanta tavoli nella sala, ogni tavolo aveva dieci sedie. Se dovessi invitare seicento persone al mio compleanno non mi basterebbe facebook. Ma chissà, magari a settant’anni le cose potrebbero cambiare.
Attorno a me c’era tutto il gotha del mondo politico, imprenditoriale, giornalistico e sportivo del paese. La cena doveva iniziare alle sette di sera, ma il primo piatto è arrivato verso le nove e mezza. Nel frattempo, una serie infinita di oratori si avvicendava al podio per rendere omaggio all’illustre festeggiato: discorsi spesso ripetitivi, a volte divertenti, quasi tutti un po’ stantii, come quando si legge con fare eccessivamente naturale una battuta scritta, corretta e riscritta varie volte.
Ministri, parlamentari, eroi della resistenza, pastori protestanti, uomini d’affari ebrei, amici e parenti si avvicendavano e parlavano dell’esilio, della prigione, della lotta di liberazione del partito SWAPO contro il regime dell’apartheid, del movimento che ha portato alla nascita della Namibia moderna, dopo decenni di colonizzazione prima tedesca e poi sudafricana.
Nonostante l’autocelebrazione, la retorica, l’ideologia, l’obbedienza ai dettami del partito, gli aneddoti un po’ ammuffiti e il tono un po’ senile di quelli che parlavano, nell’aria si respirava l’orgoglio per ciò che la Namibia era diventata. Meno celebrata del Sudafrica di Mandela, ma forse più stabile sul lungo periodo, la Namibia è riuscita nel miracolo della transizione verso un regime aperto, tollerante, fondamentalmente democratico, senza cadere nel tranello della polarizzazione dello Zimbabwe o nella deriva della criminalità urbana di molte aree del Sudafrica.
Una piccola magia politica ed economica. Certo è che, tra tutte le loro qualità, i namibiani non hanno certo il dono della sintesi: il dessert è stato servito a mezzanotte e mezza, quando ormai tutti gli ospiti erano o mezzo addormentati o completamente ubriachi (in alcuni casi – come il mio – entrambe le cose).
Era la festa di compleanno di Hage, primo ministro della Namibia indipendente, attuale ministro del commercio e papabile per le prossime presidenziali. Ci ero finito in virtù della mia qualità di improvvisato VIP di secondo piano, dopo essere stato intervistato dalla televisione di stato e aver ascoltato il mio nome alla radio, associato a tutta una serie di competenze e di esperienze professionali che mi erano del tutto sconosciute.
C’erano sessanta tavoli nella sala, ogni tavolo aveva dieci sedie. Se dovessi invitare seicento persone al mio compleanno non mi basterebbe facebook. Ma chissà, magari a settant’anni le cose potrebbero cambiare.
Attorno a me c’era tutto il gotha del mondo politico, imprenditoriale, giornalistico e sportivo del paese. La cena doveva iniziare alle sette di sera, ma il primo piatto è arrivato verso le nove e mezza. Nel frattempo, una serie infinita di oratori si avvicendava al podio per rendere omaggio all’illustre festeggiato: discorsi spesso ripetitivi, a volte divertenti, quasi tutti un po’ stantii, come quando si legge con fare eccessivamente naturale una battuta scritta, corretta e riscritta varie volte.
Ministri, parlamentari, eroi della resistenza, pastori protestanti, uomini d’affari ebrei, amici e parenti si avvicendavano e parlavano dell’esilio, della prigione, della lotta di liberazione del partito SWAPO contro il regime dell’apartheid, del movimento che ha portato alla nascita della Namibia moderna, dopo decenni di colonizzazione prima tedesca e poi sudafricana.
Nonostante l’autocelebrazione, la retorica, l’ideologia, l’obbedienza ai dettami del partito, gli aneddoti un po’ ammuffiti e il tono un po’ senile di quelli che parlavano, nell’aria si respirava l’orgoglio per ciò che la Namibia era diventata. Meno celebrata del Sudafrica di Mandela, ma forse più stabile sul lungo periodo, la Namibia è riuscita nel miracolo della transizione verso un regime aperto, tollerante, fondamentalmente democratico, senza cadere nel tranello della polarizzazione dello Zimbabwe o nella deriva della criminalità urbana di molte aree del Sudafrica.
Una piccola magia politica ed economica. Certo è che, tra tutte le loro qualità, i namibiani non hanno certo il dono della sintesi: il dessert è stato servito a mezzanotte e mezza, quando ormai tutti gli ospiti erano o mezzo addormentati o completamente ubriachi (in alcuni casi – come il mio – entrambe le cose).
lunedì 18 luglio 2011
L'inizio e la fine
Ed è finita così, con una festa in un locale da fighetti del centro di Francoforte, unica concessione ad un minimo di lusso. Non ci sono più gli alti dignitari, i VIP che si muovono su binari separati dal resto del mondo. Non ci son più i riflettori, i microfoni, le telecamere, i pannelli pubblicitari e la musica a tutto volume. I fuochi d’artificio sparati dal tetto dello stadio e la pioggia di coriandoli dorati di un’ora prima fanno già parte della storia, sono stati messi in un cassetto dei ricordi del grande armadio delle emozioni.
E adesso si balla, al ritmo di musica da discoteca commerciale, innaffiati da litri di vino, birra e mojito, si balla. La regina della serata è Steffi Jones, fino a poco tempo fa conosciuta solo dai pochi eletti che seguivano il calcio femminile tedesco. Fosse un uomo, il suo nome sarebbe famoso come quello di Beckenbauer, Ballack o Mathäus. Ora sta vivendo la sua ora di gloria, vera vincitrice di questa coppa del mondo femminile di cui è l’organizzatrice. L’evento ha battuto tutti i record d’ascolto televisivo, ha fatto la storia (prima vittoria di una squadra, il Giappone, che non sia europea o americana), ha segnato l’inizio di un’epoca, ci ha regalato una delle finali più emozionanti di sempre.
E sono quasi tutte donne quelle che ballano, molte lesbiche, poche femministe. E non hanno complessi e non hanno rivendicazioni, se non quella di lasciarle fare e lasciarle giocare, come vogliono loro. E poco importa se quasi tutti i portieri del mondiale hanno fatto delle papere mostruose, o se la precisione dei passaggi ha lasciato a desiderare o se più di un disimpegno difensivo è parso a volte ridicolo. Questo non è il tempo delle analisi tecniche o dell’esegesi del gioco. Questo è il tempo di aprire le narici all’aria di un gioco nuovo, fresca e pura come quella che si respira sulle Tre Cime di Lavaredo ad inizio primavera.
Anche questo finirà. Si parla già di professionismo, di sponsor, di marketing, di comunicazione, di utilizzo strategico dei social media. I potenti del calcio del futuro indosseranno magari delle gonne ma non saranno immuni dalle enormi pressioni politiche ed economiche e all’attenzione mediatica ossessiva che caratterizza il calcio.
Ma questo domani, con mente più cinica. Oggi è più forte la leggerezza di Steffi Jones che balla con le segretarie, con il personale amministrativo, con i volontari, con chiunque le capiti a tiro. Perché nonostante sia la star della serata, ha solo voglia di saltare e giocare come una qualsiasi ragazzina in un prato di periferia.
martedì 5 luglio 2011
24 ore
La giacca blu che mi faceva assomigliare ad un ferroviere non bastava per risparmiarmi dal freddo dell'inverno australe, neanche con l'ausilio di un gilet grigio. Non erano ancora le sei di mattina e io mi trovavo nella sala VIP dell'aereporto di Harare, in attesa del volo presidenziale. Nella stanza a fianco, degli uomini biondi con la faccia da sicari camminavano avanti e indietro nervosamente. Avevano dei completi grigi gessati e delle scarpe lucide policrome, lo stile della diplomazia russa.
Un'alba d'altri tempi si stava lentamente impossessando della pista dell'aeroporto e una tazza di té tentava di scaldarmi, senza riuscirci. Un jet privato faceva sollevare una minuscola nuvola nel momento in cui i pneumatici toccavano terra. Non era il jet che aspettavo io, era quello dei russi. Scendeva un uomo con una giacca blu brillante come quella di un prestigiatore, i pantaloni bianchi, le scarpe non ricordo. Ad aspettarlo una carovana di macchine più corta di quella con cui ero arrivato io, che lo portavano via sgommando.
Ancora non sapevo che la mia foto era sulla prima pagina del giornale e che il mio nome era ripetuto almeno venti volte nell'articolo che la seguiva. Ero atterrato ad Harare il giorno prima, dopo aver viaggiato per venti ore. La foto scattata all'aeroporto non era delle migliori, ma il giornalista aveva trascritto parola per parola tutto quello che avevo detto. Non potevo lamentarmi troppo. Davanti a me c'era una giornata iniziata troppo presto che sarebbe finita troppo tardi, sicura e prevedibile come una passeggiata in un campo minato.
Ma tutto passa, anche le visite presidenziali. Di nuovo in aeroporto, questa volta per prendere il quarto di sette voli che mi avrebbero portato a Douala e poi a Zurigo, ho aperto il giornale. Di me poca traccia (solo il mio nome confuso tra quelli dei miei colleghi). In compenso a pagina due c'era la foto dell'uomo dalla giacca blu brillante venuto a parlare di investimenti minerari e agricoli. La didascalia diceva 'presidente della commissione esteri del parlamento russo', inviato del presidente Medvedev. La foto lo ritraeva mentre dava in regalo a Mugabe un kalashikov di cristallo.
Un'alba d'altri tempi si stava lentamente impossessando della pista dell'aeroporto e una tazza di té tentava di scaldarmi, senza riuscirci. Un jet privato faceva sollevare una minuscola nuvola nel momento in cui i pneumatici toccavano terra. Non era il jet che aspettavo io, era quello dei russi. Scendeva un uomo con una giacca blu brillante come quella di un prestigiatore, i pantaloni bianchi, le scarpe non ricordo. Ad aspettarlo una carovana di macchine più corta di quella con cui ero arrivato io, che lo portavano via sgommando.
Ancora non sapevo che la mia foto era sulla prima pagina del giornale e che il mio nome era ripetuto almeno venti volte nell'articolo che la seguiva. Ero atterrato ad Harare il giorno prima, dopo aver viaggiato per venti ore. La foto scattata all'aeroporto non era delle migliori, ma il giornalista aveva trascritto parola per parola tutto quello che avevo detto. Non potevo lamentarmi troppo. Davanti a me c'era una giornata iniziata troppo presto che sarebbe finita troppo tardi, sicura e prevedibile come una passeggiata in un campo minato.
Ma tutto passa, anche le visite presidenziali. Di nuovo in aeroporto, questa volta per prendere il quarto di sette voli che mi avrebbero portato a Douala e poi a Zurigo, ho aperto il giornale. Di me poca traccia (solo il mio nome confuso tra quelli dei miei colleghi). In compenso a pagina due c'era la foto dell'uomo dalla giacca blu brillante venuto a parlare di investimenti minerari e agricoli. La didascalia diceva 'presidente della commissione esteri del parlamento russo', inviato del presidente Medvedev. La foto lo ritraeva mentre dava in regalo a Mugabe un kalashikov di cristallo.
sabato 2 luglio 2011
La strana storia del dottor DSK
Dominik Strauss-Khan non è più un violentatore. E' solo un fedifrago come ce ne sono tanti, al potere e no. La sua vicenda è stata un feuilletton, un'enciclopedia del gossip e un caso socio-antropologico. Ho letto articoli su DSK in vari giornali, francesi, italiani, americani. A parte gli articoli di cronaca che riportavano tutti esattamente le stesse informazioni, gli altri - gli editoriali per intenderci - si dividevano in due categorie. Uno si aspetterebbe che - essendo DSK un socialista - le due categorie fossero politiche, per esempio: la sinistra lo difende e la destra lo attacca. Invece no. Oltrepassando barriere culturali, economiche, sociali e ideologiche si è arrivati dritti dritti a un bel "donne contro uomini". Con le prime che si sono lanciate in veementi anatemi non solo contro DSK, ma anche contro coloro che avanzavano il principio di innocenza (una ridicola scusa secondo loro) e i secondi che - contro ogni senso del pudore - dicevano più o meno velatamente un "ma che sarà mai!".
La polarizzazione delle opinioni a seconda del sesso è stata tale da offuscare quel minimo di lucidità che contraddistingue quasi sempre gli intellettuali francesi e americani (degli italiani non parlo perché non esistono). I giornalisti non scrivevano più con la testa, ma con la pancia, o meglio con i genitali. La loro identificazione con la presunta vittima o con il presunto aggressore, per quanto mascherata da figure retoriche e riferimenti colti, era totale, quasi infantile. La maggior parte degli uomini sa cosa sia il desiderio e la frustrazione sessuale, mentre la maggior parte delle donne ha sperimentato - da vicino o da lontano - la violenza maschile.
In fondo siamo tutti porci e tutte frigide.
La polarizzazione delle opinioni a seconda del sesso è stata tale da offuscare quel minimo di lucidità che contraddistingue quasi sempre gli intellettuali francesi e americani (degli italiani non parlo perché non esistono). I giornalisti non scrivevano più con la testa, ma con la pancia, o meglio con i genitali. La loro identificazione con la presunta vittima o con il presunto aggressore, per quanto mascherata da figure retoriche e riferimenti colti, era totale, quasi infantile. La maggior parte degli uomini sa cosa sia il desiderio e la frustrazione sessuale, mentre la maggior parte delle donne ha sperimentato - da vicino o da lontano - la violenza maschile.
In fondo siamo tutti porci e tutte frigide.
domenica 26 giugno 2011
Wimbledon a Gaborone
Del Botswana ho visto Wimbledon: i prati verdi perfetti come tappeti, le linee bianche disegnate con il gesso, i giudici di linea con camicie a righe verdi e bianche, con cravatte a righe trasversali viola e verdi. Gli inglesi hanno inventato il tennis, il calcio, la common law, la democrazia moderna, ma per l’accostamento dei colori e per la scelta delle cravatte c’è ancora spazio per un certo miglioramento.
Ma Wimbledon è Wimbledon, le sue regole eterne come il fascino di un mito. Nell’inverno dell’emisfero australe, in una città in mezzo alla savana, un nugolo di esperti di calcio snobba i mondiali U-17 in Messico (pessima prestazione del mio Rwanda) e gli europei U-21 in Danimarca per guardare partite del primo turno: carneadi che vengono catapultati nel Centrale per essere presi a randellate da Federer o Nadal. Partite senza storia, in cui la classe degli uni fa a pugni con le speranze degli altri, un po’ come il viola litiga con il verde.
Ho iniziato a seguire Roger Federer nel 2004, da una connessione satellitare che mi era stata messa gentilmente a disposizione per evitare che ammattissi. Saravena, il posto in cui lavoravo, era amicalmente conosciuta come Sarabomba. All’epoca uno dei posti più pericolosi della Colombia, in pochi si avventuravano fuori casa dopo il tramonto e a proprio rischio e pericolo. In un anno sono uscito la sera quattro o cinque volte, guidando una macchina piena di croci rosse giganti e sempre con la luce dell’abitacolo accesa.
Per un anno il tennis è stato il mio migliore amico. Quando avevo tempo giocavo con David, professore di educazione fisica alla scuola locale. David non aveva cellulare e non aveva telefono fisso. Bisognava passare da casa sua, ma – visto che non aveva campanello – bisognava chiedere al panettiere sotto casa di aprire il portone del condominio e bussare alla porta (neanche all’interno c’era campanello). Normalmente non era a casa per cui gli lasciavo dei bigliettini sotto la porta sperando che li leggesse a tempo.
Giocavamo dalle sei alle sette di mattina, l’unico momento in cui c’era abbastanza luce e non faceva troppo caldo. David arrivava in bici, portando a tracolla la racchetta e la rete che montavamo in un campo da basket. Non si trattava proprio del fondo del Flashing Meadows, ma si poteva giocare. Bisognava solo stare attenti a non arretrare troppo per non sbattere contro i piloni del canestro, oppure scivolare sull’erba e il fango che circondava il campo. Non essendoci recinzione, la metà del tempo era persa andando a cercare le palline semicoperte dall’erba alta.
Una domenica che non lavoravo mi ero messo a guardare il tennis in televisione. Federer – all’epoca invincibile – era in finale contro un baby Nadal nel torneo di Indian Wells. Nadal sembrava l’agnello sacrificale di Federer, un po’ come adesso il kazakho Kukushkin che è stato spazzato via al primo turno di Wimbledon. Ma Nadal non era Kukushkin e aveva vinto i primi due set (all’epoca le finali dei Masters si giocavano su cinque sets). Sembrava che l’impossibile si stesse materializzando: Davide stava battendo Golia per prenderne il posto. Ma era ancora il 2004 e Federer non era ancora psicologicamente dominato dal suo alter ego e riuscì a vincere il terzo e quarto set per andare al quinto. Sul 3 a 2 per Federer con una palla break, l’elettricità saltò improvvisamente. Mi resi subito conto che non si trattava di una delle innumerevoli brevi interruzioni, quasi quotidiane (acqua, telefono, internet e elettricità andavano e venivano con la stessa frequenza di battiti di ciglia). Quel giorno l’interruzione sarebbe durata molto più a lungo perché un gruppo di guerriglia aveva fatto saltare un traliccio dell’alta tensione.
Sperai che Nadal prendesse ancora più tempo del solito prima di servire e mi precipitai al piano di sotto per far partire il generatore d’emergenza. Tirai la corda (il generatore non aveva motore d’avviamento e si accendeva come il motore di una barca). Tirai ancora e poi ancora e poi ancora, fino ad avere le vesciche sulle mani. Dopo venti minuti mi arresi all’evidenza: il generatore non sarebbe mai partito, io non sarei riuscito a vedere la fine della partita. Non so neanche se bestemmiai (all’epoca ero abituato alle vendette degli elementi superiori e avevo imparato ad accettarle con rassegnazione). Tornai in casa e mi misi al computer. Riuscii a connettermi ad internet (connessione analogica che quel giorno stranamente funzionava) e a seguire la vittoria di Federer attraverso i numeri sterili dei punti.
Due settimane dopo, incontrando il capo del gruppo guerrigliero che aveva fatto saltare il traliccio gli chiesi gentilmente di non pianificare attentati in corrispondenza di finali di importanti tornei di tennis. Il comandante pensò che scherzassi e mi offrì una birra.
giovedì 16 giugno 2011
In ordine sparso: del Gabon e di altre cose
Lunedì sera ero appeso a venti metri da terra, aggrappato ad un pezzo di plastica giallo e nero. Avevo passato la corda nell’ultimo rinvio e mi mancava solo poco più di un metro per arrivare alla sosta. Un metro di troppo. La cosa più difficile quando arrampichi è non pensare che sei in aria e che devi solo fare un passo, una piccola spinta e aggrapparti alla presa più sopra. C'è differenza tra idea e azione.
Ventiquattr’ore dopo stavo camminando su una spiaggia deserta a Libreville. Le onde che arrivavano sul bagnasciuga erano quelle del fiume Komo, che forma il delta in cui sorge la capitale del Gabon. Il sole si era ritirato dietro una fitta tenda di nuvole bianche e grigie, più minacciose che piovose. C’era un leggero vento caldo, poca luce, silenzio. Camminando mi sono imbattuto in un uomo vestito da militare che mi ha chiesto una birra. Ho fatto finta di non capire e sono tornato verso il mio albergo con passo più spedito.
Il giorno dopo mi sono ritrovato seduto sul sedile posteriore di una macchina bloccata nel traffico della città (il Gabon è uno degli stati più ricchi dell’Africa centrale e quindi i suoi abitanti si dilettano nell’arte dell’imbottigliamento industriale). Passando al rallentatore a fianco a donne che vendevano frutta e verdura al lato della strada, ascoltavo la trasmissione radio di RFI, Radio France Internationale, dedicata alla differenza tra il savoir vivre e la politesse. La conduttrice riceveva telefonate dal Congo o dal Burkina Faso in un perfetto accento parigino e con tono palesemente paternalistico. Come si compiacciono i francesi del loro snobismo è impossibile capire.
E’ passato un altro giorno, della città ho visto un campo che un giorno diventerà da calcio, edifici del governo, banche, ambasciate, la foto di Omar Bongo Odimba (presidente del Gabon per 42 anni e padre dell'attuale presidente) nonché il centro commercial Géant-Casino, che è il più grande dell’Africa centrale. Ho anche visto la base aerea francese, vicino a cui facevano jogging dei robusti ragazzoni pallidi, con un taglio di capelli che non lasciava dubbi. La sera c'era un'eclissi di luna ignorata da tutti, o quasi.
La mattina dopo la trasmissione di RFI era dedicata alle devianze sessuali. Uno stuolo di psicologi e sessuologi si alternava a descrivere con il tono distaccato della scienza quante eiaculazioni quotidiane costituivano devianza e quante no. Ho anche scoperto che 21 orgasmi settimanali costituiscono una buona indicazione per l’iperattivismo sessuale. Benché non patologica, si diceva, la cosa non è comunque raccomandabile (o in caso trovatevi un partner molto paziente o affetto da narcolessia). Una sessuologa particolarmente accomodante ha anche spiegato che se vostra moglie accetta relazioni solo ogni tre mesi è naturale sentire una pulsione sessuale. Non siete malati. Non dovete sentirvi in colpa. Idem con la masturbazione, basta che sia controllata. Sono da evitare gli eccessi, come il caso di un avvocato francese che si autocompiace 10-12 volte al giorno: non diventerete ciechi, ma la vostra produttività sul lavoro rischia di risentirme.
domenica 5 giugno 2011
No Sex in the City
C'era un tempo Sex and the City, che da frivolo telefilm era diventato un mezzo di liberazione femminile. Nell'arco di qualche anno il vibratore a forma di coniglietto usato da una delle protagostiste aveva moltiplicato le vendite per mille: le donne avevano scoperto il piacere senza vergogna (e pazienza se per averlo fosse necessario un supporto meccanico).
Sex and the City ha insegnato ai maschi del mondo che le donne avevano anch'esse un desiderio, benché inesorabilmente nascosto dietro un multistrato di isteria logorroica, elemento imprescindibile quando si parla di genere femminile. Il telefilm ci aveva anche insegnato la banalità del male, l'insostenibile superficialità della tanto decantata complessità femminile. Stuoli di analiste, sessuologhe, psicologhe e femmine di ogni ordine e grado avevano benedetto e ufficializzato negli anni il ruolo sociale di Sex and the City come motore dell'emancipazione del sesso debole. Tale movimento di massa aveva fatto nascere una scintilla di speranza negli animi maschili. Qualcuno si è anche detto: non è che per caso a qualcuna non venga anche voglia di trombare?
Passati gli anni la bolla si è lentamente sgonfiata. In breve e inesorabile tempo siamo passati, quasi senza accorgercene, a una generazione molto meno spregiudicata, annoiata, che si crede matura: quella di No Sex in the City. E' dopo attento e preciso studio che la comunità scientifica è giunta alla conclusione che le proto-quarantenni hanno abbandonato il piacere come obiettivo a corto termine per abbracciare un'ideologia neo-verginale di lungo periodo. Un po' come l'Innominato che tenta di riparare ai suoi crimini passati con il fervore del buon cristiano, le appartenenti a questa nuova generazione riscoprono in tarda età il beneficio purificatore del nubilato e si dedicano anima e corpo (più la prima che il secondo) alla ricerca della felicità: l'amore puro, quello non macchiato dal vile incontrarsi di organi sessuali e liquidi organici. La donna No Sex in the City si spoglia della sua materialità terrena per abbracciare un'intensa spiritualità. Assieme alle sue simili passa ore e ore a discutere dell'amore e a sognare di ricchi principi azzurri, uomini virtuosi che sono interessati esclusivamente alla loro bellezza interiore, possibilmente completamente scevri da inutili ormoni. Alcune sognano di diventare lesbiche, per poter risolvere il problema alla radice. Ed è così che avviene la riscoperta di un'adolescenza postuma, fatta di disillusioni e patimenti, speranze e quotidiana realtà, cinismo e menopausa.
Benché ostentatamente disinteressate alla pratica, la generazione del No Sex in the City continua comunque a parlare di sesso in grande quantità, soprattutto in gruppo. Come dei veterani di guerra che parlano delle loro gesta giovanili, anche le neo-vergini si ritrovano attorno ad un tavolo (sono spesso semi-alcolizzate oltre che tabagiste incallite) ad esprimere giudizi espliciti su uomini conosciuti e sconosciuti.
Il tutto in attesa che un altro telefilm ci dica come andrà a finire la storia.
sabato 28 maggio 2011
Accra
C’è un immenso ingorgo all’uscita dall’aeroporto, macchine bloccate sotto il sole e venditori che cercano di attirare lo sguardo di automobilisti rassegnati. E’ la scena tipica di molte città africane. La povertà si vede per strada. Invece qui è diverso. I venditori ambulanti non tentano di spacciare fazzoletti di carta, o sigarette, o caramelle. Qui si vendono quotidiani che parlano di politica, DVD, CD, persino dei libri di marketing. Questa è Accra, capitale del Ghana, il posto in cui è nato Nkwame Nkruma, uno dei leader della lotta al colonialismo, il padre dell’identità africana, che cinquant’anni dopo – anche grazie a una coppa del mondo di calcio in un Sudafrica riunificato e benedetto dall’orgia mediatica – inizia finalmente ad avere un senso tangibile e non solo ad essere vacua retorica. Qui è anche nato Kofi Annan, il Segretario Generale delle Nazioni Unite che è riuscito a sopravvivere al periodo più instabile della storia recente: Balcani, Sierra Leone, Liberia, Caucaso e una varietà multipla e variegata di conflitti “etnici” frutto del passaggio dalla guerra fredda a quella riscaldata.
Ad Accra ci sono cartelli agli incroci che dicono “riparo lavatrici” oppure “il tuo sito web in 24 ore”. Qui ci sono lavatrici, computer, stereo e lettori DVD e gente che li usa. Ci sono anche milioni di macchine. Come in Angola, il primo indice di sviluppo economico è un`immenso serpente sferragliante che si muove a lentezza di lumaca. Qui, almeno, gli automobilisti non tentano di ammazzarsi a vicenda. Una caratteristica dei ghanesi che ho notato in questo giorni passati ad una conferenza sul calcio africano è che sono di una gentilezza incredibile. Qualsiasi malinteso si risolve in un sorriso e in un accordo. In pochi altri paesi africani la modernità si è fusa in modo così armonico con la tradizione. Non si sente alcun tipo di senso di inferiorità, nemmeno represso. Come si dice in francese “les gens ici sont bien dans leur peau”.
In Ghana si gioca a calcio, ci mancherebbe altro. A differenza degli altri stati africani il Ghana vince. Solo per colpa di qualche centimetro di troppo non è stato il primo paese africano a qualificarsi per le semifinali di una coppa del mondo. Quel giorno mi trovavo a Bogotà, nella stazione dei bus. Per me è stato uno spettacolo unico. Per la gente di qui il passaggio dall’euforia alla disperazione.
Se parli con i tassisti inizia una sfila di nomi più o meno conosciuti: Essien, Gyan, Boateng, Muntari, Appiah. Sono gli eroi del calcio d’esportazione. Nessuno ti sa dire la formazione della squadra in testa al campionato locale, ma se vuoi quella del Chelsea o del Milan non c’è problema. C’è qualcosa che mi colpisce sempre dei giocatori ghanesi che giocano in Europa: anche loro sono gentili. Non dicono cazzate, non provocano, non si tingono i capelli di verde, non hanno piercing. Sono normali, stanno bene nella loro pelle.
sabato 21 maggio 2011
Saltatempo
Sono entrato due volte nella macchina del tempo. La prima fu in Bielorussia nel settembre 2001. All’epoca feci un salto quantico di vent’anni, per ritrovarmi in piena epoca sovietica, visitando sovkhoz, comitati del popolo e stanze del potere ornate di tutta la simbologia comunista: busti di Lenin, soli dell’avvenire e falci e martelli come se piovesse.
La seconda volta che ho preso la macchina del tempo è stato all’inizio della settimana scorsa, per ritrovarmi negli anni quaranta. Il centro di Asmara, la capitale dell’Eritrea, è rimasto praticamente identico a come gli italiani lo hanno lasciato alla fine del ridicolo tentativo di costruire un impero africano. Le strade sono quelle disegnate dal piano urbanistico e gli edifici seguono le linee spigolose degli incroci con curve d’epoca. Asmara è l'unica città "italiana" cresciuta con razionalità e pianificazione. E tutto è stile: dal rigido razionalismo degli edifici pubblici, all’art déco delle villette dell’élite, alle linee futuriste della stupefacente pompa di benzina "FIAT Tagliero", costruita a forma di aereo. I cinema di Asmara si chiamano cinema Impero, cinema Roma, cinema Odeon, cinema Dante Alighieri, alcuni ancora con le poltrone originali.
Per le strade pochissime macchine, niente traffico, qualche carro trainato da un asino. La scuola-guida usa delle 600 che sembrano uscite da un museo dell’automobilismo. E poi ancora camion FIAT et IVECO d’epoca che avanzano alla velocità dei loro anni, emettendo nuvole di fumo nero.
A cenare al circolo italiano ci si sente come in un film di Rossellini: un cortile pieno di alberi e tavoli rotondi, sembra di essere a Roma. Il proprietario è un signore che ha passato più di trent’anni a Torino e parla un italiano forbito e classico, quasi stucchevole nella sua perfezione sintattica. Ci offre prosciutto e melone, spaghetti ai gamberi e vitello tonnato. Dietro di me, sopra l’affettatrice con il San Dianiele, c’è un’insegna della Birra Moretti.
Gli italiani hanno lasciato l'architettura, il cibo e...il calcio. Sport nazionale per eccellenza, è principalmente giocato su campi senza un filo d'erba come quello di Kerem, che tra qualche mese - se tutto va bene - dovrebbe diventare un campo sintetico di ultima generazione da fare invidia a San Siro. Per il momento è un rettangolo sabbioso su cui ventidue giocatori fanno errori clamorosi a porta spalancata e gli arbitri fischiano fuorigioco fantasiosi, sedotti da guardialinee un po' troppo ligi al dovere. Mentre il pallone rimbalza sul terreno irregolare con traiettorie imprevedibili, dalle tribune arrivano le grida dei ragazzini: "fallo!", "fuorigioco!", "mano!". Manca solo "arbitro cornuto". Assieme al calcio ci siamo dimenticati di trasmettere il disprezzo per le regole.
domenica 15 maggio 2011
Curve sinuose
Se dovessi disegnare un grafico dell'andamento del mio umore quando inizio a vivere in un posto nuovo, ne uscirebbe una curva perfettamente sinusoidale, qualcosa del tipo y=senx. C'è quell'eccitazione iniziale dovuta ad un mondo nuovo, con nuove regole e nuove facce, la necessità di soddisfare i bisogni primari: trovare casa, trovare un supermercato, il cinema, comprare mobili, la bicicletta, fare l'abbonamento del tram. E' la parte più dura fisicamente ma anche più facile psicologicamente, perché si obbedisce all'istinto e c'è poco da pensare, se non altro per chi ha dei gusti definiti oppure una certa tolleranza al diverso.
La curva sale e poi scende. Ma nella fase iniziale si pensa sempre che sia normale: verrà un momento di stabilità, almeno così si crede. Passano le settimane, poi i mesi e alla fine non si è più "the new kid on the block", si fa già quasi parte del paesaggio, si conoscono i tragitti di quasi tutti i tram, non si deve più chiedere agli sconosciuti dov'è quel tal posto o quel tal altro. Si iniziano anche a conoscere delle persone, a fare delle cose, magari anche una cena ogni tanto.
E poi ti ritrovi un sabato pomeriggio di tempo variabile, quello in cui la gente non scende in strada come tanti rivoli che si riversano verso il fiume, ma tende a rimanere un po' rintanata, paurosa di chissà quale evento nefasto. E poi mandi un sms, scrivi un'e-mail, un messaggio su facebook, magari un altro sms. E regolarmente ti ritorna indietro tutto come se stessi giocando contro Nadal ed attaccato c'è un "no grazie". La gente è sempre così terribilmente occupata in questa città. Bisogna programmare la vita sociale a tre mesi, come i pagamenti dei fornitori. E se qualcuno ti risponde è già un onore, perché la vera moda è semplicemente ignorare un messaggio. "You know I have to read hundreds of work e-mails per day, private messages are the last of my priorities" mi sono sentito dire senza il minimo accento di vergogna da una collega che si crede la reincarnazione di Nicole Kidman (per chi non lo sapesse la vera Nicole Kidman è tenuta sotto formalina nel museo delle cere).
E allora come passare un sabato sera di mezzo maggio, mezzo freddo e mezza pioggia? C'è una partita di tennis fenomenale e qualche rumore che viene dalla strada. E poi si può dormire. Visto che hai dormito fino a mezzogiorno e hai fatto una siesta di due ore nel pomeriggio vale la pena riposarsi un altro po'.
La domenica ti svegli alle nove e ti chiedi se qualcuno ti ha cercato, per caso o per sbaglio. Chiaramente no. Ma nel parco vicino a casa c'è un posto in cui hai sempre voluto far colazione ma che - visto che il tempo è sempre stato bello fin'ora - aveva sempre e costantemente tutti i tavoli occupati. Ma oggi il tempo è come ieri e quindi la gente rimane in casa, trincerata come se fosse la seconda guerra mondiale. Quindi c'è un tavolo libero, anzi più di uno. E la cameriera non è bella ma ha qualcosa di molto interessante ed è forse la prima donna che dà l'impressione di vederti quando ti guarda, ma forse lo fa solo per avere una mancia più generosa. Incominci un libro di seicento pagine che tanto hai tempo, e invece di deprimerti pensi che è una bella mattinata e che attorno a te c'è gente interessante (lo deduci dalle loro facce e dai loro vestiti perché chiaramente non conosci nessuno). E mentre fai una colazione tardiva ti viene in mente che vuoi andare ad arrampicare. Ti fa ancora male il polso dall'ultima volta, quando hai voluto fare Tarzan e sei caduto come una pera. Quindi prendi il telefono che nel frattempo ha ricevuto sei e-mail (tutte di lavoro) e chiami Christian con cui ti eri messo d'accordo per andare in palestra domenica. E Christian risponde e fa un po' lo stupito (si ricorda bene dell'appuntamento ma ogni volta sembra un po' sorpreso): è contento di venire. Ti dà appuntamento alle due. E così hai qualcosa da fare, anzi qualcosa che ti piace e non dovrai elemosinare attenzione o fare il brillante, perché c'è solo uno scopo finale in quello che andrai a fare: arrivare in cima il meno stanco possibile. E fa niente se lo stile lascia a desiderare e attorno a te c'è gente che sembra l'incrocio tra una scimmia e Spiderman. La battaglia è contro te stesso e basta. E gli sms e le e-mail e i messaggi facebook rimarranno nell'armadietto, chiusi con un lucchetto.
sabato 7 maggio 2011
Predicare pallido e assorto
Era da quasi un anno che non sentivo un farneticare mistico di quel livello. L'ultimo che mi viene in mente risale al Nicaragua, su un bus che mi stava portando tra scosse micidiali e un caldo infernale verso Juigalpa. La donna che mi stava urlando in faccia parlava di Dio, di peccati, di punizioni atroci e del flagello della droga (che non si sa perché spunta sempre fuori). Poi ha distribuito dei volantini di una chiesa evangelica e si è messa a vendere dentifrici con ottimi risultati (il senso di colpa è legato a doppio filo con il portafoglio).
Il delirio mistico di Zurigo è stato meno commerciale, ma non meno violento. Anche qui una donna, segno che l'emancipazione si diffonde in tutte le direzioni. Il discorso all'apparenza articolato non aveva alcun senso logico, ma il suo inglese condito da un accento asiatico era molto affascinante. E' salita su una panchina e si è messa a predicare tra la gente che si era riversata in riva al lago per catturare gli ultimi raggi di sole del venerdì pomeriggio, accatastati gli uni sugli altri come un gruppo di iguane marine, qualcuno anche brandendo degli enormi würstel come fossero delle spade. Poco lontano un emule di Jimi Hendrix suonava una chitarra elettrica: da Woodstock alla Borsa di Zurigo il passo è breve.
Io ero assorto in pensieri vari e assortiti, di cui quasi nessuno molto coerente e praticamente tutti molto pieni di una certa delusione quasi stantìa. Ogni tanto guardavo la donna che continuava la sua invettiva contro il marcio dei governi, sbracciandosi in favore della Salvezza e della Parola. Qualche passante gridava un Halleluja senza fermarsi e senza riuscire a fermarla.
Mi piace guardare la gente, osservarla camminare, parlare al cellulare, prendere il tram o stare sdraiata in riva al lago. Trovo l'umanità sconosciuta e casuale più intrigantedi quella più conosciuta e usuale. E così mi sono messo ad osservare un gruppo di ragazzetti vestiti da fighetti che stava proprio vicino alla predicatrice. E tra questi c'era un ragazzetto più fighetto degli altri, con i capelli tagliati di recente e una camicia di un bianco quasi artificiale, sbottonata proprio al punto giusto. E aveva degli occhiali neri e stava fumando una sigaretta ccon molta intensità ed è perfettamente cosciente che il gesto che sta facendo ha una valenza plastica che supera il valore della sigaretta stessa: era la descrizione pura del senso di superiorità.
A fianco al ragazzetto c'era una ragazza piuttosto carina. Una di quelle rare ragazze che non sono pienamente coscienti della propria bellezza. C'era qualcosa di insicuro in lei e guardava il ragazzetto con certi occhi in cui si mischiava un'indiscussa ammirazione a un desiderio di complicità represso.
Non so se lui se ne fosse accorto, forse troppo concentrato sulla perfezione del suo gesto di esperto fumatore per avere sufficiente interesse per lei. Comunque ad un certo punto il ragazzetto ha iniziato a prendere in giro la predicatrice, dicendole cose che non ho capito bene (ero un po' troppo distante o forse la mia sordità sta crescendo). La donna ha continuato la sua predica ed il gruppetto, già un po' alticcio e galvanizzato dall'effetto-branco, ha iniziato a gridarle contro e a ridere e a fare gesti e in tutti quei gesti c'era così tanta arroganza che non veniva alcuno dubbio che nessuno di loro si vergognava di essa o di sé. Alcuni se ne sono andati urlandole dietro ta gueule e non ho capito se fossero francesi oppure se usassero una delle tante espressioni che gli svizzeri tedeschi prendono in prestito da altre lingue, come sorry sorry o merci.
La donna ha continuato l'orazione, anche se con meno passione. Essere insultati non deve essere piacevole neanche se te ne freghi dell'opinione che gli altri hanno di te. Poi si è spostata ed è venuta vicino a me, mettendosi dietro a due ragazze che mangiavano da un contenitore di plastica tenendo un cane piccolo e ricciuto al guinzaglio. E ha ripreso a parlare. E anche qui una delle due ragazze si è girata e le ha urlato ta gueule e poi ha riso, non so se per imbarazzo o per fierezza e i nostri occhi si sono incrociati per una frazione di secondo e lì ho capito che era più la fierezza che l'imbarazzo, anche se sembrava chiedere inconsciamente la mia approvazione.
Ho distolto gli occhi dai suoi, ho preso la mia giacca e mi sono incamminato lentamente verso la fermata del tram numero 2, direzione Farbhof.
Il delirio mistico di Zurigo è stato meno commerciale, ma non meno violento. Anche qui una donna, segno che l'emancipazione si diffonde in tutte le direzioni. Il discorso all'apparenza articolato non aveva alcun senso logico, ma il suo inglese condito da un accento asiatico era molto affascinante. E' salita su una panchina e si è messa a predicare tra la gente che si era riversata in riva al lago per catturare gli ultimi raggi di sole del venerdì pomeriggio, accatastati gli uni sugli altri come un gruppo di iguane marine, qualcuno anche brandendo degli enormi würstel come fossero delle spade. Poco lontano un emule di Jimi Hendrix suonava una chitarra elettrica: da Woodstock alla Borsa di Zurigo il passo è breve.
Io ero assorto in pensieri vari e assortiti, di cui quasi nessuno molto coerente e praticamente tutti molto pieni di una certa delusione quasi stantìa. Ogni tanto guardavo la donna che continuava la sua invettiva contro il marcio dei governi, sbracciandosi in favore della Salvezza e della Parola. Qualche passante gridava un Halleluja senza fermarsi e senza riuscire a fermarla.
Mi piace guardare la gente, osservarla camminare, parlare al cellulare, prendere il tram o stare sdraiata in riva al lago. Trovo l'umanità sconosciuta e casuale più intrigantedi quella più conosciuta e usuale. E così mi sono messo ad osservare un gruppo di ragazzetti vestiti da fighetti che stava proprio vicino alla predicatrice. E tra questi c'era un ragazzetto più fighetto degli altri, con i capelli tagliati di recente e una camicia di un bianco quasi artificiale, sbottonata proprio al punto giusto. E aveva degli occhiali neri e stava fumando una sigaretta ccon molta intensità ed è perfettamente cosciente che il gesto che sta facendo ha una valenza plastica che supera il valore della sigaretta stessa: era la descrizione pura del senso di superiorità.
A fianco al ragazzetto c'era una ragazza piuttosto carina. Una di quelle rare ragazze che non sono pienamente coscienti della propria bellezza. C'era qualcosa di insicuro in lei e guardava il ragazzetto con certi occhi in cui si mischiava un'indiscussa ammirazione a un desiderio di complicità represso.
Non so se lui se ne fosse accorto, forse troppo concentrato sulla perfezione del suo gesto di esperto fumatore per avere sufficiente interesse per lei. Comunque ad un certo punto il ragazzetto ha iniziato a prendere in giro la predicatrice, dicendole cose che non ho capito bene (ero un po' troppo distante o forse la mia sordità sta crescendo). La donna ha continuato la sua predica ed il gruppetto, già un po' alticcio e galvanizzato dall'effetto-branco, ha iniziato a gridarle contro e a ridere e a fare gesti e in tutti quei gesti c'era così tanta arroganza che non veniva alcuno dubbio che nessuno di loro si vergognava di essa o di sé. Alcuni se ne sono andati urlandole dietro ta gueule e non ho capito se fossero francesi oppure se usassero una delle tante espressioni che gli svizzeri tedeschi prendono in prestito da altre lingue, come sorry sorry o merci.
La donna ha continuato l'orazione, anche se con meno passione. Essere insultati non deve essere piacevole neanche se te ne freghi dell'opinione che gli altri hanno di te. Poi si è spostata ed è venuta vicino a me, mettendosi dietro a due ragazze che mangiavano da un contenitore di plastica tenendo un cane piccolo e ricciuto al guinzaglio. E ha ripreso a parlare. E anche qui una delle due ragazze si è girata e le ha urlato ta gueule e poi ha riso, non so se per imbarazzo o per fierezza e i nostri occhi si sono incrociati per una frazione di secondo e lì ho capito che era più la fierezza che l'imbarazzo, anche se sembrava chiedere inconsciamente la mia approvazione.
Ho distolto gli occhi dai suoi, ho preso la mia giacca e mi sono incamminato lentamente verso la fermata del tram numero 2, direzione Farbhof.
lunedì 2 maggio 2011
L'ideologia della lentezza
Che cosa si nasconde dietro l'ostentata, minuziosa, perfezione del modello svizzero ? Quale oscura colpa primigenia permette di pagare solo il 10% di tasse? Quale putrido scheletro nell'armadio è stato mascherato così bene dalla linda precisione elvetica?
Queste domande mi sono posto negli ultimi mesi semza tuttavia riuscire a trovare una risposta adeguata. Non il segreto bancario (ormai superato senza troppi ingombri, non solo dalle isole Cayman, ma addirittura dal Lussemburgo), né oscuri e improbabili complotti dietrologici. No, il vero lato oscuro della forza è un altro, strisciante e insinuante eppure così evidente. Forse troppo evidente per rendersene conto a prima vista. La vera ombra della Svizzera è la lentezza.
I tram sono il fiore all'occhiello di Zurigo: puliti, nuovi, ubiqui. Senza eccezione devono essere i tram più lenti dell'universo. Perché qui non è importante arrivare prima, qui l'importante è arrivare puntuali. E quindi capita (e anche abbastanza spesso) che se prendi un tram la domenica mattina presto, questo si arresta alla fermata anche se non c'è nessuno in attesa e nessuno che scende. E poi rimane fermo in attesa come di un evento previsibile che però non si manifesta. E poi riparte, fino a fermarsi poi di nuovo e attendere ancora un po': si aspetta che il monitor a fianco del conducente in cui sono segnati gli orari con tanto di secondi, indichi che è giunto il momento di partire.
Ma la lentezza non è sono appannaggio dei mezzi di trasporto (e delle macchine non parlo neanche, ma basti citare che non esiste tratto di strada senza l'autovelox di rito), la lentezza c'è anche al supermercato. In Italia andare al supermercato sembra uno sport olimpionico. Ci sono famiglie che si organizzano come se fossero membri di una forza d'assalto dell'esercito americano: uno va a prendere il biglietto del banco dei salumi, un altro corre alla frutta e verdura, un altro si occupa dei detersivi. E poi alla cassa è una catena di montaggio.
In Svizzera sembra di essere in una casa di riposo. Appena lo svizzero entra in un supermercato entra in una fase di rincoglionimento istantaneo e acuto: cammina come uno zombie, si attarda per corsie dove è chiaro non comprerà nulla, legge le etichette anche della carta igienica (che non si sa mai). Ma il meglio di sé lo dà alla cassa: dopo aver messo pazientemente (leggi molto lentamente) i suoi acquisti sul ripiano, guarda la cassiera passare oggetto per oggetto sul lettore di codici a barre, senza muoversi, quasi incantato dai gesti veloci (ma non troppo) della donna. Poi quando il totale è servito, presenta la sua carta-coop e infine paga, generalmente con il bancomat che si ricorda all'ultimo istante di aver lasciato in fondo ad una borsa gigantesca. E' solo dopo questa lunga trafila che inizia ad inserire gli oggetti ormai suoi in uno o più sacchetti (generalmente di tela e generalmente estratti da una tasca o dalla borsa gigantesca).
Più volte ho tentato di mostrare il buon esempio imbustando la spesa mentre la cassiera (piuttosto stupefatta dall'invenzione) passava gli oggetti sul lettore di codice a barre. Ma la mia invenzione non sembra avere attecchito. Deve essere apparsa troppo veloce e quindi troppo pericolosa.
Queste domande mi sono posto negli ultimi mesi semza tuttavia riuscire a trovare una risposta adeguata. Non il segreto bancario (ormai superato senza troppi ingombri, non solo dalle isole Cayman, ma addirittura dal Lussemburgo), né oscuri e improbabili complotti dietrologici. No, il vero lato oscuro della forza è un altro, strisciante e insinuante eppure così evidente. Forse troppo evidente per rendersene conto a prima vista. La vera ombra della Svizzera è la lentezza.
I tram sono il fiore all'occhiello di Zurigo: puliti, nuovi, ubiqui. Senza eccezione devono essere i tram più lenti dell'universo. Perché qui non è importante arrivare prima, qui l'importante è arrivare puntuali. E quindi capita (e anche abbastanza spesso) che se prendi un tram la domenica mattina presto, questo si arresta alla fermata anche se non c'è nessuno in attesa e nessuno che scende. E poi rimane fermo in attesa come di un evento previsibile che però non si manifesta. E poi riparte, fino a fermarsi poi di nuovo e attendere ancora un po': si aspetta che il monitor a fianco del conducente in cui sono segnati gli orari con tanto di secondi, indichi che è giunto il momento di partire.
Ma la lentezza non è sono appannaggio dei mezzi di trasporto (e delle macchine non parlo neanche, ma basti citare che non esiste tratto di strada senza l'autovelox di rito), la lentezza c'è anche al supermercato. In Italia andare al supermercato sembra uno sport olimpionico. Ci sono famiglie che si organizzano come se fossero membri di una forza d'assalto dell'esercito americano: uno va a prendere il biglietto del banco dei salumi, un altro corre alla frutta e verdura, un altro si occupa dei detersivi. E poi alla cassa è una catena di montaggio.
In Svizzera sembra di essere in una casa di riposo. Appena lo svizzero entra in un supermercato entra in una fase di rincoglionimento istantaneo e acuto: cammina come uno zombie, si attarda per corsie dove è chiaro non comprerà nulla, legge le etichette anche della carta igienica (che non si sa mai). Ma il meglio di sé lo dà alla cassa: dopo aver messo pazientemente (leggi molto lentamente) i suoi acquisti sul ripiano, guarda la cassiera passare oggetto per oggetto sul lettore di codici a barre, senza muoversi, quasi incantato dai gesti veloci (ma non troppo) della donna. Poi quando il totale è servito, presenta la sua carta-coop e infine paga, generalmente con il bancomat che si ricorda all'ultimo istante di aver lasciato in fondo ad una borsa gigantesca. E' solo dopo questa lunga trafila che inizia ad inserire gli oggetti ormai suoi in uno o più sacchetti (generalmente di tela e generalmente estratti da una tasca o dalla borsa gigantesca).
Più volte ho tentato di mostrare il buon esempio imbustando la spesa mentre la cassiera (piuttosto stupefatta dall'invenzione) passava gli oggetti sul lettore di codice a barre. Ma la mia invenzione non sembra avere attecchito. Deve essere apparsa troppo veloce e quindi troppo pericolosa.
sabato 16 aprile 2011
Riflessioni durante una partita di calcio
Vicino a casa mia c'è un posto che non riesco a definire. E' una specie di bar che serve la birra più economica di Zurigo. Ci sono quattro televisioni che fanno vedere ognuna una partita di calcio diversa. Su una parete ci sono dei computer connessi a internet che nessuno usa. I clienti vengono da ogni angolo del pianeta tranne che dalla Svizzera. Molte delle facce parlano del corno d'Africa: Eritrea, Etiopia, Somalia. E poi ci sono gli slavi: serbi, croati, kosovari. L'unica parola che capisco, quando un giocatore sbaglia un gol, è "Scheisse", merda.
Il padrone oggi fa l'anfitrione. Invece di limitarsi a tirare fuori lattine di birra da mezzo litro, sposta i divani consunti in modo che tutti abbiano la visuale migliore. Da sotto i divani escono montagne di polvere e detriti vari, ma questo è un dettaglio.
Mentre tutti fissano lo schermo con Real Madrid - Barecllona, el clasico, sugli altri schermi si consuma la morte lenta del calcio italiano: Milan-Sampdoria 3 a 0 e Parma-Inter 2 a 0. Per qualche minuto le tre partite si sovrappongono, ma le velocità sono completamente diverse. In Italia tutto sembra girare al rallentatore.
Alla pausa riempio il tempo sfogliando una copia de Il Giornale, abbandonato là chissà da chi. Uno dei titoli in prima pagina dice "Altro che pacifista, odiava Israele". L'articolo parla di Vittorio Arrigoni, l'attivista pro-palestinese ucciso a Gaza da militanti islamisti. Vittorio Arrigoni era arrivato nei territori occupati nel 2008, pochi mesi dopo che io ero partito; non l'ho mai conosciuto. Di lui mi ricordo delle interviste a Caterpillar durante l'operazione "piombo fuso". Mi era parso ideologico e mi aveva ricordato certi italiani che avevo conosciuto in Colombia che sembravano vedere solo le porcherie dei paramilitari e non quelle delle FARC. Ma questa era solo un'impressione: vivere sotto i bombardamenti non facilita certo il distacco oggettivo e l'analisi accademica.
Con tutte le precisazioni del caso, ammiro le persone come Arrigoni che si dedicano anima e corpo a un'idea, che vivono senza badare al risparmio o alla convenienza, rimettendoci a volte la pelle. E' capitato ad un altro ragazzo italiano nel 2006: stava camminando lungo le mura della città vecchia di Gerusalemme, per una strada che ho fatto a piedi tante volte, ed è stato accoltellato da uno squilibrato di Jenin che voleva uccidere un israeliano.
L'articolo de Il Giornale è un ingorgo sintattico prolisso e quasi illeggibile, che ribolle di rabbia. Ricorda a tratti i deliri di Oriana Fallci nel dopo 11 settembre. Lo finisco con una certa fatica, senza riuscire veramente a capirne il senso, tranne il fatto che vuole difendere Israele per un crimine che non ha commesso. Non so se l'autrice abbia anche scritto il titolo (ci sono persone che di lavoro fanno solo quello e a Il Giornale devono avere molto lavoro). Se avessi tempo e voglia, scriverei una lunga lettera al direttore chiedendogli se di Ghandi avrebbe scritto "altro che pacifista, odia la Gran Bretagna". Seppur lieve, c'è una certa differenzta tra l'odio (presunto) e la violenza. Di fronte alla morte, in certi casi, sarebbe meglio tacere.
Il padrone oggi fa l'anfitrione. Invece di limitarsi a tirare fuori lattine di birra da mezzo litro, sposta i divani consunti in modo che tutti abbiano la visuale migliore. Da sotto i divani escono montagne di polvere e detriti vari, ma questo è un dettaglio.
Mentre tutti fissano lo schermo con Real Madrid - Barecllona, el clasico, sugli altri schermi si consuma la morte lenta del calcio italiano: Milan-Sampdoria 3 a 0 e Parma-Inter 2 a 0. Per qualche minuto le tre partite si sovrappongono, ma le velocità sono completamente diverse. In Italia tutto sembra girare al rallentatore.
Alla pausa riempio il tempo sfogliando una copia de Il Giornale, abbandonato là chissà da chi. Uno dei titoli in prima pagina dice "Altro che pacifista, odiava Israele". L'articolo parla di Vittorio Arrigoni, l'attivista pro-palestinese ucciso a Gaza da militanti islamisti. Vittorio Arrigoni era arrivato nei territori occupati nel 2008, pochi mesi dopo che io ero partito; non l'ho mai conosciuto. Di lui mi ricordo delle interviste a Caterpillar durante l'operazione "piombo fuso". Mi era parso ideologico e mi aveva ricordato certi italiani che avevo conosciuto in Colombia che sembravano vedere solo le porcherie dei paramilitari e non quelle delle FARC. Ma questa era solo un'impressione: vivere sotto i bombardamenti non facilita certo il distacco oggettivo e l'analisi accademica.
Con tutte le precisazioni del caso, ammiro le persone come Arrigoni che si dedicano anima e corpo a un'idea, che vivono senza badare al risparmio o alla convenienza, rimettendoci a volte la pelle. E' capitato ad un altro ragazzo italiano nel 2006: stava camminando lungo le mura della città vecchia di Gerusalemme, per una strada che ho fatto a piedi tante volte, ed è stato accoltellato da uno squilibrato di Jenin che voleva uccidere un israeliano.
L'articolo de Il Giornale è un ingorgo sintattico prolisso e quasi illeggibile, che ribolle di rabbia. Ricorda a tratti i deliri di Oriana Fallci nel dopo 11 settembre. Lo finisco con una certa fatica, senza riuscire veramente a capirne il senso, tranne il fatto che vuole difendere Israele per un crimine che non ha commesso. Non so se l'autrice abbia anche scritto il titolo (ci sono persone che di lavoro fanno solo quello e a Il Giornale devono avere molto lavoro). Se avessi tempo e voglia, scriverei una lunga lettera al direttore chiedendogli se di Ghandi avrebbe scritto "altro che pacifista, odia la Gran Bretagna". Seppur lieve, c'è una certa differenzta tra l'odio (presunto) e la violenza. Di fronte alla morte, in certi casi, sarebbe meglio tacere.
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